Think: Visual
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di Beppe Colli
Oct. 8, 2013



Nel corso di una discussione che ha luogo sul forum di Steve Hoffman viene postato un link a uno spezzone video accessibile tramite YouTube: vediamo immediatamente che la protagonista è Joni Mitchell, qui colta nella dimensione live del suo famoso tour del 1974. Lo vedremmo volentieri subito, ma non c'è tempo. Mettiamo quindi da parte il link, riservandoci di gustare il tutto con più calma, venuta la sera.

Quello del tour del '74, effettuato con il gruppo di Tom Scott ("Let me introduce this wonderful group, The L.A. Express" - così la Mitchell), fu un momento decisamente importante per la musicista canadese, allora in pieno boom commerciale grazie a Court And Spark (l'album di cui si innamorò perdutamente Robert Plant dei Led Zeppelin, che non si stancava di tesserne le lodi anche su Rolling Stone) e ai suoi hit Help Me e Free Man In Paris (non dimentichiamo "sleeper hits" quali People's Parties, Car On The Hill e Trouble Child). Il tutto poi sfociato nel doppio album Miles Of Aisles.



Siamo curiosi di avere accesso a una documentazione video. Ricordiamo infatti di avere visto un intero concerto - "professionally filmed and recorded" - su una tv locale alla fine degli anni settanta, quando questo tipo di emittenti trasmetteva concerti interi come riempitivo. E come provato dai bootleg del periodo, da noi mai visti né ascoltati, durante quel tour la formazione eseguì buona parte di Court And Spark, che fu invece (comprensibilmente) sottorappresentato su Miles Of Aisles, dove si preferì offrire un riassunto della precedente produzione su Reprise.

Il video - in realtà, un solo brano - è una delusione, con una dominante rosata e una grana tutt'altro che professionale. Peccato!



Chiusa la finestra, ci viene offerto un "Joni Mitchell live a Wembley, 1974, con CSN&Y, Old Man". (Un tour, quello del '74 di Crosby, Stills, Nash & Young, che pare stia per tornare d'attualità con una gran quantità di registrazioni inedite in arrivo, anche se informazioni non definitive dicono che proprio la data di Wembley non dovrebbe essere inclusa: "awful", disse Nash.) Old Man è il classico di Neil Young che tutti conosciamo, con la Mitchell brevemente ai cori e un bassista (Tim Drummond?) che cerca (inutilmente) il feedback visivo di Young, che per l'occasione sembra essersi concesso un caffè di quelli forti: l'esecuzione è impeccabile, ma l'incessante movimento delle gambe, in netta accelerazione sul finale del pezzo, sembrerebbe segnalare che il musicista si appresta al decollo. Impagabile lo sguardo di Young, "svegliato" a fine pezzo dall'urlo della folla: 72.000, o così si dice.


Ci viene offerta l'opzione "Joni Mitchell Wembley 1983 - BBC - 29' - pt.1", e abbocchiamo subito. E' il tour che illustrava la svolta di Wild Things Run Fast



dove la musicista aveva recuperato una dimensione più "immediata & rock" dopo la collaborazione con Charles Mingus documentata dall'album che proprio dal musicista prende il nome.

Il video - filmato e registrato in modo eccellente: e infatti vedremo subito senza esitazione anche la seconda parte - conferma quanto già detto da Wild Things Run Fast, con Mike Landau un po' esagerato alla chitarra; com'era da attendersi, parte del vecchio repertorio - per fare un esempio, la celeberrima Song For Sharon resa amfetaminica da un passo accelerato - mal si attaglia a scopi e caratura di questa formazione; anche se poi una esecuzione di Woodstock in solitudine è in grado di scatenare l'entusiasmo.

Il concerto ci consente di rivedere con piacere la Mitchell con il berrettino: un accessorio che un paio d'anni più tardi fu immortalato sulla copertina del mai troppo rimpianto mensile statunitense Musician.



La storia di "ride per ultima" risulterà incomprensibile a chi non ha presente la polemica seguita all'apparizione del famosissimo e fortunatissimo album d'esordio (1979) della cantautrice statunitense Rickie Lee Jones, sulla cui copertina compariva l'accessorio



già reso celebre dalla Mitchell di Hejira (1976).


