Problemi & Prospettive
#2
Gaseous Logic
vs.
Christgau's Consensus

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di Beppe Colli
May 14, 2014



Anche quest'anno, come d'abitudine, il critico statunitense Robert Christgau ha provato a fare il punto della situazione per quanto concerne lo stato della musica. L'occasione è ovviamente il consueto referendum di fine anno della storica rivista newyorchese The Village Voice, referendum che pur nell'odierno mondo multicentrico sembra ancora conservare tracce dell'antica rilevanza.

Programmatico sin dal titolo, The Consensus Has Consequences si riallacciava direttamente allo scritto dell'anno precedente, May The Consensus Have Consequences. In quell'occasione Christgau aveva salutato con gioia la comunanza di vedute tra Rolling Stone e Pitchfork, testate musicali da lui considerate le più importanti di oggi: per la prima volta, infatti, gli stessi tre nomi comparivano ai primi posti delle classifiche di ambedue le riviste. L'importanza della cosa era ovviamente da leggere alla luce del fatto che le due pubblicazioni non potrebbero essere più diverse. Christgau chiudeva il suo scritto esprimendo l'augurio che questa concordanza di vedute si ampliasse in occasione del referendum dell'anno successivo.

Da cui il titolo del pezzo pubblicato quest'anno. Christgau parla adesso di "vastly more consensus", che a fronte di una pur "unprecedented commonality" dell'anno precedente presenta adesso ben ventitrè titoli in comune. Che la cosa rivesta un'importanza decisiva è subito esplicitato, allorquando Christgau dichiara che il fatto sembra essere "un segnale piccolo ma incoraggiante" dell'attenuazione della "atomizzazione del gusto". In particolare, "la testata più giovane ha superato la sua avversione istintiva per quanto sa d'industria, a cominciare dall'hip-hop - cosa inevitabile se il tuo scopo è quello di offrire una copertura significativa - per andare all'r&b e al pop, generi per i quali valgono le medesime considerazioni, ma in misura maggiore". (...) "Ambedue le testate condividono adesso una predilezione per canzoni leggibili con "ganci" e mordente". La trattazione successiva in quello che, come d'abitudine per Christgau, è uno scritto perfettamente comprensibile ma molto denso e articolato e che quindi andrebbe letto per intero mostra la sua preoccupazione per uno stato di cose in cui l'eccessiva frammentazione del gusto - e quindi del mercato - renderebbe di fatto impossibile a chiunque mantenersi con la musica.

C'è però dell'altro, come ben mostrato dalla chiusa: "La varietà è importante. E la nostra cultura è più in salute se noi vediamo alcune cose allo stesso modo."


La questione approdava in data January 23, 2014 su Rock Critics, il noto sito di discussioni e altro animato da Scott Woods. Sotto il titolo More Pazz & Jop (ricordiamo al lettore che Pazz & Jop è il nome del referendum del Village Voice) Woods invitava i più volenterosi a un commento. La discussione che ne è seguita - quarantasei interventi: non pochi in qualunque momento, li diremmo quantitativamente ancor più significativi oggi - si è rivelata prodiga di spunti interessanti, con interventi di lunghezza a volte chilometrica e tono non di rado alto.

E' ovvio che riassumere questa lunga discussione in uno spazio ristretto è un compito impossibile. Il lettore interessato potrà facilmente accedere al testo originale, dove tra gli altri spiccano gli interventi di Frank Kogan, di JD Considine - critico che ricordiamo con piacere dai giorni più felici del mensile statunitense Musician - e dello stesso Woods. E' una discussione dalla quale, assumendocene per intero la responsabilità, proveremo a estrapolare un paio di punti.

