Tredici
----------------
di Beppe Colli
Nov. 26, 2015



E così, contro tutte le aspettative, anche stavolta Clouds and Clocks giunge a festeggiare il suo compleanno, il tredicesimo.

(Esplode qui un applauso scrosciante.)

A questo punto il lettore di certo si attenderà che - com'è nostra abitudine in tali occasioni - venga dipinto il consueto quadro apocalittico a tinte fosche, con tutti gli aggiornamenti del caso.

Ma quest'anno il solo provare a stilare mentalmente una lista dei principali "fattori di disturbo" ha provocato in noi un grave malessere, da cui la saggia decisione di scegliere un diverso approccio, sintetizzabile nella classica domanda: "Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?".


Come di consueto, anche quest'anno ci è capitato di ascoltare un buon numero di lavori di buona qualità, cosa che ogni volta ci riempie di stupore: nonostante tutto (il lettore sa benissimo di cosa parliamo), c'è ancora gente in grado di creare della bella musica.

Ma rimane sempre presente il senso della precarietà del tutto. Certo, ora abbiamo il crowdfunding, e qualche bel lavoro si è materializzato grazie a questa nuova formula di "finanziamento diffuso". Ma guardando le cifre ci accorgiamo spesso che i duecento sottoscrittori sono gli stessi che avrebbero acquistato il prodotto finito, così che il cammino commerciale di un album giunge al capolinea nel momento stesso della sua pubblicazione.

E' uno scenario che i sottoscrittori degli album editi dalla Recommended Records negli anni settanta e ottanta conoscono bene. La differenza è che allora esisteva un pubblico potenziale che era lecito supporre raggiungibile attraverso i normali canali commerciali. Un pubblico, tra l'altro, che pur mancando di doti di "attivismo" era comunque "permeabile" a proposte di fruizione certamente non immediata.

Diremmo superfluo dilungarci sulle differenze tra l'allora e l'oggi.


Proprio perché siamo abituati a porre a noi stessi domande scomode, proveremo adesso a interpretare la parte dell'avvocato del diavolo, ponendoci la seguente domanda: Ma perché il futuro deve essere uguale al passato?

Sappiamo bene che la maggior parte di noi tende a considerare come "naturali" le condizioni piacevoli dello stadio giovanile, da cui l'interrogativo - che all'interno di altre cornici non esisterebbe neppure - che suona pressappoco come "Ma perché oggi non ci sono gruppi come Faust e Henry Cow e geni multiformi come Frank Zappa? E se ci sono, perché sono così poco conosciuti?". Interrogativi resi ancor più dolorosi dall'apparizione di "oggetti sonori" inediti - l'ultimo in ordine di tempo essendo il film zappiano Roxy - The Movie - che sembrano fatti apposta per versare sale sulla piaga.

In tal senso, Clouds and Clocks ha sempre cercato di assolvere due compiti: innanzitutto, dare il giusto rilievo a cose la cui qualità ritenevamo essere degna di nota e lode; ma anche, cercare di capire quali condizioni "frenassero" l'esistenza della "musica difficile", con obiettivo evidentemente pragmatico e "di parte".


Ricordiamo benissimo tutte le volte in cui ci siamo ritrovati spaesati e confusi di fronte a una musica che sembrava sfuggire del tutto alla nostra comprensione.

Il lettore forse rimarrà stupito dal primo esempio che siamo in grado di offrirgli: i Beatles.

Avendo acquistato il 45 giri contenente quel bellissimo pezzo che è Penny Lane, dopo svariati e gustosi ascolti decidemmo di sentire quella che per noi era la facciata B. Con grande sconcerto ci trovammo di fronte qualcosa di disturbante, sinistro, scostante, massimamente quel "finto finale" e successiva ripresa che ci ricordavano la musica della serie televisiva Ai confini della realtà.

Superammo l'ostacolo, e col tempo giungemmo ad apprezzare Strawberry Fields Forever.

Potremmo aggiungere altre "esperienze traumatiche", come l'ascolto di Lizard, album che ci risultò del tutto incomprensibile, essendo noi stati grandi estimatori di In The Court Of The Crimson King e In The Wake Of Poseidon, ma non vorremmo annoiare troppo il lettore.

Ci guarderemo bene dal tirare in ballo entità di dubbia consistenza quali la "predisposizione naturale", limitiamoci a considerare due condizioni: silenzio (nel senso di concentrazione), e interesse (che può benissimo rivelarsi la qualità che rende imperativa la condizione del silenzio).

Sappiamo bene che dire che una musica prima sgradevole si è tramutata in una fonte di piacere con l'ascolto ripetuto rischia di ricordare cose quali i lavori forzati in prigione. Però questa considerazione manca clamorosamente un elemento: la piccolissima particella di fascino che pure quella massa sonora sgradevole appariva contenere e che è stato impossibile non investigare.