Ma a questo punto notiamo un'opzione alla quale è davvero impossibile resistere: Joni Mitchell live BBC 1970. La cena può attendere. E' il periodo della Mitchell con tanti capelli, tanti denti e una bella chitarra acustica suonata con maestria e originalità.



Rimaniamo colpiti dalla pulizia del suono, del tutto privo di rientri microfonici, a riprova che una volta i bravi tecnici esistevano davvero: voce, chitarra, dulcimer e un pianoforte lustro e con gran coda, tutto suona perfetto. Il repertorio eseguito proviene largamente dai primi tre album, con la musicista a offrire due brani non ancora incisi (!) che poi andranno sul celeberrimo Blue (1971): My Old Man, dal testo non ancora completo; e California, della quale vengono illustrate le circostanze della composizione. Impeccabile storyteller, la Mitchell affascina il piccolo pubblico di invitati, tra i quali scorgiamo... Peter Green!, che sorride rapito.


Ci troviamo a curiosare nello scaffale vinilico del punto vendita di una nota catena nazionale quando veniamo affiancati da una coppia di teenager come ce ne sono tanti. Lui sfoglia gli LP in esposizione facendo dei brevi commenti, lei non dice molto. "Ecco, guarda questo", fa lui con l'aria di chi ha trovato qualcosa di prezioso. Ci voltiamo a guardare, mentre facciamo finta di esaminare il Live At Massey Hall di Neil Young: l'album in questione è Abbey Road dei Beatles. Siamo un po' sorpresi, e vorremo chiedere qualcosa, ma ci mordiamo la lingua.



Il ragazzo ha fatto bene i compiti, e illustra la famosa diceria detta "la morte di Paul" con dovizia di particolari, dai piedi scalzi di McCartney alla targa della Volkswagen parcheggiata a sinistra su cui appare la scritta 28 IF. Lei ascolta attenta. A questo punto spalanchiamo le orecchie attendendo la discussione sulla musica. Invece, con nostra grande sorpresa, la discussione finisce qui. L'album viene rimesso al suo posto, la coppia va in direzione di altri reparti, e noi ci rimordiamo la lingua prima di poter chiedere: "E sulla musica, proprio niente?".


Ci apprestiamo a formulare un'asserzione che dichiariamo subito risulterà poco soddisfacente, con numerose possibili eccezioni e nettamente bisognosa di una messa a punto, epperò a nostro avviso soddisfacente quale prima approssimazione, che suona così: Per chi è cresciuto negli anni sessanta (e anticipiamo: in misura decrescente nel continuum temporale che ci porta fino a oggi) la musica era prima ascoltata, e poi "vista".

Non è un granché, e non sembra una grande rivelazione: vuol dire semplicemente che la dimensione prevalente della musica per come essa era goduta - principalmente tramite la radio, e i dischi in vinile - era quella concernente il suono.

Il che non nega l'esistenza di seguitissimi programmi musicali televisivi quali Ready, Steady, Go! e Top Of The Pops in Inghilterra o il Beat Club in Germania.

Né ovviamente epifanie televisive su scala nazionale quali l'apparizione all'Ed Sullivan Show dei Beatles (e il loro film A Hard Day's Night) e di gruppi quali i Rolling Stones e i Doors, che non cambiarono il testo di Light My Fire, causando un pandemonio.

Su scala più limitata, l'Italia può vantare l'esibizione live del quartetto statunitense di "psichedelia fragorosa" chiamato Vanilla Fudge in occasione dell'edizione del 1969 del festival di Venezia, quando il gruppo eseguì - dal vivo e per una durata di oltre sette minuti - la cover di Some Velvet Morning già apparsa sull'album Near The Beginning.

Resta il fatto che il momento centrale dell'apprezzamento della musica era rappresentato dall'ascolto. Un ascolto che era spesso anche di natura "sociale", vale a dire, avveniva in modalità collettiva. E che viveva una dimensione sociale allorquando gli ascoltatori parlavano tra loro di musica.


Allo scopo di rendere chiara la non piccola differenza che passa tra l'oggi e l'allora abbiamo scelto il gruppo che  a nostro avviso meglio rappresenta l'odierna dimensione "visiva" della musica: i Doors. Esiste oggi gruppo più visto e la cui iconografia non sia in grado di essere immediatamente riconosciuta anche da chi forse non ha mai ascoltato una sola nota della sua musica?

