Intervista a
Francis Davis

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di Beppe Colli
March 16, 2004



Crediamo proprio che il primo articolo di Francis Davis da noi letto sia stato un profilo critico di Roscoe Mitchell apparso una ventina d'anni fa sul mensile statunitense Musician. Facile apprezzare le qualità di Davis, più arduo leggerlo: la maggior parte dei suoi pezzi, infatti, veniva pubblicata su stampa statunitense di non agevole reperibilità per chi scrive, si trattasse di quotidiani (New York Times, Philadalphia Inquirer) o periodici (The Atlantic Monthly, The New Yorker, Stereo Review e The Village Voice). Estremamente benvenuta fu quindi la sua prima raccolta di articoli e recensioni intitolata In The Moment (1986), cui fecero seguito le altrettanto valide Outcats (1990) e Bebop And Nothingness (1996).

Molte le ragioni che hanno fatto di Francis Davis uno dei critici più autorevoli e apprezzati del panorama statunitense. Com'è ovvio, un'invidiabile competenza sugli argomenti trattati: il jazz, innanzitutto, ma anche - e negli ultimi anni in misura crescente - il rock e il pop, non tralasciando quelle occasioni in cui teatro, cinema e televisione offrono prodotti nei quali la musica gioca un ruolo non accessorio. Poi, un'indiscussa capacità di analisi del linguaggio musicale offerta in modo profondo ma chiaro - e quindi tale da non respingere l'ascoltatore occasionale o "istintivo". Inoltre, un approccio che non di rado pone il fatto musicale all'interno di una cornice culturale più ampia ma in cui il "cultural signifier" non diventa mai la cortina fumogena dietro la quale diventa pressoché impossibile scorgere la musica. Infine, uno stile scorrevole - ancorché colto - ed estremamente piacevole alla lettura, dove l'argomentazione si permette frequenti e spesso illuminanti deviazioni senza però mai perdere di vista il punto cruciale della questione.

Like Young (2001) era la più recente raccolta di suoi scritti quando - lo scorso anno - lo abbiamo contattato via e-mail chiedendogli se fosse disposto a rispondere ad alcune domande. Nonostante i numerosi impegni, Davis ha gentilmente accettato. Le risposte sono giunte un paio di giorni fa. Rimane quindi esclusa dalla conversazione la più recente raccolta, in corso di stampa mentre scriviamo: intitolata Jazz And Its Discontents: A Francis Davis Reader (DaCapo), include selezioni dello stesso Davis da In The Moment, Outcats e Bebop And Nothingness, oltre ad alcuni pezzi mai apparsi in volume.


L'album di esordio di Norah Jones per la Blue Note ha venduto milioni di copie e ha vinto molti Grammy. (Un rifacimento del suo "successo a sorpresa", Don't Know Why, compare sul recente CD di Pat Metheny, One Quiet Night.) Andando al sodo, è questo che intende "l'Americano Medio" per "un pezzo jazz" e "un artista jazz", o ciò vale solo per quanto riguarda la stampa?

Buona domanda. Solo per la stampa, direi, e non per i milioni di persone che hanno comprato il suo primo CD e che probabilmente lo considerano pop - proprio come me. Sento come un'influenza di Vince Guaraldi nel modo in cui suona il piano su Don't Know Why, ma non la considero una cantante jazz. Il suo modello come cantante - consciamente o no - sembra essere Stevie Nicks dei Fleetwood Mac piuttosto che Billie Holiday. Come autrice di canzoni somiglia a Carole King, anche se ne è alquanto lontana per quanto riguarda la bravura.

Però non ritengo neppure Cassandra Wilson, per esempio, una vera cantante di jazz, e a dire tutta la verità Norah Jones mi piace un po' di più, o mi dà fastidio un po' di meno, perché lei non è altrettanto pretenziosa. In un certo senso, che importa se qualcosa è jazz? Il novantacinque per cento della grande musica del mondo, fin dagli inizi del tempo, è stato qualcos'altro, e non jazz. Ma l'unico problema del considerare Norah Jones jazz è che farlo crea delle aspettative di vendita irrealistiche per tutti gli altri. Le grosse case discografiche non saranno certo soddisfatte da uno strumentista o da un altro cantante che venda solo trenta o quarantamila CD, cosa che una volta sarebbe stato considerata decisamente rispettabile. Vogliono un altro jackpot, un'altra Norah Jones.