Certo sembrano finiti i tempi in cui Neil Young di passaggio a Nashville incontrava il produttore Elliot Mazer che l'invitava a visitare il suo nuovo studio, con Young a dirgli a quel punto "trovami dei buoni musicisti e ci vediamo stasera". Iniziava così l'incisione di Harvest (secondo il racconto che Elliot Mazer ha fatto in più di un'occasione).

Anche la musica più semplice di quell'epoca - speriamo che nessuno dei lettori se ne avrà a male se definiamo così il contenuto di quello storico album - si presenta all'ascolto ricca e timbricamente complessa, in virtù di amplificatori, microfoni, mixer e quella "scienza del posizionamento" in grado di far sbocciare le timbriche.


Poche settimane fa il quotidiano statunitense The New York Times ha annunciato che il numero dei suoi abbonati "digitali" ha raggiunto il milione, cifra che va a sommarsi a quell'altro milione di abbonati che ha scelto la formula "digitale più cartaceo".

Non abbiamo invece cifre recenti per il quotidiano del Regno Unito denominato The Guardian, il cui sforzo editoriale di coprire massicciamente gli Stati Uniti con l'apertura di numerosi uffici in loco - una circostanza che non ha certamente diluito l'elevatissima qualità di quel giornale - immaginiamo premiata da vecchi e nuovi abbonati.

Derivare conclusioni generali da questi fatti sarebbe supremamente rischioso, così ci limitiamo alla nostra esperienza.

Ha senso leggere su una testata italiana un tuttologo che dagli Stati Uniti ci informa sulle condizioni dell'economia quando si ha la possibilità di leggere i pezzi di Paul Krugman? E che dire della critica cinematografica di gente quale A. O. Scott e Manohla Dargis?

Va ricordato che a oggi il Guardian ha scelto un diverso approccio, garantendo il libero accesso ai suoi contenuti. Ma è un ingresso gratuito a dispetto di un'elevata qualità, non in ragione di una qualità infima.

E' ovvio che l'acquisto di un giornale locale ha un connaturato aspetto pragmatico: chi è morto, se manca l'acqua, che ne è stato di quello sciopero dei mezzi pubblici, il perché di quella sparatoria all'angolo sotto casa.

Va da sé che il reggere della macchina informativa in presenza di un elevato numero di fruitori a sbafo - una condizione che comunque non riesce più a mascherare il crollo della qualità dell'informazione - è possibile solo finché il numero di chi è disposto a sborsare una cifra non scende sotto una determinata soglia.

Giunti a questo punto l'astuto lettore avrà certamente capito dove porta questo discorso.


Il consumatore odierno ha scelto di disinteressarsi di una questione cruciale: da dove vengono - nel senso di "in che modo vengono compensati" - i beni che gli è possibile consumare gratis o a prezzi che non è arbitrario considerare irrisori.

Lasciamo da parte "la gente comune" e restringiamo il discorso a coloro i quali immaginiamo appassionati di quella "musica difficile" la cui scomparsa o precarietà lamentano con dolore.

La domanda è la seguente: Siamo sicuri di avere ben capito le coordinate della situazione, e il tipo di ruolo che siamo chiamati a svolgere? Ovviamente, se il dolore per la scomparsa di cui sopra non è atteggiamento di facciata da sfoggiare davanti a un bel boccale di birra.


E' con il nostro sforzo che il bicchiere apparirà mezzo pieno o mezzo vuoto invece di scomparire del tutto.

E' facile lamentarsi del fatto che quel nuovo album lungamente atteso si è rivelato alla prova dei fatti una cocente delusione, ancor di più qualora paragonato agli "indiscussi classici" di un tempo. Ma dobbiamo distinguere tra un processo di inaridimento naturale - "When there is no more there is no more" pare dicesse Miles Davis - da quelle condizioni nelle quali un apporto esterno avrebbe potuto fare la differenza.

Com'è ovvio - un aspetto, questo, della teorizzazione di Zygmunt Bauman che è rimasto invisibile a chi si è concentrato sull'aspetto superficiale della "liquidità" - non è che da un giorno all'altro siamo tutti diventati egoisti e cattivi. Ma con tutta evidenza abbiamo mancato di fare i conti con le conseguenze del puntillismo e della particellarità della nostra nuova esistenza.

Mancano clamorosamente quegli aspetti di condivisione che - senza dover necessariamente tornare indietro al concetto di classe - avevano in un giornale musicale un luogo dove sviluppare un "noi".

Caduta la base commerciale che rendeva possibile il vecchio assetto, la nostra indifferenza verso le conseguenze inevitabili della nuova situazione - un'indifferenza che si è manifestata innanzitutto nel non porsi neppure l'interrogativo concernente il futuro di quella musica che a parole si voleva elemento irrinunciabile della propria vita - ha contribuito a produrre una situazione nella quale è fin troppo facile dichiarare che "prima era meglio".

D'accordo, prima era meglio. E ora che facciamo?


© Beppe Colli 2015

CloudsandClocks.net | Nov. 26, 2015