Intervista a
Mark Jenkins (2012)

----------------
di Beppe Colli
Mar. 4, 2012



Sempre più spesso, guardando in direzione dell'orizzonte, ci ritroviamo a pensare che quelli che vediamo sono molto probabilmente gli ultimi bagliori di un crepuscolo. Con riguardo a quanti, e quali, aspetti della vita sociale è questione sulla quale si può discutere a lungo, lo stesso essendo vero della possibilità che lo stato di cose odierno sia sempre più simile a un piano inclinato dove i processi sembrano aver raggiunto un punto di non ritorno.

Ovviamente è anche possibile essere nel torto, e qui il miglior rimedio è senz'altro il dialogo. Ma con chi? Qui va da sé che il candidato ideale ha da essere sufficientemente inserito nei processi da capirne il funzionamento interno, ma critico in misura bastevole a poter conservare un'autonomia di giudizio che gli consenta di non abbracciare come "ovviamente splendido" lo stato di cose attuale.

Un candidato perfetto? Mark Jenkins, con il quale avevamo già avuto la possibilità di dialogare qualche anno fa. E se allora la nostra conversazione si era focalizzata in una certa misura - ma non esclusivamente - sugli aspetti "interni" al processo di fare musica, adesso era la volta di porre in primo piano gli aspetti "esterni" della cornice per quanto riguarda la critica, il pubblico e il "mondo reale".

Mark Jenkins ha accettato di buon grado di rispondere alle nostre domande, e l'intervista ha avuto luogo mediante posta elettronica la scorsa settimana.


Ieri ho dato un'occhiata a Wikipedia e ho trovato due "Mark Jenkins": uno è un artista americano, l'altro un musicista gallese; ma tu non sei nessuno dei due, vero? Poi ho seguito un link a una pagina del sito della NPR (National Public Radio), dove su di te ho trovato questo: "Jenkins ha trascorso la maggior parte della carriera in quell'industria una volta conosciuta come "i giornali", lavorando tra l'altro come redattore, scrittore, art director, graphic artist e direttore della distribuzione in varie testate oggi morte o sul punto di morire." Dato che la pagina porta la data April 14, 2009 sono davvero curioso di sapere cosa ne è stato di quei giornali "moribondi".

Ci sono tre Mark Jenkins con i quali vengo a volte confuso. Uno scrive di viaggi - le ultime notizie che ho di lui dicevano che viveva nel Wyoming. Ha scritto alcuni pezzi per il Washington Post, così mi è stato chiesto se li avessi scritti io. Il secondo è uno "street artist" conosciuto per le sue "tape-sculpture". Dato che viviamo tutti e due a Washington, la gente a volte crede che siamo la stessa persona. Ma non è così, e non ci siamo neppure mai incontrati. Il terzo è il musicista e autore gallese. Una volta sono stato contattato da un impiegato di una biblioteca universitaria che mi chiedeva se fossimo due persone diverse. (Alcuni dei miei antenati sono giunti nelle colonie dal Galles, così forse siamo parenti alla lontana.)

Sarebbe d'aiuto se il Mark Jenkins gallese seguisse l'ortografia gallese scrivendo il suo nome "Marc Siencyn". O forse dovrei farlo io. E' chiaro che quando ho iniziato a scrivere professionalmente avrei dovuto usare "Mark L. Jenkins" o "M. Leoline Jenkins," o forse "Toure". Ora mi sembra un po' tardi per cambiare.

Dei giornali ancora in vita tra quelli per i quali ho lavorato il Washington City Paper mi sembra quello più in pericolo. E' il "settimanale alternativo" di Washington fondato nel 1981. Ha prosperato dalla fine degli anni ottanta fino ai primi anni dello scorso decennio. Adesso è molto indebolito, sia per effetto di diversi problemi specifici che a causa del generale abbandono della lettura di stampa su carta, in special modo se parliamo di stampa che tratta di notizie.


