Steely Dan (2000)
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di Beppe Colli
June 29, 2007



"La gente parla di queste televisioni dallo schermo gigante. Ma te lo immagini lo spot pubblicitario dell'Ajax che ti invade il soggiorno? Il cervello ti si ridurrebbe in poltiglia." (Walter Becker, da: Steely Dan, by David Breskin - Musician magazine, #31, March 1981)

Sappiamo bene com'è finita con la storia delle televisioni dal grande schermo e con tutto il resto, no? Qualunque la ragione, siamo ora perfettamente coscienti di quale aria tiri per l'arte - difficile? sottile? che richiede la nostra completa attenzione? - qualunque sia la Musa coinvolta. E ci chiediamo davvero cosa scriveremmo oggi sugli Steely Dan se dovessimo scrivere un "profilo introduttivo" come quello che segue, originariamente apparso sul periodico italiano Blow Up (#23, Aprile 2000).

Chi affermasse che gli album pubblicati dopo che il duo (o "il marchio", se vogliamo) ha ripreso la sua attività - Two Against Nature (2000), Everything Must Go (2003) e il terzo album solo di Donald Fagen, Morph The Cat (2006) - non sono stati molto più di "variazioni su un tema" (pieni di dignità, se non di sorprese) non sarebbe lontano dal vero. Ma mentre ciò è di grande importanza per coloro i quali hanno gradito gli album storici all'epoca della loro pubblicazione, il tutto perde rilevanza a fronte del diffuso rifiuto a esaminare le cose con un certo ammontare di curiosità (no, cambiare continuamente l'oggetto della propria attenzione non è necessariamente un segno di curiosità) e con l'attenzione intatta.

Il lettore è pregato di considerare il fatto che il profilo che segue doveva essere compreso all'interno di  una certa lunghezza. Ci sono cose che ci sarebbe piaciuto aggiungere, o alle quali dare maggiore spazio. Ma dobbiamo ammettere di ritenere che il pezzo funzioni per lo scopo per il quale è stato scritto. E poi, come disse il baffuto Maestro: "Ain't no great revelation, but it wasn't too long".


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"Raramente petali tanto belli hanno nascosto spine così acuminate." (Robert Palmer, The New York Times, 1980)

Gli album pubblicati sotto la sigla Steely Dan costituiscono uno degli esperimenti più originali effettuati nel campo della "popular music" statunitense: l'introduzione di complesse e tortuose armonie jazz in accattivanti canzoni pop contraddistinte da contagiosi groove, performance strumentali pressoché perfette e testi sarcastici, enigmatici e bizzarri. Dall'esordio di Can't Buy A Thrill ('72) per arrivare a Gaucho ('80) - l'ultimo capitolo della ditta Becker & Fagen prima della recente pubblicazione di Two Against Nature - possiamo seguire il deliberato svilupparsi di un work-in-progress il cui (ri)ascolto può risultare, oltre che piacevole, estremamente interessante.

La musica degli Steely Dan non è mai di difficile fruizione; la cura dedicata all'aspetto "formale" (arrangiamenti, bilanciamento dei suoni, timbri: ciò che la rende "un ideale sottofondo") è forse l'elemento che meglio spiega il crescente successo ottenuto dai loro album, andato di pari passo a un sempre maggiore perfezionismo reso possibile dall'aumentare dei budget disponibili: un fattore cui è possibile riferire parte della loro eterna popolarità nell'epoca delle ristampe in formato digitale. Sotto l'aspetto levigato si trovano però elementi ben poco usuali, e diverse possibilità di lettura; in questo senso, e al di là delle differenze di linguaggio compositivo, potremmo definire gli Steely Dan "beatlesiani": facendo riferimento ai Beatles del periodo di mezzo (Revolver e Sgt. Pepper) ma precisando immediatamente che per Becker & Fagen lo studio è stato un gigantesco e accuratissimo "orecchio", un luogo dove materiali suonati venivano assemblati in "performance ideali".

Le melodie degli Steely Dan sono sempre molto accattivanti; com'è naturale quando parliamo di innovazione della forma accoppiata a piacevolezza d'ascolto il riferimento immediato è a Burt Bacharach. Nello specifico le cose stanno però in modo del tutto diverso, com'è indirettamente ben dimostrato dal fatto che, a differenza di quanto accaduto con la produzione di Bacharach, nessuno dei brani degli Steely Dan è diventato uno standard: la loro "cantabilità", così evidente all'ascolto, è infatti del tutto apparente; il che è in primo luogo frutto di una diversa filosofia della composizione: legata allo sviluppo di una linea orizzontale eminentemente melodica quella di Bacharach, derivante da mappe di progressioni di accordi - e in ciò "jazzistica" - quella di Becker & Fagen. Se un hit quale Reelin' In The Years (da Can't Buy A Thrill), zappianamente ironico e non poco frainteso, offre un ritornello dinamico e accattivante dopo una strofe poco immediata, tutto il contrario avviene in quello che è forse il loro più grosso successo: Peg, dal vendutissimo Aja; qui la strofe è non poco mossa, e dall'incedere ritmico funky e spumeggiante; ma la progressione armonica del ritornello - senza minimamente darlo a vedere - costituisce un cammino tanto impervio da spezzare le gambe.

