E adesso?
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di Beppe Colli
Sept. 3, 2015



Ci capita di ripensare all'enorme quantità di musica da noi scoperta - o per meglio dire, alla quale siamo stati esposti - nel biennio 1970-1972. La cosa in sé non è certo in grado di destare troppa meraviglia, stante l'enorme quantità di ottima musica in circolazione a quel tempo. Il punto che ci preme qui sottolineare è che l'accesso a quella musica avvenne mediante la semplice accensione del nostro apparecchio radio sintonizzato su una frequenza della RAI il pomeriggio dalle 16 alle 18 (ricordiamo che allora la RAI operava in regime di monopolio, con tre canali radiofonici e due canali televisivi).

Proviamo a vedere quanti nomi ricordiamo tra quelli trasmessi in quella fascia oraria, mentre si facevano i compiti.

Innanzitutto, i tre giganti di quella musica che oggi viene designata come "Progressive": Yes, Genesis e Emerson, Lake and Palmer. Per associazione di idee, tre gruppi colossali in Italia ma non in patria: King Crimson, Van Der Graaf Generator e Gentle Giant. L'hard rock di gruppi come Deep Purple, Black Sabbath, Grand Funk Railroad e Uriah Heep. Gruppi di successo mondiale quali Ten Years After, Santana e Chicago. Ex Beatles assurti a nuovo splendore: George Harrison e John Lennon. Gli Who di Live At Leeds e Who's Next. I colossali Led Zeppelin (dei quali veniva trasmesso persino il bootleg Live On Blueberry Hill). I Pink Floyd pre-The Dark Side Of The Moon. Procol Harum, Moody Blues, Family e Colosseum. Il blues di John Mayall. I Rolling Stones di Sticky Fingers e Exile On Main Street. Cantautori quali James Taylor, Elton John e Cat Stevens. I Jethro Tull di Aqualung e Thick As A Brick. Curved Air e Audience. Crosby, Stills, Nash & Young insieme e da soli. Il Bowie di Hunky Dory e Ziggy Stardust. I Traffic di John Barleycorn Must Die  e The Low Spark Of High-Heeled Boys. Il "Folk inglese" di nomi quali Pentangle, Incredible String Band, John Martyn e Nick Drake. Un pizzico di Frank Zappa. I "nuovi gruppi italiani" del periodo: Premiata, Banco, Orme, Osanna, New Trolls. Italiani che forse abbiamo voluto dimenticare. E tanto altro che al momento non riusciamo a ricordare.

C'erano poi i pomeriggi estivi, quando l'assunto - probabilmente corretto - che i ragazzi avevano ben altri modi di divertirsi consentiva di programmare brani chilometrici: il Frank Zappa di Hot Rats, il Miles Davis di Bitches Brew, i Cream di Wheels Of Fire, i Weather Report, la Mahavishnu Orchestra, i Doors di When The Music's Over e persino il blues anfetaminico di Johnny Winter colto sul palco.

La valanga non si esaurì certo nel '72. Ci pare di ricordare un aumento della parte giornalistica in parallelo a una ridefinizione della fascia serale, con ampi spazi qui dedicati a molta musica - da Robert Wyatt ai Gong ai cosiddetti "Canterburiani" - fino allora un po' trascurata.

Preghiamo il lettore di non considerare la lista di cui sopra come un elenco del "meglio di tutti i tempi". Quel che vogliamo sottolineare è l'enorme varietà stilistica del panorama di musiche che venivano trasmesse l'una accanto all'altra. E - fatto non secondario - la lunghezza di molti dei brani trasmessi, che allora non veniva certo percepita come "esagerata". Ci furono "hit album" trasmessi pressoché per intero - senza pretese di completezza, ci vengono in mente Fragile degli Yes, l'omonimo esordio di Emerson, Lake & Palmer, In Rock dei Deep Purple e Three Friends dei Gentle Giant: album dei quali ricordiamo quasi ogni singola nota senza averli mai posseduti (e Tarkus, Machine Head, Octopus...).



Nella cornice del tempo, un brano come Take A Pebble era senz'altro in grado di ampliare la prospettiva di chi ascoltava. E sappiamo che pochi, oggi, crederebbero che album quali Lizard e Islands e brani come Man-Erg, Pantagruel's Nativity e The House, The Street, The Room siano stati un tempo posti in "heavy rotation" nella fascia di ascolto pomeridiana.