Come ti ho detto al tempo della nostra precedente conversazione, è stato solo per caso che ho scoperto What Goes On, la rubrica che scrivevi per il Washington City Paper. Ho notato che il mio vecchio link a quei pezzi non funziona più, e anche se ne avevo copiato alcuni devo dire che mi piacerebbe avere accesso all'intera collezione, dato che in un certo senso ormai fanno parte della "storia del rock". Che posso fare?

Il mio ex direttore è in possesso di tutto il materiale del sito del Washington City Paper per il quale il giornale ha tagliato i link. Non ho avuto occasione di parlargliene di recente, ma c'è la possibilità di spostare tutto su un server attivo, se qualcuno trova il tempo di farlo.

Io posseggo le versioni originali dei pezzi di quella rubrica, ma non in formato HTML. Quindi sarebbe più semplice postare le sue versioni di quei pezzi, e non le mie.


Anche se è ovvio che quei pezzi mi piacevano per il loro "contenuto" - e per il tuo "punto di vista" - devo ammettere che la loro lunghezza piuttosto generosa rendeva possibile esplorare in profondità gli argomenti trattati. Mi piacerebbe conoscere la tua opinione riguardo la questione "lunghezza" quando si tratta di scrivere "nel mondo reale". C'è chi ha parlato di "censura ottenuta per mezzo di lunghezze ridotte", ma qui mi riferisco piuttosto alla disponibilità dei lettori di fare "un po' di strada in più", per così dire. Secondo alcuni, anche se è vero che la Rete ci ha liberato dai problemi (di natura fisica, ma anche economica) tipici della carta, oggi la gente è interessata solo a leggere pezzi brevi - e in gran numero - il che renderebbe quella libertà del tutto ridondante. Qual è la tua opinione al riguardo?

La scrittura breve è un'arte, e a volte è il modo migliore di procedere. Ma dovrebbe esserci spazio per ambedue le cose. Mi capita spesso di dover lasciare delle cose fuori dai pezzi a causa di una lunghezza imposta limitata. E quelle lunghezze brevi sono spesso funzionali a lasciare più spazio alla stessa foto promozionale che apparirà su tutte le altre pubblicazioni. In teoria la Rete ti permette lunghezze senza limiti, ma a molti - e io sono tra questi -  non piace leggere articoli lunghi sullo schermo di un computer.

Non ci sono più molte testate statunitensi che praticano il giornalismo "esteso", e non è detto che ciò sia un male. Io leggo regolarmente il New Yorker, e spesso trovo i suoi articoli troppo lunghi.

Se parliamo di articoli, un ostacolo è che oggi i loro protagonisti sono meno "penetrabili". Tom Wolfe, che è stato uno dei miei modelli, passava molto tempo con i protagonisti dei suoi pezzi, e questo gli permetteva di scrivere lunghi articoli dal sapore letterario che però erano completamente basati su fatti. Di questi tempi l'accesso è più limitato, e le stesse persone sono meno disponibili. Ho l'impressione che potresti seguire dei musicisti, o dei registi (o chi vuoi tu) per una settimana e non trarci niente di più di quello che ci ricaveresti in un'ora.

Quello che cercavo di fare in What Goes On era una cosa più "free-form", un tentativo di proseguire la tradizione di critici rock dei primi anni settanta come R. Meltzer (sebbene con una quantità minore del suo personalissimo tipo di "absurdism") e Lester Bangs. E' un approccio che al giorno d'oggi ha pochissimi seguaci. Perfino su blog personali che permettono allo scrittore/proprietario di regalarsi uno spazio senza limiti gli scritti sono di solito brevi e di tono anonimo.

Non credo di aver più la pazienza per leggere recensioni di album della lunghezza di diverse migliaia di parole. Però considero la maggior parte delle recensioni di cinquanta-cento parole del tutto inutili. Non che le mie siano molto più lunghe: le recensioni di album che scrivo per il Washington Post sono di circa duecentodieci parole - le recensioni di concerti sono solitamente lunghe circa trecentocinquanta - e per Blurt di solito vanno da duecentocinquanta a trecentocinquanta.