Nella tua prima raccolta, In The Moment, hai parlato della "Rivoluzione permanente di Ornette Coleman". Dopo (per fare un nome) il Rova Saxophone Quartet, chi ritieni stia facendo un lavoro valido (in termini strutturali, compositivi) nel "campo del jazz" (qualunque sia il significato che attribuisci a questa parola)? Se non sbaglio, hai segnalato il trombettista e compositore Dave Douglas quale una delle realtà più vitali del jazz in tempi recenti. Si è dimostrato all'altezza delle tue aspettative? Ci sono altri nomi che vorresti aggiungere alla lista?

Dave Douglas si è certamente dimostrato all'altezza... mi sento più a mio agio dicendo "del suo potenziale" piuttosto che "delle mie aspettative", perché le aspettative - le mie o quelle di qualsiasi altro critico - non dovrebbero essere una preoccupazione per Douglas o per qualsiasi altro musicista. Oggi sta lavorando più vicino al mainstream di quanto non fosse cinque o sei anni fa. Voglio dire, Strange Liberation, il suo CD più recente, prende come punto di partenza il Miles Davis e il Wayne Shorter degli anni sessanta nello stesso modo di Black Codes From The Underground di Wynton Marsalis, l'unica differenza - una differenza importante - essendo che mentre il punto di partenza di Marsalis era Miles Smiles o Sorcerer, quello di Douglas è Miles In The Sky o Filles De Kilimanjaro, dove Miles e il suo gruppo cominciavano a incorporare elementi di progressive rock, comprese le tastiere elettriche e un feel di tempo in 8/4. Ma Douglas lo sta facendo in modo superbo, riuscendo a fare di più con gli stessi materiali di base di quanto non sia riuscito a fare Wynton, a mio parere.

Gli altri musicisti giovani (o abbastanza giovani) che stanno facendo davvero qualcosa di diverso e di entusiasmante, almeno quelli che mi vengono in mente adesso, sono tutti pianisti - Matt Shipp, Vijay Iyer, Jason Moran. Non so se qualcuno di loro descriverebbe la cosa in questo modo, ma mi sembra che tutti loro prendano quale punto di partenza il primo Cecil Taylor, continuando alcune delle cose che lo stesso Taylor abbandonò quando la sua musica si aprì maggiormente alla fine degli anni sessanta.

Ciò detto, la roba che ho ascoltato recentemente che mi ha entusiasmato di più tende a essere fatta da musicisti che hanno sessanta o settant'anni. Penso a Wayne Shorter, Andrew Hill, Steve Lacy, Roswell Rudd, Sam Rivers, Misha Mengelberg, Ornette - gente come questa. In generale, credo che il periodo attuale non sia eccitante come... beh, non devi per forza ritornare alla rivoluzione be-bop della fine degli anni quaranta o al free jazz degli anni sessanta. Gli anni ottanta sono stati un periodo tremendamente fertile, grazie a strumentisti e compositori come Henry Threadgill, John Carter, Muhal Richard Abrams, Julius Hemphill e Anthony Davis, tutti loro mettevano in discussione la natura stessa del jazz, cioè a dire la relazione tra composizione e improvvisazione. Ma di fatto non se ne accorse nessuno, dato che commercialmente la musica era in secca. Ma allora ci fu una grande fioritura. Spero che non si riveli essere stata l'ultima.


Nella tua più recente raccolta di articoli, Like Young, hai incluso un pezzo sulla serie televisiva di Ken Burns intitolata Jazz. Sarei curioso di sapere se il piccolo boom di vendite di dischi di jazz verificatosi negli Stati Uniti a seguito della serie si è poi rivelato essere una realtà permanente o un fenomeno di breve durata.

E' stato un fenomeno di durata estremamente limitata, e gli unici CD che hanno ricevuto una certa spinta dal programma sono state le antologie che hanno avuto il traino dalla serie.


Vedo che da qualche tempo Down Beat ha iniziato a indicare alla fine delle recensioni dei CD gli indirizzi dei siti web dove è possibile acquistarli. Qual è la situazione attuale in fatto di distribuzione di CD di jazz - sia di grosse case discografiche che di indipendenti - in negozi, catene ecc.?

