E i soldi?
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di Beppe Colli
July 14, 2015



Bassista, cantante, autore e - forse soprattutto - "mente progettuale" del famoso gruppo rock statunitense denominato Kiss, Gene Simmons non è certo tipo da evitare controversie, soprattutto quando queste possono costituire una buona fonte di pubblicità per se stesso e il suo gruppo. Non ha quindi stupito leggere di recente - le sue dichiarazioni a Planet Rock sono state rilanciate, tra gli altri, dal sito Blabbermouth in data 19 giugno con il titolo di Fans killed the music industry infrastructure that is needed to support new artists - che non le case discografiche, ma i fan, sono da ritenersi primi responsabili per il corrente stato delle cose.

"Do la colpa ai fan. Perché sono i fan ad aver deciso in massa - in altre parole, le masse hanno deciso - che è loro diritto avere musica gratis, scaricare, e scambiarsi i file." (...) "Sono loro ad aver distrutto l'infrastruttura."

Questo il ragionamento di Simmons: ormai i Kiss sono un'entità commercialmente solida da troppo tempo per averne a soffrire in un modo che possa mettere a repentaglio la loro esistenza, ma distruggendo l'infrastruttura che fungeva anche da "prestatore di ultima istanza" i fan hanno distrutto la possibile base di esistenza dei futuri Elvis, Beatles e Kiss.

Il 9 luglio le dichiarazioni di Simmons sono sembrate trovare un'eco in quelle che Peter Mensch - manager dei Metallica, ed ex manager di gruppi quali Smashing Pumpkins, Red Hot Chili Peppers e Def Leppard - ha rilasciato al programma radiofonico della BBC chiamato Today. "Oggi con le vendite di dischi e con lo streaming si guadagna un decimo di quello che si guadagnava prima." (...) "Invece di possedere la musica, quello che agli amanti di musica oggi interessa è la praticità - che per loro vuol dire avere una raccolta delle loro canzoni preferite."

Le dichiarazioni di Simmons - per la verità, non nuove - hanno dato origine a un succoso dibattito sul forum del noto tecnico del suono Steve Hoffman: trenta pagine in pochi giorni. A memoria, verso pagina diciotto, qualcuno ha scritto: Non intervengo perché questo tipo di discussioni di solito fa emergere il peggio dai partecipanti a questo forum, e mi pare che sia proprio quello che sta accadendo.

Ma cosa era stato detto?


Con nostra grande sorpresa, molti tra gli intervenuti avevano attaccato Simmons in ragione della scarsa qualità della musica prodotta dai Kiss. E quindi considerazioni quali: Proprio tu parli?, Sono stati gruppi come i Kiss a distruggere la musica, Se la mancanza dell'industria vuol dire che non vedremo più gruppi come i Kiss allora evviva!, e via dicendo.

Più interessante leggere le argomentazioni di quanti attaccavano Simmons non per quel che era, ma per quel che aveva detto. Molto succintamente, possiamo riassumere le argomentazioni in questo modo:

i tempi dei gruppi che andavano a champagne, groupies e cocaina sono finiti, rassegnatevi;

tutte le occupazioni e mestieri d'America sono in crisi, perché i musicisti dovrebbero fare eccezione?

i musicisti possono sempre fare concerti e vendere magliette e CD, perché si lamentano?

le case discografiche hanno sempre truffato i musicisti, perché rimpiangerle?

i musicisti migliori non hanno mai guadagnato niente e hanno dovuto fare altri mestieri, perché quelli di oggi vorrebbero un trattamento diverso?

i musicisti devono smettere di pretendere di usare le case discografiche e i manager come stampella e imparare a gestire in prima persona la loro carriera incidendo le loro canzoni su un computer, avendo un sito attivo con tanti video e inediti, tenendo vivi i rapporti con i fan, regalando la loro musica, diventando imprenditori di se stessi - e come in ogni altra attività economica, chi non è un buon imprenditore non può certo attendersi di rimanere a galla.