Lo stile e il contenuto sono ovviamente importanti. Il migliore esempio contemporaneo di recensione lunga di un album è la serie di libri su album "classici" che prende il nome di "33 1/3". Tra quelli che ho letto alcuni sono davvero buoni, ma la maggior parte no.


Qualche anno fa ho notato che avevi fondato un sito, ReelDC, dedicato esclusivamente ai film - una cosa che all'inizio mi aveva sorpreso, dato che l'idea che avevo di te era di qualcuno che si occupava solo ed esclusivamente di musica. Vedo che oggi ReelDC sembra "in sonno". Vuoi parlarmene?

Sono stato un critico cinematografico per il Washington City Paper dal 1986 al 2008. Quando ho smesso di contribuire al giornale - che era stato venduto a nuovi proprietari che lo hanno presto portato alla bancarotta - non mi aspettavo che avrei mai più scritto professionalmente di cinema. E questo è il motivo per cui agli inizi del 2008 ho messo su ReelDC. (Un altro è stato quello di coprire l'ampia offerta di "film di repertorio", cosa che nessun altro fa con sistematicità.) Ma a metà del 2008 ho iniziato a scrivere recensioni cinematografiche per NPR.org. E dagli inizi del 2011 ho iniziato a scrivere con una certa regolarità articoli sul cinema e recensioni di film per il Washington Post. Queste due attività mi hanno tolto il tempo per fare ReelDC. Mi piacerebbe far rivivere ReelDC, almeno per quanto riguarda i "film di repertorio" che vengono proiettati in città, ma non è verosimile che questo accada senza l'aiuto di qualcun altro.

E poi c'è un'altra ragione per la quale ho iniziato a fare ReelDC: per imparare a usare HTML e CSS. Una cosa che non mi è riuscita tanto bene. Se dai un'occhiata al sito ti accorgerai che è molto primitivo. Una volta ero un graphic designer, così ho pensato che sarei riuscito a impadronirmi delle tecniche di Web design. Ma non mi ci sono applicato molto, e mi sono impadronito solo delle basi. Dovrei imparare dell'altro, ma a questo punto non ne ho il tempo. E dato che non mi piace il Web design, ritengo che non gli dedicherò più altri sforzi.


Ho visto che scrivi regolarmente recensioni di film per la NPR, ma non mi è chiaro se collabori anche ad altre sezioni. Dimmi qualcosa in proposito.

Nel 1996, dopo aver lasciato il mio lavoro di art director al Washington City Paper, ho iniziato a scrivere recensioni di musica del luogo per WAMU-FM, un'affiliata locale della NPR. Poco tempo dopo ho iniziato a scrivere recensioni di musica per il programma della NPR chiamato All Things Considered. Ma la cosa ha avuto fine nel 2000, dopo che il mio produttore alla NPR - Bob Boilen, che adesso dirige il sito di All Songs Considered - ha cambiato attività. Ho continuato a fare recensioni di musica per WAMU fino al 2010, quando il mio produttore è andato via e la stazione ha smesso di usare collaboratori che non fanno parte dello staff.

Oggi le mie recensioni cinematografiche per il sito della NPR sono gli unici pezzi che faccio per questo network radiofonico.


Oggi ho passato un po' di tempo a dare un'occhiata alla lista dei film che hai recensito per la NPR. Ho letto le tue recensioni di 'Magic Trip': High Times With The Merry Pranksters (August 4, 2011) e di 'Mr. Foster': A Man And His Buildings (January 26, 2012). Quella del documentario su Norman Foster mi ha ricordato che ti sei anche occupato di architettura e urbanistica, ma non mi è chiaro quale sia il tuo background per quanto riguarda queste discipline. Parlamene.