Perfetta nell'esprimere sarcasmo, amarezza e ironia, ma anche un coinvolgente e mai retorico pathos compassionevole, la voce di Donald Fagen (una delle più originali e versatili del rock) è l'inconfondibile elemento unificante di tutte le canzoni degli Steely Dan - unitamente alla cifra stilistica sottostante alle composizioni, dotate sempre di forte identità pur nel perenne avvicendarsi dei numerosi musicisti coinvolti. L'ascolto degli album ci dice di un'enorme varietà di atmosfere e generi frequentati, dalla ballad al c&w, dal reggae al jazz (su Pretzel Logic c'è anche una brillante versione di East St. Louis Toodle-oo di Duke Ellington, dove le capacità mimetiche delle chitarre sono tutte da gustare); non mancano poi bizzarre e difficilmente classificabili mescolanze: si veda la voce non poco dylaniana di Rose Darling (da Katy Lied) alle prese con una melodia molto atipica per i climi di riferimento; o la strofe di Throw Back The Little Ones (di nuovo Katy Lied), la cui melodia sembra quasi provenire da un'opera. E che dire degli splendidi brani derivanti dalla matrice blues? Pretzel Logic (dall'album omonimo) mimetizza una progressione poco ortodossa sotto l'estrema naturalezza dell'esecuzione, ma la cosa risulta poi evidente al momento dell'assolo di chitarra; ugualmente naturale ma niente affatto tipica per il genere è la melodia di Chain Lightning, su Katy Lied; mentre Black Friday, brano posto in apertura dello stesso album, offre un inciso dagli accordi jazz che è poi alla base del momento più strano del brillante assolo di chitarra di Walter Becker: se timbro e grinta sono in puro stile "Chicago blues" alcuni passaggi sembrano infatti provenire da un altro mondo.

Sotto le superfici levigate delle canzoni degli Steely Dan non troveremo le storie superficialmente sentimentali che (forse) ci aspetteremmo, ma un bizzarro universo urbano popolato da "weirdos", "maladjusted" e "misfits", descritto in modo obliquo e a volte deliberatamente omissivo, dove le storie vanno ricostruite tentando di mettere insieme i pezzi di un puzzle - o almeno quelli in nostro possesso: molti risultano mancanti. Becker & Fagen sono da sempre appassionati cultori della bella letteratura - all'epoca dei fatti i due mettevano in cima alla lista delle loro preferenze nomi quali Samuel Beckett e Vladimir Nabokov, cosa certamente poco usuale quando parliamo di musicisti rock - da cui un modo di concepire la narrazione che predilige la distanza dall'oggetto. Trattandosi di un cammino lungo otto anni e sette album generalizzare produrrebbe risultati ingannevoli; ma Charlie Freak che muore per overdose (Pretzel Logic), l'atmosfera e i personaggi quasi chandleriani di Black Cow (Aja), il triangolo omosessuale di Gaucho: ebbene, non sono storie che starebbero alla perfezione su album di Lou Reed quali Sally Can't Dance (pensiamo a Baby Face) o Coney Island Baby? Ma lì la corrispondenza (narrativa?) tra storia e io narrante è immediata, seria e non di rado riflessa nella musica. (E certo è difficile immaginare Donald Fagen che canta Kicks.)

Walter Becker e Donald Fagen si incontrano all'università - Bard College, New York - nel '69. Due bei tipi di misfit: chitarrista il primo, tastierista il secondo, sono infatti due sfegatati amanti del "vecchio jazz" (Duke Ellington, Count Basie, Charlie Parker), e anche se diremmo le loro simpatie politiche orientate in senso "liberal" sono decisamente fuori posto nei Sessanta - un po' come Zappa, se vogliamo. Instaurato il sodalizio, i due tentano di piazzare le loro composizioni a New York, senza alcun risultato. Conosciuto Gary Katz, che procura loro un contratto come autori, i due si trasferiscono in California (luogo che odiano) ma anche lì l'insuccesso è il medesimo. Una di queste canzoni, Any World (That I'm Welcomed To), verrà ripresa molti anni dopo su Katy Lied; da notare che mentre il batterista su tutto l'album è Jeff Porcaro, solo per questo brano (e con perversa accuratezza) venne chiamato il leggendario Hal Blaine, al fine di dare al pezzo un tocco tipicamente "californiano". (Chi è Hal Blaine? Diciamo Be My Baby (The Ronettes), Da Doo Ron Ron (The Crystals), Good Vibrations (The Beach Boys), Mr. Tambourine Man (The Byrds), California Dreamin' (Mamas & Papas). Forse il batterista con più Top Ten nella storia della musica.)