Beh, io vivo a Philadelphia, che è una città discretamente grande, e mi reco a New York abbastanza spesso. Quindi in teoria dovrei essere in grado di mettere le mani su qualsiasi CD io cerchi. Invece mi ritrovo a ordinare sempre più spesso online, dato che mi capita di leggere a proposito di qualcosa, o di sentire parlare di qualcosa, che poi non riesco a trovare nei negozi di Philadelphia o di New York. E mi ritrovo a comprare CD ai concerti - uno degli aspetti più belli dell'annuale Vision Festival a New York è che c'è sempre un tavolo sul retro dove si vendono CD che non ho visto da nessun'altra parte, di solito pubblicati dagli stessi musicisti. Ma sì, in effetti la distribuzione negli Stati Uniti è decisamente schifosa. E' un vero problema. Le grandi catene hanno fatto fallire un sacco di piccoli negozi specializzati, e adesso anche loro stanno passando dei guai, e ogni giorno che passa distribuiscono un numero sempre minore di articoli specializzati. Il web è venuto in soccorso, fino a un certo punto, ma non sarà mai un buon sostituto dei negozi per gente come me, che gode dell'aspetto sociale dello stare a curiosare tra i dischi.


In Like Young hai incluso anche pezzi su Brian Wilson, Bob Dylan, Burt Bacharach e i Velvet Underground. Ci sono artisti "pop/rock" di oggi che ti piacciono? Conosci i Phish?

Li ho sentiti abbastanza per sapere che non sono interessato, proprio come non sono mai stato interessato ai Greatful Dead. Se tutto quello che chiedo alla musica fosse un ruminare senza fine... beh, ce n'è già fin troppo nel jazz. Quello che voglio dal pop sono le cose che il jazz non può darmi, a cominciare da canzoni di buona fattura.

Chi mi piace adesso? Beh, tendo ad apprezzare il tipo di cose che piacciono alla gente bianca di mezza età che ancora si scomoda per il pop. Björk, OutKast, Beck, Radiohead, e un sacco di questo e quello. Non mi scomodo per sentire le cose, cosa che invece faccio con il jazz. Ascolto qualcosa in un film o vedo un gruppo che si esibisce in televisione e decido che mi piace. E' tutto molto casuale, ma forse è proprio il modo in cui il pop deve funzionare.

D'altro canto, è nello stesso modo che ascolto moltissimi dischi che mi indispongono. This Is My Vietnam di Pink, per esempio, è senz'altro una delle cose più stupide che abbia mai ascoltato - forse il mio disco più sgradito dai tempi di I'm Like A Bird di Nelly Furtado (lei è come un uccello, esatto - un uccello cinguettante). E la maggior parte del rap che ascolto, o per meglio dire che mi capita di sentire, è ottundente nella sua stupidità, o nell'orgoglio che dimostra per la sua stupidità.

Per quel che può valere, ascolto ancora un sacco di cose vecchie - e anche alcune cose nuove - della gente che hai menzionato, oltre a Kinks, Neil Young, Al Green, Richard Thompson, Bryan Ferry, Leonard Cohen e altri eterni preferiti. Ma non si tratta solo di nostalgia. Per fare un esempio, penso di sentire nei dischi di Neil Young dei primi anni settanta cose che ai tempi mi erano completamente passate sopra la testa. E' come se quei dischi siano in un certo senso maturati insieme a me, se è un concetto che ha senso.


Di recente ho riletto il tuo pezzo su Burt Bacharach, che - come la maggior parte dei tuoi pezzi che ho letto - è molto lungo e articolato. Per quella che è la mia esperienza, la tendenza di oggi è di avere pezzi che somigliano più a dei "bocconi" - una "lettura veloce" - su giornali che puoi "sfogliare", in special modo se si tratta delle pagine "d'arte". Qual è la tua opinione in merito? E, a questo proposito, qual è la tua opinione dei giornali in Rete? (Mi pare di ricordare che nella sua recensione di Like Young apparsa su The Wire, Ben Watson ha scritto che i tuoi lettori molto istruiti erano un lusso che lui non aveva.)

Se la memoria non mi inganna, ha scritto che i lettori agiati dell' Atlantic Monthly godevano del privilegio di un tempo libero che permetteva loro di leggere pezzi lunghi come i miei. Il che è una sciocchezza - una teoria marxista non messa al passo dei nuovi tempi. Oggi negli Stati Uniti, con la sola eccezione di coloro i quali hanno ereditato la ricchezza che possiedono, più soldi fai e meno tempo hai. E suppongo che sia così nel resto del mondo. Non ci sono più lavori da quaranta ore settimanali.