Sono quasi completamente autodidatta in tutte le cose di cui mi occupo. La mia istruzione formale è di tipo generalista/classicista. Vivere a Washington è certamente uno dei motivi principali che ispirano i miei interessi nell'urbanistica e nell'architettura; per gli standard americani è una città poco usuale, con una planimetria stradale barocca (inizialmente opera di un francese), una densità di popolazione relativamente alta e nemmeno un grattacielo. C'è anche un continuo clamore a proposito del suo sviluppo urbano, che è una delle più importanti industrie locali e un fattore di enorme influenza sulla politica cittadina. Mi piacciono le città, non ho la macchina, e se parliamo di architettura contemporanea sono solitamente scettico - non tanto per il suo aspetto, ma perché la ritengo ostile al tessuto della vita urbana.


Mi pare di capire che oggi il tuo lavoro principale sia al Washington Post - uno dei più famosi giornali americani, e anche uno degli ultimi vecchi colossi del settore rimasti in vita. Di cosa ti occupi esattamente al Post?

Mi occupo di parecchie cose. Ho cominciato a scrivere per il Post da freelancer a metà degli anni ottanta, all'inizio facendo recensioni di musica "rock" (di solito di artisti meno mainstream, più sperimentali o non-euro-americani). E per lo più è quello che ho fatto da allora, e scrivo ancora questo tipo di recensioni, anche se in misura minore di quanto non facessi una volta. Il calo nel numero delle cose che mi viene proposto di fare è in parte, e forse in larga parte, causato dal fatto che negli ultimi anni il Post si è molto rimpicciolito.

In un modo che è variato insieme ai miei rapporti con vari caporedattori, ho scritto anche articoli e recensioni di musica e di cinema, e di tanto in tanto anche altre cose. A partire dagli inizi del 2011 ho fatto per il Post molto più lavoro in qualità di freelancer, dato che nel corso degli ultimi anni il Post ha tagliato il suo staff a tempo pieno in un modo significativo. Coprivo il lavoro di uno dei critici di arti visive quando era in vacanza o indisposto; la scorsa primavera ho iniziato a scrivere una rubrica settimanale sulle gallerie d'arte locali. Di tanto in tanto scrivo di musei d'arte, presenti in gran numero a Washington, ma c'è un altro critico che di solito se ne occupa in pianta stabile.


Ho letto due pezzi che hai scritto per il Post (Musical History Tour: Joe Boyd and Robyn Hitchcock revisit the '60s, March 8, 2011; e Indian music finds its niche in Washington area with intimate house concerts, June 24, 2011) e mi hanno fatto pensare a tutta la faccenda di suonare dal vivo, che direi un argomento interessante in un posto vivace come quello dove vivi (una volta mi hai parlato di due club, The Black Cat e 9:30, sono ancora aperti?).

Il 9:30, che può contenere 1.200 persone (e che alcuni considerano il club "rock" di maggiore successo della nazione), e il Black Cat, che ne può contenere 800, stanno ancora prosperando. C'è anche un certo numero di locali più piccoli, e ci sono anche dei posti part-time. Nel corso dell'ultimo anno hanno aperto due posti discretamente grandi, e un terzo debutterà in aprile.

Il Fillmore, che ha aperto nel settembre del 2011 e che può contenere 2.000 persone, fa parte di una catena posseduta da Live Nation, il più grosso organizzatore di concerti della nazione. Hanno avuto un altro locale qui per anni, ma ha chiuso nel 2006 quando la zona in cui si trovava, un'area di magazzini all'ingrosso, è stata oggetto di un programma di sviluppo su vasta scala. (Vedi la risposta sull'urbanizzazione.) Live Nation e 9:30 sono acerrimi nemici, e si combattono sul controllo esercitato dal primo sulla maggior parte degli anfiteatri all'aperto della nazione (definiti in gergo "sheds", recinti). Fino a oggi il Fillmore non sembra aver fatto molto danno al 9:30 e al Black Cat. Tutti e tre sono locali da posti in piedi, con pochissime sedie.

Quest'anno il 9:30 ha iniziato a fare spettacoli al U Street Music Hall, un club che è specializzato in electronic dance music. E' anche in trattative per fare spettacoli in un posto che dovrebbe sorgere in un'altra sezione della città che attualmente viene ridisegnata.

Un altro posto nuovo è l'Hamilton, in grado di contenere 500 persone, che si rivolge a gente più adulta alla quale piace stare seduta, consumare pasti completi e ascoltare musica degli anni cinquanta, sessanta e settanta. E' in diretta competizione con un club suburbano, il Birchmere, che offre la stessa formula (anche se il tono è un po' meno alto). Il Birchmere è il posto dove Joe Boyd e Robyn Hitchcock si sono esibiti l'anno scorso.

Ad aprile aprirà l'Howard, con una modalità flessibile che permetterà spettacoli da vedere sia in piedi che da seduti; avrà anche una cucina in grado di servire piatti. Un posto decisamente essenziale che una volta serviva una clientela afro-americana e che per tanto tempo è rimasto chiuso e viene ora rinnovato e alzato di tono.

Ritengo notevole il fatto che i locali esistenti sopravvivano e che il loro successo sia tale da attirare nuovi concorrenti. I baby boomer vanno ancora a vedere concerti, anche se adesso vogliono stare comodi, e si possono permettere di pagare biglietti dai prezzi che a me sembrano assurdi. (Finora il prezzo massimo per l'Hamilton's è stato di 100 dollari.) E ai fan più giovani, che spesso sembrano attaccati per via endovena ai loro telefoni e televisori, piace molto vedere i loro idoli in carne e ossa. (Osservo che persino in presenza dei loro idoli molti giovani ascoltatori sembrano essere molto più occupati con i loro telefoni cellulari; mandano messaggini ai loro amici e si fanno foto tra loro in misura almeno pari a quanto guardano verso il palco.)

Dato che assisto con regolarità a concerti di musica dal vivo non mi piace molto ascoltare musicisti che si limitano a riprodurre quanto c'è già nelle loro registrazioni. E mi annoia quasi tutta la musica che è essenzialmente pre-programmata. Invece di fare qualcosa di rischioso dal punto di vista musicale moltissimi performer contemporanei fanno molta scena allo scopo di non far notare quanto la loro musica è scontata. I risultati vanno dallo stupido al ridicolo, ma forse non la penserei allo stesso modo se non fossi andato a vedere concerti per alcuni decenni.


Parlando di musicisti, suonare dal vivo era considerata l'ultima speranza di sopravvivenza economica loro rimasta in un'epoca in cui le vendite di musica sembrano svanire rapidamente. Vendere T-shirt e CD autoprodotti ai concerti avrebbe loro consentito di sopravvivere. Dal tuo punto di vista, come ti pare la situazione di oggi?

Non ho niente di nuovo da dire in merito. Al giorno d'oggi ci sono molti modi in cui un musicista si può guadagnare da vivere, ma suonare dal vivo, vendere il proprio merchandising e dare in licensing le proprie canzoni a film, show televisivi e pubblicità sembrano essere i principali. Ovviamente Adele ha fatto un sacco di soldi con il suo ultimo CD. Ma per la maggior parte degli altri le cose non vanno così.

Non c'è un grande cambiamento per gli artisti poco commerciali di rock alternativo o difficile. Però anche loro non possono più sperare realisticamente di avere un bestseller inatteso, o di accumulare un catalogo che venda lentamente ma con continuità.

E però la quantità di musica continua ad aumentare, come pure il numero dei gruppi che vanno in giro. Il mutare delle tecnologie che sostengono l'industria musicale ha aumentato il divario tra chi ha e chi non ha. Fondamentalmente, però, mi sembra che le cose siano cambiate più per le case discografiche che per i musicisti.