Il lettore è a questo punto in grado di riflettere su quale tipo di ascoltatore sia stato "reso disponibile" per quanto è accaduto in seguito. E che tipo di "inprinting" quelle ore di ascolto hanno favorito per ciò che riguarda il tipo di attenzione prestata alla musica e l'atteggiamento nei confronti della remunerazione di quanto veniva percepito come "prezioso".

Troppo astratto? Invitiamo il lettore a un piccolo esperimento: ascoltare l'album dei Gentle Giant intitolato Three Friends e riflettere sul fatto che ognuno di quei sei brani è stato un tempo trasmesso molte volte, e per intero, nella fascia oraria che va dalle 16 alle 18.



Per tutti gli anni ottanta, e parte dei novanta, il mensile statunitense Musician è stato la fonte più stimolante e qualificata nel panorama editoriale globale. Dato che la nostra classificazione personale non contempla la categoria di giornali "tecnici" lo metteremo accanto a Guitar Player e Keyboard. Partito come Musician - Player and Listener, il giornale si assestò poi sulla dicitura Musician. Un nome che vuol dire tanto, e che tiene in debito conto fattori come "skill" e il famoso detto che parla di "inspiration e perspiration" (quanto diverso il nome - e la filosofia! - The Face).

Ricordiamo distintamente il nostro piacere nell'accorgerci che la gran parte degli articoli e delle recensioni era di buona qualità, indipendentemente dal genere di musica e dalla popolarità dell'artista. Il che può apparire quale una notazione ridondante. Crediamo invece necessario esplicitare un punto per noi importante. Ci è spesso capitato di accorgerci di quanto la nostra aspirazione a leggere "qualcosa di sensato" fosse molto diversa da quella che - con enorme sorpresa - abbiamo scoperto essere dominante: leggere "qualcosa su chi piace a me".

(E' chiaro che potremmo facilmente entrare nel territorio di Max Catalano e asserire che "è ovviamente meglio leggere un giornale che scrive cose sensate su chi piace a me".)

E' quindi spesso caduta nel vuoto la nostra osservazione di quanto schifoso fosse il giornale x, osservazione che si scontrava con l'asserto "ma è quello che parla dei nomi che piacciono a me".

Mentre da parte nostra abbiamo sempre considerato importante notare, a giornale chiuso, che avevamo imparato qualcosa che non sapevamo prima.

Il tramutarsi di Rolling Stone in un giornale di costume, con largo spazio dedicato ad attori e personalità di cinema e televisione, diede una chance aggiuntiva a Musician, che si trovò a poter offrire spazio a musicisti che in termini di vendite e popolarità si situavano ben oltre la sua fascia di tiratura ma ai quali non pareva vero rispondere a domande "per musicisti".

Questa non era certo una copertina usuale nel panorama editoriale del tempo.




Ma quale esempio di varietà dei contenuti si consideri la finestra in basso a destra (ecco un ingrandimento).




Diamo però un'occhiata a questa copertina, che affiancava un artista dalla popolarità "estremamente selettiva" come Captain Beefheart - il pezzo è di Lester Bangs - a quella che all'epoca era una delle voci più trasmesse d'America: Michael McDonald, dei Doobie Brothers.




La filosofia consistente nell'avere un nome in grado di fare da traino a contenuti "difficili" non è certo inedita. Qui la sorpresa è che - posto che un pezzo di quella lunghezza su Captain Beefheart non è mai stato facile da trovare - la lunga intervista a Michael McDonald non è di qualità inferiore al pezzo su Beefheart.

Decisamente sorprendente al tempo quel tracciare una linea di continuità che comprendeva anche Burt Bacharach, nome leggendario ma che ormai era poco più di un oggetto polveroso nella teca dei ricordi. Strizzando gli occhi, non era impossibile trovare tracce di Bacharach in hit colossali dei Doobie Brothers scritti e cantati da Michael McDonald quali It Keeps You Runnin' e What A Fool Believes. Ma a chi sarebbe venuto in mente? Ecco che, finita la lettura, chiuso il giornale, c'era dell'altro materiale da mettere a fuoco. (Notiamo di passata il ben diverso senso di "alla Bacharach" attribuito a musiche degli anni ottanta che avevano solo una vaga atmosfera "da anni sessanta" come intesi dalla pubblicità di vini e liquori.)