Il primo è che nessuno dei partecipanti è sembrato trovare alcunché di rilevante nella crescente convergenza tra Rolling Stone e Pitchfork. Molti i motivi. C'è stato chi ha attribuito questo cambiamento al trasmigrare di giornalisti da una testata all'altra, con Rolling Stone a imbarcare nomi meno affezionati ad artisti del passato quali Jackson Browne. C'è chi ha considerato il campione di giornalisti preso in oggetto la classica goccia nel mare nel panorama del mondo moderno. C'è chi ha messo in dubbio la sola possibilità di avere oggi un "consensus" su alcunché, tanto grande è oggi il panorama delle musiche che è possibile ascoltare - e non dimentichiamo l'enorme spazio situato al di fuori della prospettiva "occidente-centrica".

C'è poi chi ha ricordato la predilezione di Christgau per la "monocultura", predilezione espressa più volte e in più occasioni. Un concetto, quello di monocultura, la cui definizione mai davvero esplicitata è stata per alcuni motivo di rimprovero nei confronti di Christgau. Vogliamo però citare JD Considine, che a nostro avviso cristallizza in poche parole i punti salienti della questione: "Se si tratta di capire la "monocultura" (...) l'aspetto decisivo non è se qualcosa ti piaccia o meno quanto l'esserci immersi dentro. Far parte della "monocultura" non voleva necessariamente dire che tu fossi un fan di ogni canzone che era nel Top 40 ma che queste canzoni facevano parte della tua coscienza, del tuo vocabolario, del tuo senso della popular music. Considera la cosa in questo modo. Ad alcuni piaceva Paul, ad altri John, ad altri George, ad altri Ringo. Ad alcuni, nessuno di loro. Ma tutti prestavano attenzione a una specifica geografia della popular music, invece di stare accampati in un territorio che aveva quale confine Eric Dolphy da un lato e Ornette Coleman dall'altro. Il fatto che certe parti del paesaggio ti piacessero o no non voleva dire che non facevi più parte di quel paesaggio."


Avvertendo per onestà il lettore che qui stiamo solo ragionando ad alta voce, ammetteremo di esserci interrogati a lungo sui motivi che hanno spinto Christgau ad adottare le formulazioni di cui s'è detto. E se riteniamo che sarebbe profondamente ingiusto considerare la sua predilezione, o la sua nostalgia, per la "monocultura" quale segno di vecchiezza - Christgau è innegabilmente un ottimo esempio di critico "al passo con i tempi" pronto ad allargare lo sguardo e privo di pregiudizi negli ascolti - riteniamo possibile che il suo atteggiamento esprima delle preoccupazioni di natura culturale, cosa che nel suo caso ha in ultima istanza delle innegabili ripercussioni "politiche".

Dobbiamo ammettere che in più di un'occasione la sua particolare attenzione ai problemi della frammentazione e all'atomizzazione delle preferenze di gusto - detto in modo un po' sbrigativo, il nostro giudizio sugli oggetti è uno dei modi in cui dialoghiamo (una formulazione che trova il suo corrispettivo in molte pagine del classico volume di Greil Marcus intitolato Mystery Train) - ci è parsa correre in parallelo alla preoccupazione per la diminuzione del "capitale sociale" espressa dal sociologo Robert D. Putnam in quel volume di vasta risonanza che porta il titolo di Bowling Alone.

Quella che qui è in discussione - sarà meglio essere chiari - non è la natura "policentrica" del panorama attuale (sappiamo bene che l'argomentazione prediletta di chi non ha argomenti è quella di accusare l'interlocutore di nutrire nostalgia per i tempi del "pensiero unico" e del "centro indiscusso") ma la possibilità del dialogo in un panorama nel quale la crescente proliferazione delle fonti e dei linguaggi rende il dialogo difficile. Il problema non è la proliferazione degli "oggetti" - per dire, il "pop coreano" accanto al "country & western - ma la diversità delle categorie interpretative.


Ovviamente lo sfondo di questa discussione è lo stato dell'industria. Qui le ultime notizie non parlano di una situazione rosea.

Cifre recenti dicono di una Sony che vede calare fatturato e dividendi a causa di quello che appare essere il prematuro declino del Blu-ray, formato video introdotto appena nel 2006. