"The Man Can't Bust Our Music"
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di Beppe Colli
Jan. 14, 2016



"Da consumare in maniera responsabile"



Blood, Sweat & Tears
40,000 Headmen


Pressoché impossibile, oggi, credere che al tempo del grande successo - il secondo album omonimo (1968) e i singoli Spinning Wheel, You've Made Me So Very Happy e la And When I Die presa in prestito dal repertorio di Laura Nyro - i Blood, Sweat & Tears venissero considerati "un gruppo underground" al pari dei Led Zeppelin, con posizione di headliner nello storico festival di Woodstock. Partita da un'intuizione di Al Kooper - l'organista che aveva suonato quella celeberrima frase su un brano in grado di cambiare le regole del gioco quale Like A Rolling Stone di Bob Dylan - poi sviluppata su Child Is Father To The Man ('68), la formazione presentava un assetto strumentale impeccabile e - punto debole comune a tanti gruppi dell'epoca - una scarsa attitudine alla composizione.
Tra le perle di 3 (1970), la versione di 40,000 Headmen dei Traffic, il cui repertorio aveva già fornito la Smiling Phases apparsa sul secondo album in un tripudio di colori. L'atmosfera "fumata" e fiabesca del racconto originale viene qui trasposta in una dimensione "urbana", ma inserita nel ricordo: si ascoltino i carillon che aprono e chiudono il brano, arricchito da citazioni di Bartók, Prokofief e Monk (è la celeberrima I Mean You). L'arrangiamento di Fred Lipsius - l'altosassofonista del gruppo, qui anche al piano in un breve assolo angolare - vede protagonista la tromba di Lew Soloff, elegantemente vestita dallo sbocciare della sezione fiati. Un quadro sonoro dalle mille sfaccettature, e contrappunti appropriati e grintosi del basso di Jim Fielder, che a ventitré anni era già entrato nella storia dello strumento.



The Flock
Clown


Carnet degli assegni in mano, la Columbia di Clive Davis era sembrata voler mettere sotto contratto i musicisti di mezza America. Nutrito anche il capitolo "gruppi con sezione fiati", dopo il successo dei Blood, Sweat & Tears prima e dei Chicago poi. Tra questi, The Flock, formazione il cui elemento distintivo era il violinista dalla prodigiosa tecnica Jerry Goodman, il cui ingresso nella Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin segnò di fatto la fine dei Flock. Ritmica sciolta, chitarrista all'altezza, una sezione fiati non poco jazzata, e interventi vocali che a tratti sembravano prossimi a una dimensione da "teatro di strada" non lontana da certi climi delle Mothers Of Invention di Frank Zappa, come provato da Hornschmeyer's Island e Uranian Sircus, su Dinosaur Swamps (1970).
Riff chitarristico doppiato dai fiati, voce grintosa, bell'assolo di violino, Clown è - accanto alla ballad I Am The Tall Tree - il punto più alto dell'omonimo album di esordio della formazione (1969). Il momento più interessante è però l'episodio fiatistico introdotto da un cambio di tempo e atmosfera che porta tromba e sax tenore a dialogare intensamente in un clima a ben vedere non troppo distante - sorpresa! - dal Miles Davis di quei giorni.



Iron Butterfly
In The Time Of Our Lives


Brano celeberrimo che con tutta probabilità consente ancora oggi di pagare qualche bolletta, In A Gadda Da Vida (1968) fornì un riff irrinunciabile a mille garage band di tutto il mondo. Organo Vox Continental, chitarra "psichedelica", basso non banale, cori apparentati a quelli dei Vanilla Fudge, gli Iron Butterfly erano a ben vedere una versione de luxe di una garage band, e altrettanto effimeri. Ma mille formazioni minori di quel tempo avrebbero fatto carte false pur di avere in repertorio In The Time Of Our Lives, Soul Experience, Filled With Fear e Belda Beast, brani di punta di Ball (1969).
Effetti "misteriosi", tempo sonnambulistico, riff, l'ascoltatore si trova di fronte una proposta non esattamente comoda: "Listen to the clock beat as it ticks out time away/(...)/And listen to the heart beat as it beats our lives away" (appropriatamente teso il fraseggio di basso di Lee Dorman). Se la frase di chitarra che "balza" sull'ascoltatore dal canale destro è perfettamente in grado di spiegare cosa si intende per "dinamica" di un'incisione, In The Time Of Our Lives funziona benissimo anche quale indicatore della ben diversa varietà di "argomenti permessi" dal clima dei tempi: "How you doing people that passed on yesterday?/Did you meet with justice on your judgement day?".



Jefferson Airplane
Eskimo Blue Day


L'album Volunteers (1969) e l'apparizione al festival di Woodstock costituiscono per più versi l'apice della parabola della formazione "storica" dei Jefferson Airplane. Se la leggenda voleva quell'esibizione offuscata da troppo sonno arretrato, il girato che capita di trovare in Rete narra tutt'altra storia, con solida grinta strumentale e performance vocali che - al pari di Byrds, Buffalo Springfield e Crosby, Stills, Nash & Young - scontano l'assenza di veri monitor da palco, gradita innovazione di là da venire.
Tra i brani più misteriosi mai scritti da Grace Slick, Eskimo Blue Day passa in rassegna caratteristiche climatiche e opposizioni uomo-natura ("The human name/Doesn't mean shit to a tree") in un'atmosfera "psichedelica" che sembra suo malgrado sfidare la comprensione ("Too much cold in one place breaks/That's why you might know what I mean"). Pungenti e drammatici i commenti della chitarra solista di Jorma Kaukonen, sottile e appropriato come al suo solito il basso leggendario di Jack Casady.



John Mayall
Nature's Disappearing


La produzione migliore di John Mayall è quella storica - Blues Breakers With Eric Clapton (1966), A Hard Road (1967), Crusade (1967), Bare Wires (1968) e Blues From Laurel Canyon (1968) - un album che, come da titolo, offre una narrativa "americana" - con le chitarre di Eric Clapton, Peter Green e Mick Taylor in un ruolo protagonista. I troppi decibel della concorrenza - di fatto, i suoi ex musicisti - consigliano a Mayall un deciso cambio di atmosfera, a quei tempi considerato assurdo per una "blues band": niente chitarra solista, e via anche la batteria. Il primo capitolo, The Turning Point (1969), è un centro pieno, con chitarra classica amplificata, sassofono e basso elettrico a suonare freschi; forse a causa di una gestazione troppo precipitosa, USA Union (1970) non è invece quel successo che sarebbe stato lecito attendersi, dati i nomi coinvolti: Don "Sugarcane" Harris al violino, Larry Taylor al basso e Harvey Mandel alla solista.
Memorabile il brano d'apertura, Nature's Disappearing, con l'armonica e la voce del leader, il violino con il wha-wha, il basso propulsivo e preciso, la solista pungente e d'impatto pur nel suo rifiuto del suono grosso e con sustain. Messaggio ecologico poco comune ai tempi - ci vengono in mente le sole Fresh Garbage e Nature's Way degli Spirit e We Took The Wrong Step Years Ago degli Hawkwind - con un'intera sezione della copertina dedicata a tematiche attinenti al riciclaggio e ai materiali biodegradabili. "Nature's disappearing/And we're guilty of this massive crime".



Laura Nyro
Save The Country


Il naturale percorso artistico di Laura Nyro rese i suoi brani sempre meno adatti a essere ripresi da altri artisti, interrompendo di fatto quel dialogo che si era instaurato - seppur per interposta persona - tra la musicista e il mainstream. Brano che vede il rapporto tra "il personale" e "il politico" spostarsi in direzione di quest'ultimo e che è tra i momenti di maggiore impatto di quello che per più versi è l'album perfetto della musicista, New York Tendaberry (1969), Save The Country fu ripreso dai Fifth Dimension e - diremmo soprattutto - da Julie Driscoll, Brian Auger And The Trinity nel loro album-summa Streetnoise.
Andamento pianistico assimilabile al gospel e non troppo distante da brani più "leggeri" della cantautrice quali Sweet Blindness, Save The Country si rivolge alla "congregazione" porgendo un messaggio inteso a dichiarare i fatti - e di morti illustri si trattava: Martin Luther King e i due fratelli Kennedy. Arrangiamento e suono - Roy Halee - fanno gradualmente emergere voci e strumenti, con il finale che vede il brano esplodere in un "Save the Country - Noooooooow!". Spunta una fanfara - che diremmo molto alla Blood, Sweat & Tears - con funzione di appoggio e di "sveglia". Basterà?



Spirit
Ground Hog


Grazie a un film quale Groundhog Day - regia di Harold Ramis, protagonista Bill Murray - ormai anche i non statunitensi sanno tutto della cerimonia del 2 febbraio che vede protagonista la marmotta: che ombra vedrà alla sue spalle?, e quanto durerà ancora l'inverno?
Gran bel brano di un album - Clear (1969) - in cui è obiettivamente difficile scegliere gli episodi migliori, Ground Hog dipinge un quadro dalle molteplici letture, tutte caratterizzate dall'angoscia dell'incertezza intorno alla scomparsa dei tempi cupi: "Tell me, Mr. Groundhog, what do you say?/Tellin' us good folks old man winter was gone". Chitarre acustiche con corde di diversa scalatura, andamento vocale teso che sconfina nell'esasperazione, basso, batteria e piano elettrico Wurlitzer che sono lì, ma spesso in maniera subliminale. Sembra facile!



Steppenwolf
Draft Resister


Anche gli Steppenwolf hanno avuto il loro "brano immortale", Born To Be Wild (1968), e anche "un classico dell'era psichedelica" come Magic Carpet Ride (1968). Ma la prospettiva di un immigrato di origine tedesca, John Kay, in grado di fare tesoro dell'insegnamento del country e del blues da un punto di vista che diremmo appropriato definire "blue collar" fu in grado di produrre una discreta serie di "classici minori" alla testa di una formazione - in origine The Sparrows, canadesi - che pur nella variabilità dei componenti fu decisamente solida in quanto a tenuta strumentale.
Monster (1969) è l'album più consistente, e quello maggiormente unitario. Larry Byrom nuovo ingresso alla chitarra, Goldy McJohn e Jerry Edmonton come d'abitudine a organo e batteria, Gabriel Mekler alla produzione, creano un lavoro dove la voce di Kay presenta i fatti ed esprime una posizione morale.
Preceduto da un'intossicante miscela di chitarre e percussioni, "He was talkin' 'bout the Army while he passed his pipe around/An American deserter who found peace on Swedish ground" è l'indimenticabile attacco di Draft Resister che ci riporta a quel tragitto Stati Uniti - Canada - Svezia via aereo che i renitenti alla leva utilizzavano allo scopo di non andare a combattere in Vietnam. Un brano strumentalmente emozionante, con chitarre soliste, slide e "a mandolino" a nascondersi nel fogliame delle percussioni.



Vanilla Fudge
Where Is Happiness


Anche i Vanilla Fudge hanno avuto il loro "brano immortale": la loro versione "rallentata" del successo delle Supremes intitolato You Keep Me Hangin' On va a costituire - su singolo, e insieme all'album omonimo (1967) in cui appare in tutta la sua gloria - un archetipo della psichedelia. Non brillanti come autori, esplosivi in quanto a caratura strumentale, i Vanilla Fudge incideranno un secondo lavoro alquanto disgraziato - The Beat Goes On (1968) - da cui commercialmente non si riprenderanno più, a dispetto dei titoli degli album successivi: Renaissance (1968) e Near The Beginning (1969). Ci saranno singoli di caratura variabile, da Where Is My Mind (!) a Shotgun a Some Velvet Morning, ma il terreno più appropriato è da rinvenire nella lunga durata dell'LP e nei concerti dal vivo.
Cosa che rende Near The Beginning il lavoro che meglio rappresenta l'effervescente quartetto. Una facciata registrata dal vivo, con l'assolo di basso di Tim Bogert - con tapping, corda fuori manico e note suonate sul pick-up - a impressionare ancora oggi (e che tempi, quando capitava di sentirsi dire "ma l'hai sentito quel bassista?"), e una prima facciata con due cover e un brano originale. Di Shotgun esiste anche un'esecuzione televisiva - dal vivo, non mimata - reperibile in Rete, con un Tim Bogert visibilmente "allegro" alla voce e all'assolo di basso.
Scritta dal batterista Carmine Appice - unico componente del gruppo ad aver ricevuto un'istruzione formale - Where Is Happiness si destreggia abilmente tra cambi di tempo e sezioni contrastanti di indubbia difficoltà. Chitarra in assolo in stile "Blues a Bombay", organo ossessivo in lento arpeggio, introduzione con cordiera di pianoforte e Leslie rotante, accelerazioni e rallentamenti, tamburi che più grossi non si può, e un basso che esce anche dai tweeter, per quello che una volta era un metro del "saper suonare".



Frank Zappa
Cruising For Burgers


Buon esempio di "variabilità culturale", un titolo quale Cruising For Burgers costituiva, ai tempi dell'uscita dell'album Uncle Meat (1969), un perfetto enigma per l'ascoltatore europeo che doveva ancora vedere il film American Graffiti (1973).
Nella sua ridotta durata (solo 2' 19") il brano è un brillante esempio di come Frank Zappa sapesse organizzare sezioni contrastanti e ardite sovrapposizioni strumentali in un insieme perfettamente dotato di coerenza all'interno di un formato che chiunque descriverebbe come "una canzone". Tutta da gustare la miscela delle varie chitarre, con l'arpeggio finale - assistito in modo spettacolare dalle percussioni - a stagliarsi sul "pedale" che porta il brano a conclusione. (Roba da fazzoletti, eh?)


© Beppe Colli 2016

CloudsandClocks.net | Jan. 14, 2016