Qualità
(prima parte)

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di Beppe Colli
Jan. 1, 2009



Fra tutte le registrazioni "inedite d'archivio" pubblicate lo scorso anno, Sugar Mountain: Live At Canterbury House 1968 di Neil Young era senz'altro una delle più attese. E questo in ragione sia della vasta popolarità di cui a tutt'oggi gode il musicista canadese che della (sperata) qualità (artistica e sonora) dell'esibizione, un estratto della quale - si tratta proprio del brano da cui l'album prende il titolo - ampiamente conosciuto e apprezzato (almeno) sin dai tempi (ormai molto lontani) di Decade.

Abbiamo quindi letto con un certo interesse la recensione dell'album scritta da Jon Savage apparsa sul mensile anglosassone Mojo (si tratta del # 182 datato January 2009). Una recensione tutto sommato soddisfacente, anche se ci ha un po' sorpreso che Savage abbia ritenuto di non dover fare alcun accenno alla canzone di Joni Mitchell The Circle Game, scritta proprio "in risposta" a Sugar Mountain. Una circostanza che Savage ha forse ritenuto fin troppo nota, ma che da parte nostra - al di là della rilevanza dello specifico episodio in questione - diremmo perfetto esempio (con particolare riguardo ai lettori più giovani) di quella condizione di multiforme "dialogo a distanza" che per tanti artisti di quel tempo era cosa assolutamente normale e che nel mondo "insulare" di oggi diremmo essere del tutto assente.

Curiosi di vedere come altri recensori avessero trattato l'album abbiamo fatto la cosa più logica: abbiamo consultato l'ormai noto "aggregatore" Metacritic. E tra i vari quotidiani e periodici rappresentati ne abbiamo scelto uno della categoria "non cartacea": Pitchfork.


Apparsa in data December 5, 2008 a firma Marc Masters, la recensione si è subito rivelata una di quelle che ci fanno aggrottare continuamente il sopracciglio, tante e tali le cose che trovavamo a dir poco discutibili. Almeno finché non siamo arrivati a una frase che ce le ha fatte alzare tutt'e due: "(...) questa registrazione rivela una versione bramosa e nervosa di Young - una versione che è esistita per breve tempo, presto scomparsa nel bagliore del suo successivo successo solista". (Per i curiosi, ecco come suona l'originale: "(...) this recording reveals an eager, nervous version of Young - a version that existed briefly, soon gone in the flash of his subsequent solo success.")

(Per un attimo ci è sembrato di stare leggendo The Wire, dal linguaggio pomposo all'assenza di elementi di fatto che - associazione casuale, o strategia studiata a tavolino - si accompagna pressoché sempre a questo tipo di linguaggio.)

Ma cosa è accaduto dopo "il bagliore del suo successivo successo solista"? Quale esso sia è indubitabile: trattasi di Harvest, unico vero successo di Neil Young. Tolte di mezzo le supposizioni, il fatto certo è che Danny Whitten - il chitarrista da tempo collaboratore di Young - dovette lasciare il gruppo alla vigilia di un tour in ragione del suo stato e morì per overdose quella notte stessa. Il tour che ne seguì fu per repertorio e presentazione quanto di più autolesionista per un artista che si trovi ad affrontare per la prima volta un pubblico di massa, e lo stesso vale per Time Fades Away, l'album dal vivo che proprio da quel tour fu tratto (il lettore eventualmente interessato troverà da qualche parte della Rete una petizione da firmare perché esso appaia per la prima volta in formato CD).

Dopo Time Fades Away era prevista l'uscita dell'album Tonight's The Night: troppo funereo, fu messo da parte in favore del più allegro (!) On The Beach. Doveva poi essere la volta di Homegrown, che in quanto troppo depresso impose il recupero del più allegro (!) Tonight's The Night. E non c'è bisogno di essere dei fan sfegatati di Neil Young per sapere queste cose. Allora?


Dato che la recensione citava un altro recente "inedito d'archivio" di Young, Live At Massey Hall 1971, abbiamo deciso di scriverne il nome nell'apposita finestrella e di attivare il comando "search".

La recensione c'è: firmata da Rob Mitchum, è apparsa su Pitchfork in data March 13, 2007. Anche qui, solite cose. Dobbiamo ammettere che stavolta manca un exploit altrettanto clamoroso, ma mentre leggiamo ci balza agli occhi la seguente frase: "(...) mentre See The Sky About To Rain, qui disadorna rispetto alla versione sovraccarica di Rhodes presente su On The Beach, si rivela una gemma trascurata e vede un "massaggiare i tasti" sorprendentemente complesso." (Così suona l'originale: "(...) while "See the Sky About to Rain", stripped down from its Rhodes-heavy On the Beach version, reveals itself as a neglected gem, featuring surprisingly complex key-tickling.")

Lasciamo perdere il "sorprendentemente complesso" e anche la "gemma trascurata" (non sono certo pochi quelli che hanno considerato proprio questo brano quale il migliore della prima facciata dell'album!). La cosa che fa sorridere è quel buttar lì, con perfetta nonchalance, la parola "Rhodes"; una parola che su una rivista come Keyboard non avrebbe certo bisogno di ulteriori specificazioni, ma che su un giornale "generalista" - e in un'epoca in cui le tastiere che ascoltiamo sono per la quasi totalità campionate - a nostro parere andrebbe integrata dall'espressione "piano elettrico".

Solo che il piano elettrico della versione di See The Sky About To Rain presente su On The Beach non è un Rhodes: è un Wurlitzer.

A questo punto è sempre possibile dire che la cosa è di poco conto, e che l'essenziale non è questo, e in fondo cosa si pretende da uno che scrive recensioni, eccetera (conosciamo un bel po' di persone capacissime di fare proprio questo genere di discorsi). Proviamo quindi a fare un po' di chiarezza.

Scambiare un Wurlitzer per un Rhodes non è come confondere un Chamberlin e un Mellotron. E' proprio roba da guitti. Se abbiamo presente il suono di piano elettrico degli album di Miles Davis dalla fine degli anni sessanta in poi - o quello dei tanti gruppi di fusion pressoché coevi - sappiamo già come suona un Fender Rhodes, strumento "fusion" per eccellenza. Per quanto riguarda il Wurlitzer (qui il primo pezzo che ci viene in mente è il bel singolo degli Small Faces, Lazy Sunday) possiamo agevolmente ricorrere a un gruppo tutt'altro che sconosciuto: i Doors. Laddove il terzo pezzo della seconda facciata di Morrison Hotel, Queen Of The Highway, vede quale protagonista strumentale un Wurlitzer (con il caratteristico vibrato tanto simile a quello usato su See The Sky About To Rain, anche se il tocco e gli accordi di Ray Manzarek sono ovviamente molto diversi). Mentre introduzione e assolo della celeberrima Riders On The Storm sono affidati a un Fender Rhodes.

Nel caso specifico bastava solo voler leggere: le note di copertina della versione originale in vinile di On The Beach riportano la formazione di ciascun brano, e per quello in questione lo strumento indicato è un Wurlitzer; e lo stesso avviene con la versione in CD (e ne esiste una sola); mentre se si ha a disposizione solo un album "masterizzato" o sotto forma di file senza indicazioni (proprio un recensore!) basta cercare su Wikipedia e lì c'è tutto. Allora?


© Beppe Colli 2009

CloudsandClocks.net | Jan. 1, 2009