Una popolarità che nessuno negli anni sessanta avrebbe creduto possibile, allorquando la "classifica della celebrità" vedeva saldamente al primo posto i colossali Beatles, con i Rolling Stones e Bob Dylan ad alternarsi al secondo e al terzo, secondo le fortune del momento.

Erano tempi in cui i gruppi statunitensi trovavano difficile far breccia in Europa, l'Atlantico essendo allora molto più largo e profondo di oggi. Ma se sarebbe esagerato affermare che in Europa i Doors erano celebri quanto gli Spirit, non sarebbe azzardato dire che la loro popolarità era quasi alla pari con quella dei Jefferson Airplane, gruppo con il quale nel 1968 i Doors condivisero il palco della londinese Roundhouse.

Va da sé che a quel tempo i Doors erano all'apice della loro popolarità come gruppo in grado di piazzare in classifica molti singoli di successo, da Hello, I Love You a Tell All The People, passando per Touch Me. Il che ci riporta alla questione "musica ascoltata", le copertine dei singoli e degli LP essendo quasi tutto quello che l'ascoltatore conosceva dell'aspetto visivo del gruppo.

Ma i Doors ascoltati sono un quartetto, non un cantante e tre musicisti sullo sfondo i cui nomi non ci si prende nemmeno la briga di conoscere.


In questa cornice il concerto dal vivo è il luogo dove viene "misurato" l'album di studio, e dove tanti misteri - le accordature aperte della Mitchell, le note "infinite" di Robert Fripp, la "mitraglietta" e i salti d'ottava di Eddie Van Halen - trovano una loro spiegazione tramite la vista.

Un semplice esempio pratico che renderà chiaro quanto si vuol dire a proposito di accuratezza dell'ascolto e di importanza della dimensione sociale del discutere di musica è costituito dall'attribuzione ipotetica di performance musicali a individui dei quali è sconosciuta l'identità. Viene qui in soccorso quello che viene comunemente definito come "un indiscusso capolavoro della West Coast", e cioè l'album di David Crosby intitolato If I Could Only Remember My Name, la cui copertina interna ci mostra tutti i musicisti che hanno suonato sull'album senza però specificare in quali pezzi.

Sappiamo bene che a questo punto l'obiezione è "Ma a me non importa chi ci suona, l'importante è se il pezzo mi piace o no".

Un punto di vista ovviamente legittimo, che ha però quale sua inevitabile conseguenza il perdere le informazioni riguardanti la "pollinazione incrociata" tra musicisti e gruppi, essendo gli apporti e le innovazioni melodiche, armoniche e ritmiche che ascoltiamo attribuibili a musicisti, e stili, con tanto di nome e cognome.

E se mai ci fosse concesso di dare un suggerimento d'ascolto, sarebbe quello di accendere l'impianto hi-fi e spegnere il computer.


Se oggi ciò sia possibile è uno dei punti cruciali di quanto si sta qui discutendo.

La cosa non è ovviamente da intendersi in senso letterale. Se però torniamo al punto da cui siamo partiti, e cioè l'enorme disponibilità di materiali visivi offerti oggi su piattaforme quali YouTube, è facile vedere che chi ha interiorizzato la dimensione auditiva della musica tende a "completarla" con le informazioni visive, mentre chi ha messo la musica sullo sfondo tenderà a dare una descrizione visiva in cui l'aspetto sonoro è, al meglio, secondario, quando non del tutto assente, ed espresso in termini verbali che rendono molto difficile la comunicazione.

Tutto questo non ha, ovviamente, niente a che vedere con "l'età" in senso numerico, ma molto con le condizioni di socializzazione.

Per dirla molto in breve, il momento che stiamo vivendo è il punto d'incontro tra due linee che provengono da cose apparse all'incirca trent'anni fa: il Walkman e MTV.


Il Walkman è il primo apparecchio che ci fornisce la possibilità di godere della musica in maniera autonoma e con buona fedeltà ("personal stereo") anche mentre stiamo facendo altro, jogging compreso. Mentre MTV è il momento in cui la musica diventa "vista" su larga scala.