Il tono, anche da parte di persone che abbiamo ragione di credere non più giovani, ci ha ricordato quello di chi, ai tempi del Punk, considerava "dinosauri" da abbattere i gruppi più in voga all'epoca, predicando un ritorno alla "povertà delle origini". Sappiamo com'è finita, con i "dinosauri" - Beatles, Stones, Floyd, Zeppelin, Elton John, Billy Joel, Eagles e via dicendo - vivi e prosperi ancora oggi, e le piccole entità che si ostinavano a fare "musica difficile" lasciate a morire per asfissia.

Ma ovviamente c'è dell'altro.


E' ben possibile che il corrente stato di cose sia irreversibile. Ed è ovvio che per chi è stato socializzato in tempi di musica scaricabile il gesto non ha più alcuna connotazione "piratesca" o "di sfida", essendo semplicemente un fatto "naturale". Soprattutto oggi che la pratica dello scarico è rimpiazzata da quella dello streaming, che abolisce il dibattito sul "possesso" mentre mette in sottofondo quello sul "giusto compenso": chi "paga" - accettando pubblicità, o in contanti - non ha alcun motivo di interessarsi di come gli "incassi" vengono suddivisi.

Ma anche se la situazione fosse irreversibile resta da mettere in chiaro quello che stiamo perdendo.

L'insieme chiamato "case discografiche" - un'entità che qui implica distributori, promoter, stampa e così via - ha costituito un'entità "tecnica" pronta a essere usata.

Non tutti gli artisti fanno musica adatta a essere suonata dal vivo, o sono costituzionalmente adatti a un rapporto ravvicinato con il pubblico. Pretendere il contrario vuol dire condannare all'oscurità gente come Tod Dockstader o Nick Drake. Certo, Nick Drake potrebbe incidere a casa e mettere i file in Rete. Ma chi se ne accorgerebbe? Le poche copie da lui vendute ai tempi erano bilanciate da accesso selettivo per fare il disco, prestigio dell'etichetta Island, fama di tecnico e produttore, gusto dei recensori, possibilità "autonome" dei programmi radio.

Gli Henry Cow sono stati veicolati dalla Virgin e resi disponibili dall'etichetta che ne stampava i dischi, da chi li recensiva e da chi li trasmetteva in radio. Avremmo mai saputo della loro esistenza, in condizioni diverse? Qualcuno crede ancora che essere visibili equivalga ad avere delle chance di poter essere visti?

Lungi dall'essere un'opportunità, l'essere "imprenditore di se stesso" condanna l'autore di un romanzo a essere anche il protagonista del film da esso tratto. E se è vero che le vendite costituiscono una parte minuscola del profitto, ne consegue necessariamente che diventano parte integrante di un'impresa tutti quegli ambiti - sponsorizzazioni, video costosi, campagne "virali", fan club fasulli, fabbriche di pettegolezzi e così via - che promettono ingenti ritorni. Quale sia il livello massimo di complessità musicale compatibile con questa cornice è cosa che ognuno capisce da sé.


Invitiamo il lettore a un piccolo esercizio: ascoltare i primi minuti - un manuale di come la coppia basso-batteria può pronunciare gli accenti - del brano conclusivo di Fragile degli Yes, Heart Of The Sunrise. Oppure il brano per intero. Poi riflettere sul fatto che al tempo Fragile fu un Top 10 negli Stati Uniti, suonato in concerto, influente su Todd Rundgren, allora, e su Trent Reznor, poi. Trasmesso per radio, e modello per tanti musicisti. (Questo è anche il nostro piccolo omaggio a Chris Squire, recentemente scomparso.)

La "struttura disponibile" comprendeva anche la miriade di studi, microfoni, tecnici, musicisti e know-how. E' possibile che Berlin di Lou Reed sia stato inciso in un paio di settimane, ma è ovvio che nella cornice odierna incidere un altro Berlin sarebbe impossibile. Essere a Londra voleva dire avere a portata di session gente come Jack Bruce e Aynsley Dunbar, chiamare Steve Winwood per una passata di harmonium e B.J. Wilson per fare due pezzi. (E' possibile che Wilson abbia fatto tutto nel classico turno di tre ore, ed è possibile che con il costo di quella session oggi si possa comprare un bel plug-in...) E poi sovraincidere a New York, che voleva dire avere a disposizione una miriade di fiati, e la camera d'eco del Record Plant.

Poi ognuno è libero di sostenere che in termini di suoni e di apporto creativo l'ultimo album di Bowie vale quanto Hunky Dory, Ziggy Stardust o Aladdin Sane.


Come già detto in precedenza, è pacifico che chi è stato socializzato in epoca moderna possa ritenere lo stato di cose corrente come "naturale", e quindi non porsi neppure il problema della remunerazione.

E d'altra parte - ci viene detto di tanto in tanto - non era la stessa cosa ai vecchi tempi della radio? Chi si poneva il problema della remunerazione degli artisti? Giusto. Però cerchiamo di tratteggiare un contesto.

Negli anni sessanta l'Italia era senza dubbio un paese molto più povero di adesso, ciò nonostante i singoli di successo vendevano anche un milione di copie, con centomila considerate un mezzo fallimento. Va ovviamente tenuta in debito conto la relativa penuria di divertimenti. Ma un prezzo di circa 2.500 lire per un LP e di circa 600 lire per un singolo non era poca cosa.

D'altra parte la radio di allora non era "come Internet". Un brano veniva trasmesso di tanto in tanto, e finché era corrente. Poi c'era la classifica dei primi dieci, una volta la settimana. E' paragonabile a ciò l'accesso gratuito e perenne a intere discografie di qualsivoglia artista? Ed è pensabile che la cassetta incisa precariamente per qualche amico sia l'equivalente di allora di un album condiviso in Rete con l'intero universo?


Va da sé che parlare di danaro, e di come lo si spende, implica entrare in un ambito inevitabilmente soggettivo. Possiamo però dire che solitamente la rarità di un bene contribuisce al suo essere considerato desiderabile. Se si potessero "scaricare" scarpe, invece di musica...

Ma il valore soggettivo dell'esborso di una somma data ha anche degli altri risvolti. Vediamo con attenzione.

In termini di esperienza soggettiva, ricordiamo di avere sempre considerato il prezzo monetario pagato per un singolo, o un LP, del tutto sproporzionato rispetto al valore da noi attribuito alla musica. Si intende sproporzionato per difetto. Ancora oggi non riusciamo a convincerci del fatto che con circa 3.000 lire ci è stato possibile un tempo acquistare Stand Up, In Search Of The Lost Chord, Waiting For The Sun, Willy And The Poor Boys e Renaissance (Mellow Yellow ci è stato regalato, Uncle Meat era doppio: 6.500 lire). Risparmiamo al lettore la sfilza dei singoli (ma diciamolo: si comprava Proud Mary e sul retro si trovava, del tutto a sorpresa, Born On The Bayou!).

Ci è sempre parso bizzarro che spendendo del danaro, e neppure tanto, si potesse avere accesso a qualcosa la cui fruizione abbiamo sempre considerato un privilegio di valore inestimabile, fonte potenziale di una crescita i cui limiti si identificavano con quelli del fruitore. Una porta verso l'infinito, per quattro soldi. (E questo è vero ancora oggi. Quanto vale il biglietto per vedere Inside Out?)

Lo diremo con molto tatto. Spesso ci è parso di scorgere nell'atteggiamento di chi tratta male i musicisti - in realtà, i loro prodotti: da "gli assolo autoindulgenti" a "chi se ne frega di questa musica incomprensibile" a "ma perché se non vende dischi non alza il culo dalla sedia e non va a fare concerti?" - un riflesso della scarsissima considerazione che si ha per se stessi. Ma una scarsa autoconsiderazione che invece di implicare coscienza dei propri limiti e sforzo per superarli si tramuta in disprezzo per quei prodotti dell'ingegno che non sapremmo mai ideare ma dei quali abbiamo bisogno per divertirci. Da cui l'idea dell'artista come un buffone, o al massimo "in fondo" uno come noi, che dovrebbe ringraziarci perché ci degniamo di ascoltare le sue cose, che quindi "valgono" pochissimo. Un pensiero terrificante.


© Beppe Colli 2015

CloudsandClocks.net | July 14, 2015