Vedendo la questione più ampiamente, a proposito della grande lunghezza di alcuni dei miei pezzi: a dire il vero, i miei capiredattori sarebbero deliziati se scrivessi pezzi più brevi. (E quello che leggi scritto da me sul giornale, compreso il pezzo su Bacharach, è solitamente accorciato in misura considerevole rispetto a quello che ho consegnato. Nei miei libri ripristino parte del materiale tagliato.) Mi permettono di scrivere cose così lunghe perché... beh, perché tendo a scrivere cose lunghe, come dicono nell'ambiente dei periodici e dei quotidiani, e perché sono in quel giornale praticamente da sempre e quindi mi si mostra una considerazione che non sarebbe estesa a qualcuno che cominciasse a collaborare solo adesso.

Perché scrivo pezzi così lunghi? In parte è per motivi di contesto. Mi rivolgo a lettori che non sanno quasi niente su, per esempio, Wayne Shorter, e quindi devo spiegare cose che sarebbero date per scontate se scrivessi su di lui su un giornale di musica. Ho bisogno di esplicitare chi è, e perché vale la pena di parlare di lui - e già solo per far questo ci vogliono molti pollici di stampa. Allo stesso tempo il pezzo deve contenere delle idee; idee che trascendono la musica o la questione del se il nuovo CD di qualcuno è buono o no, perché a prescindere dal tempo libero o dal livello di cultura dei miei lettori, devo catturare la loro attenzione velocemente e trattenerla per alcune migliaia di parole. Voglio dire, dopo tutto nello stesso numero potrebbe esserci un articolo sul futuro dell'Islam o qualcosa del genere, ed è con quello che competo. Non è come se cercassi di fornire l'ultima parola su Wayne Shorter (per usarlo come esempio) o perfino la prima parola. Se parliamo della maggior parte dei lettori dell'Atlantic, quello che sentono da me è l'unica parola che sentiranno mai su di lui.

Per finire, però, scrivo pezzi lunghi perché questa è la mia natura. Credimi, ammiro la brevità. Solo che non sembro essere capace di ottenerla.


Al momento stai scrivendo solo per giornali statunitensi? Una volta scrivevi dei pezzi per The Wire, ma ora non più?

Ho scritto per The Wire quando il direttore era Richard Cook, e per un po' di tempo dopo che se n'è andato. Ma a poco a poco hanno perso interesse per il jazz, e - suppongo - anche per me. Così, sì, tutti i giornali per i quali scrivo adesso sono americani. Ma questo non dovrebbe essere scambiato per sciovinismo. E' solo come stanno le cose. Scriverò per chiunque, se mi pagano abbastanza, mi danno abbastanza spazio, e mi permettono di decidere in autonomia su chi e che cosa scrivo.


Uno dei temi che attraversavano Bebop And Nothingness era quello che hai chiamato "la mercificazione della giovinezza". A questo proposito, qual è la tua opinione di cantautrici quali Ani DiFranco, Lucinda Williams, Aimee Mann e Lisa Germano, che (con diversi gradi di successo) trattano temi "adulti" in modo "adulto"? Sono popolari negli Stati Uniti?

Suppongo siano abbastanza popolari, ma neppure lontanamente popolari come Pink o Eminem o Britney Spears. Mi sono ritrovato ad apprezzare moltissimo Aimee Mann, in special modo dopo aver ascoltato le sue canzoni nel film di Paul Thomas Anderson Magnolia. Anche Lucinda Williams mi piace, anche se non nella maniera così appassionata di persone che conosco. Quello che ho sentito di Ani DiFranco mi è sembrato abbastanza sciocco, e non so se ho mai sentito Lisa Germano.

E' difficile esprimere un punto di vista "adulto" nel pop, dato che il modo in cui il pop si è evoluto a partire dagli anni cinquanta ha a che fare in modo preponderante con la gioventù e la sua espressione. Alcune delle donne che citi di tanto in tanto ci riescono, ma molti dei cantautori più adulti, più cresciuti che sento sono inclini a drammatizzare quanto una principessina di diciott'anni o un gangsta rapper.


Hai visto i Rolling Stones durante il loro recente tour statunitense?

No. Li ho visti nel 1972, e persino allora sembravano troppo vecchi per quello che facevano. Rabbrividisco al pensiero di come devono essere oggi.


© Beppe Colli 2004

CloudsandClocks.net | March 16, 2004