Le due cose trovano un moltiplicatore formidabile nel computer quale apparecchio "personal" e nella Rete poi a banda larga, con la gratuità di fatto del "contenuto" che a quasi quindici anni di distanza da Napster è ormai una condizione che i nuovi socializzati trovano già bell'e pronta come forma di fruizione "tradizionale".

Per tutta una serie di ragioni, la forma oggi "normale" di fruizione dà per scontata la molteplicità e la simultaneità degli stimoli. Il "sonoro" viene quindi confinato sullo sfondo, com'è largamente provato dalle somme allocate all'aspetto visivo, con schermi di notevoli dimensioni e una pluralità di opzioni quali sport e film a riceverne un incremento di desiderabilità, con il rimpicciolirsi delle somme dedicate all'audio.

Un articolo a firma Todd Leopold apparso sulla CNN in data September 28, 2013 con il titolo di The Death Of The Home Stereo System ci è parso una buona base di discussione, ed è infatti stato discusso in più luoghi sulla Rete.


Dando per scontato quanto detto in precedenza, ci preme sottolineare quanto segue.

La tendenza che vede il "non possesso" dei "contenuti" (un aspetto che è stato - giustamente - spesso discusso alla luce delle problematiche concernenti il copyright e il concetto di "proprietà" e di "uso legittimo" di quanto si è acquistato) quale modalità in crescente espansione può anche essere letta alla luce della contrapposizione tra gli interessi dei fabbricanti di "hardware" (termine che in quest'accezione comprende ovviamente il "software") e quelli dei fornitori di "contenuti", che oggi appaiono avere la peggio.

La "fungibilità" di quanto ascoltato, o visto, si contrappone quindi all'alto grado di desiderabilità di questo o quell'apparecchio - e qui, i nove milioni di esemplari del nuovo modello di iPhone venduti dalla Apple durante la prima settimana di commercializzazione parlano chiaro.

E' chiaro che "possedere" qualcosa (un film, un libro, una canzone) in una forma fisica, "tangibile" e "personale" non è necessariamente diverso dal possederla in forma "virtuale", magari su una "nuvola".

Ma è parimenti chiaro che in una cornice di compresenza di un gran numero di stimoli il possedere qualcosa in maniera "virtuale" e "nuvolosa" può facilmente diventare l'anticamera dell'usa-e-getta, e in ogni caso non sembra essere il modo migliore per incoraggiare una conoscenza approfondita.

Diremmo inoltre che pochi sembrano percepire l'ambiguità - o il servilismo - di quanti celebrano "l'immaterialità" e la "fungibilità" delle cose "possedute" quale segno distintivo della "leggerezza" del "moderno", con l'eventuale tocco poetico degli alberi salvati e della plastica non messa in circolo.

A chi è ancora disposto ad ascoltare, consiglieremmo di approfondire il tema del costo energetico della "messaggeria" in piena espansione su scala mondiale, dei costi "entropici" dei vasti "social network" e della quantità di energia necessaria a raffreddare i milioni e milioni di server su cui si basa la cultura del cosiddetto "immateriale".


Va da sé che le cose vanno come vanno, e le dinamiche in atto non sembrano a questo punto avere molte possibilità di essere ribaltate.

Le conseguenze sono ovviamente della massima importanza per quanto riguarda la musica che diremmo "meno immediata", senza neppure bisogno di giungere a quella "difficile". Il che vale anche per tutte le altre forme di espressione, cinema incluso, con i lavori migliori a trovarsi "sovradimensionati" rispetto alle "capacità" - che in questo contesto vuol dire prima "attitudine", e poi "mezzi" in senso stretto - del fruitore.

La cosa paradossale è che, lungi dal risultare "datata", la musica dei decenni passati risulta ben presente nell'orizzonte odierno, con un appeal che va molto al di là di quello che riterremmo essere il suo pubblico naturale. E però l'esposizione non sembra in grado di produrre un affinamento delle capacità, come se la "lingua" parlata non fosse più in grado di essere compresa. E mentre l'affastellamento delle informazioni sperimentate in contemporanea rende la "maturazione" un processo impossibile.

Incrociamo le dita.


© Beppe Colli 2013

CloudsandClocks.net | Oct. 8, 2013