(Va ora in onda: "Crepuscolo italiano".)

Il lettore dovrà adesso sforzarsi di non trovare inverosimile quel che stiamo per raccontare. Il fatto si situa nel passato, venti o trent'anni fa, in occasione di un anniversario "tondo" dello storico e pionieristico brano di rock 'n' roll intitolato Rock Around The Clock di Billy Haley & The Comets, brano che si rivelò essere uno spartiacque nella storia della musica e del costume.

Leggevamo il quotidiano il Manifesto, e ci imbattemmo in un articolo che celebrava l'anniversario di quello storico brano (non ricordiamo la firma, comunque a noi ignota). E dato che cerchiamo sempre l'occasione per saperne di più su cose con le quali abbiamo scarsa familiarità ci mettemmo a leggere.

La tesi dell'articolo era che il pezzo era stato un capolavoro di trasgressione perché lungi dal cantare "clock" Haley aveva cantato "cock" ("com'è facile sentire ascoltando il brano"). Quindi il brano in realtà non era "Rock intorno all'orologio" - "un'espressione che non ha nessun senso", ci informava l'autore dell'articolo - ma "Rock intorno al cazzo", vero brano di rottura nel panorama del tempo.

Controllammo: non era il primo aprile.

Dopo un giorno o due scrisse un pezzo grosso - la memoria ci restituisce il nome di Alessandro Portelli - per ricordare che un artista americano di quel tempo e luoghi non pronunciava "clock" come un laureato a Oxford. E che lungi dall'essere un'espressione insensata, "Around The Clock" voleva dire "di continuo, senza interruzioni, per tutto il giorno e la notte".

Ci chiedemmo - invano - come un articolo simile potesse essere andato in stampa. Riconosciamo oggi i tratti di una malattia: la gara a chi la spara più grossa, l'indifferenza per la realtà, la proliferazione delle ipotesi in assenza di meccanismi correttivi, la velocità con cui le idee scaturite dopo un bicchiere di troppo si trovano immesse in circolo.

(Abbiamo trasmesso: "Crepuscolo italiano".)



Non pochi, in tutto il mondo, hanno trovato "difficile da seguire" il recente film di Paul Thomas Anderson Inherent Vice, tratto dal romanzo di Thomas Pynchon che porta lo stesso nome (il film è uscito in Italia con il titolo di Vizio di forma).

Potremmo ricordare che tradizionalmente nei film "gialli" non tutti i fili alla fine si riannodano con logica impeccabile, e questo è vero sin dai giorni lontani de Il grande sonno e Il falcone maltese. Potremmo dire che Inherent Vice abita climi "fumati" e che forse è anch'esso un film "non perfettamente governato dalla logica". Potremmo ricordare che - a differenza di un libro - "la storia" non esaurisce un film, i colori e le inquadrature essendo portatori di una "narrativa" loro specifica.

A ogni modo, Inherent Vice non è Syriana, laddove la difficoltà stava nel tenere insieme nella memoria tutti i pezzi di un puzzle che solo alla fine rivelavano le strette connessioni di storie che fino ad allora erano parse del tutto indipendenti.

C'è il problema aggiuntivo dovuto a chi traduce Inherent Vice come Vizio di forma, laddove una consultazione accurata darebbe il significato di Difetto connaturato, nozione legale con ovvie ripercussioni sulla possibilità di assicurare un bene, in accordo con quanto il film esplicitamente dichiara.

E quindi un senso quale "difetto connaturato" ci porta sulla buona strada: qual è il difetto connaturato? cosa è soggetto a questo inconveniente? e cosa era inevitabilmente destinato a finire male in ragione di un difetto connaturato?

Ovviamente il film non si esaurisce qui. Un altro punto importante è nel suo farci ricordare i molti modi in cui si diventa servi. Che c'è chi diventa servo volontariamente, e chi realizza la sua vera natura diventando una cosa nelle mani di qualcuno, il che si situa ancora più in basso dell'essere un servo. E questo non dovrebbe essere difficile da capire.


© Beppe Colli 2015

CloudsandClocks.net | Sept. 3, 2015