Gary Katz procura un contratto discografico e diventa il loro produttore (lo rimarrà); viene assemblata una band: due buoni chitarristi (Dennis Dias, dotato di uno stile particolarissimo: non "stira" mai le corde - aveva studiato con il leggendario Billy Bauer; e Jeff "Skunk" Baxter, a suo agio con stilemi country, rock e blues), un batterista discreto e un cantante (!), dato che Fagen ha poca fiducia nelle proprie corde vocali. Can't Buy A Thrill non è un granché proprio per le parti vocali, ma ci sono la famosissima Do It Again, con Dias che fa l'assolo al Coral electric sitar (lo strumento inventato dal sessionman Vinnie Bell), Reelin' In The Years, la pianistica Fire In The Hole. Scatta l'obbligo dei tour, che i due titolari odiano a morte (distraggono dal comporre). Arriva poi Countdown To Ecstasy, già meglio: Bodhisattva, con in evidenza i due stili chitarristici; Razor Boy, con Victor Feldman al vibrafono e Ray Brown al contrabbasso; la ballad The Boston Rag, con bel solo di Baxter; Show Biz Kids, con Rick Derringer alla slide; l'ironica My Old School, con i fiati. Meglio ancora Pretzel Logic, solo un po' troppo composito, con impiego massivo di sessionmen: il piano di Michael Omartian, la chitarra di Dean Parks, la batteria di Jim Gordon; c'è lo splendido singolo Rikki Don't Lose That Number, l'ironica Barrytown, il blues Pretzel Logic, East St. Louis Toodle-oo, l'omaggio di Parker's Band, la non poco doorsiana Charlie Freak.

E' a questo punto che Becker & Fagen, stufi dei tour, sciolgono il gruppo e decidono di dedicarsi esclusivamente alla composizione e agli album. Katy Lied beneficia immediatamente di questa nuova concentrazione; ai brani già citati aggiungiamo Your Gold Teeth II, dal bel solo chitarristico, e Doctor Wu, con Phil Woods al sax.

Comincia qui l'intombarsi in studio e le infinite prove alla ricerca della perfezione per le quali Becker & Fagen diverranno presto leggendari. The Royal Scam è la vetta del periodo chitarristico, dal suono a un tempo arioso e teso. Tematicamente è forse il loro disco più scuro: l'assassino sotto assedio (con cassa di dinamite) di Don't Take Me Alive; la figura à la Owsley (il chimico che fabbricava LSD per i Dead) di Kid Charlemagne; il disgraziato destino degli immigrati portoricani di The Royal Scam (con memorabile interpretazione vocale di Fagen), dove il coro femminile esprime a un tempo partecipazione gospel e beffarda solennità. Non mancano i momenti dichiaratamente ironici - vedi la lite di Everything You Did ("Alza il volume agli Eagles, i vicini ci ascoltano"). Assolutamente superbi gli apporti strumentali di batteria (Bernard Purdie!) e tastiere (Paul Griffin, Don Grolnick), diremmo l'album indispensabile per chi ama la saturazione chitarristica valvolare e le scale su progressioni "scomode", ma crediamo il solo con talk box di Haitian Divorce in grado di entrare nella hit parade personale di non pochi lettori.

Aja fu l'album che decretò il successo degli Steely Dan, che passarono da gruppo "cult" (su scala statunitense anni settanta: 500.000 copie di ogni disco precedente) a superstar: tre milioni di copie e un'influenza enorme sulla "confezione" della musica del periodo. Aja è accattivante e policromo, ma anche insolito e maturo, nonché espanso nella strumentazione: Deacon Blues, Peg, Black Cow, il duetto Steve Gadd/Wayne Shorter su Aja, il piano di Victor Feldman su Home At Last e I Got The News, i groove ora elastici ora secchi (Jim Keltner su Josie). Si assemblò un gruppo per un tour, ma all'ultimo momento Becker & Fagen fecero marcia indietro.

Piazzato uno dei loro pezzi più ironici, FM, sulla colonna sonora del film omonimo, i due si chiusero poi in studio, dal quale uscirono due anni dopo (!). Gaucho è un album bollente e gelido, deve il linguaggio si asciuga in  favore del groove, e dove lo strepitoso e fedele tecnico Roger Nichols supera se stesso: si ascoltino il timbro della batteria di Bernard Purdie su Babylon Sisters, le tastiere che aprono il brano e il rapporto tra le voci femminili e quella di Fagen; un rapporto che illumina senso (e morale?) dell'ambiente "alla coca" di Glamour Profession e aggiunge strati su strati a Gaucho. E ovviamente ci sono Hey Nineteen, Time Out Of Mind, My Rival e la chiusa di Third World Man, con alla batteria uno Steve Gadd assolutamente superbo.


"Pericolosamente vicino al valium-jazz presente in tanta musica pop di oggi... Godetevelo mentre va giù, ma aspettatevi effetti tardivi." (Richard Cromelin, L.A. Times, 1980)


© Beppe Colli 2000 - 2007

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