Mi pare di poter dire che quando si tratta di arti "popular" come musica e cinema, i giornali e le riviste si avvalgono sempre più di "dilettanti ispirati" invece che di validi professionisti, quello di J. Hoberman essendo solo il più recente dei casi in cui un critico molto stimato ha perso il lavoro. Vedi tutto ciò come qualcosa che ha ormai oltrepassato il punto di non ritorno?

Sì. Non direi che tutti i nuovi scrittori siano dei "dilettanti", ma è vero che sono in prevalenza più giovani, con meno esperienza e con minore conoscenza. Hoberman potrebbe essere un caso a sé; è uno dei miei critici preferiti, ma è anche un critico "difficile" che probabilmente respingeva i lettori più giovani.

Di solito, la maggior parte dei lettori vuole una recensione semplice del tipo favorevole-sfavorevole. Spesso non accolgono con favore una scrittura più colta e con un maggior numero di sfumature. E c'è anche un divario generazionale. Di recente il Post ha pubblicato la lettera di un fan di sessantadue anni che si lamentava di non capire le recensioni di album del giornale o la scelta dei concerti da coprire. (Avrebbe voluto vedere recensito un recente concerto di Ray Manzarek/Robbie Krieger al Birchmere; e probabilmente neppure io avrei deciso di coprire quell'evento, se avessi avuto la possibilità di scegliere.)

Non c'è molto mercato per i critici che hanno iniziato negli anni sessanta e settanta mescolando un entusiasmo per la cultura pop e una comprensione più profonda dei suoi antecedenti. Mi capita spesso di fantasticare di una pubblicazione di nicchia a carattere nazionale che potrebbe fornire un posto adatto a questi scrittori. I "giornali alternativi", a ben considerare, non lo fanno più. Ma è difficile coordinare recensioni di film d'arte e indie che colano per tutta la nazione dopo essere stati mostrati al pubblico, per lo più, solo a New York e/o Los Angeles.

Una cosa ironica è che buttando fuori critici di grande esperienza i giornali con tutta probabilità non acquistano lettori più giovani. Il Post pubblica molte cose su artisti pop, electro e hip-hop che piacciono a chi ha meno di venticinque anni. Ma la maggior parte dei loro fan non legge il Post, ed è verosimile che non lo farà mai. E mentre i seguaci locali di Katy Perry possono trovare in Rete un pezzo del Post su di lei, è ancora più probabile che ne trovino uno di un altro giornale. Quando si tratta di cultura pop la Rete distrugge ogni stretto legame con i giornali locali.


So che hai un giradischi. Cosa ci suoni?

Mi spiace dirlo, quasi niente. Mi piace il vinile, ma usare così tanti formati è complicato. La maggior parte della musica che recensisco di questi tempi mi arriva via download, e la ascolto su un computer o su un riproduttore per MP3. Ho anche un riproduttore-registratore in formato MD (che di questi tempi uso soprattutto per registrare interviste, anche se a volte ascolto assemblaggi di musica su MD). Ho ancora un mucchio di dischi, ma la maggior parte della musica che contengono è stata ripubblicata su CD, e di solito è più facile allungare una mano e prendere un CD. Tirerei fuori i vecchi dischi più spesso se ascoltassi di più musica vecchia, ma a causa dei miei carichi di lavoro ascolto soprattutto musica nuova.

La frammentazione dei formati mi infastidisce. (C'è perfino un mini-revival delle cassette!) Sono cresciuto con i dischi, le riviste e i libri in formato paperback, e mi piaceva il fatto che del buon "contenuto" fosse disponibile a poco prezzo e con facilità. Non mi piacciono il DRM, le uscite in tiratura limitata e il fatto che ci sia della musica che è disponibile solo in alcuni canali di vendita o siti. In linea teorica "tutto" è disponibile in Rete, ma in pratica non credo che questo sia vero. Una parte del problema, ovviamente, sta in questa enorme abbondanza. C'è davvero troppa roba da passare al setaccio.


© Beppe Colli 2012

CloudsandClocks.net | Mar. 4, 2012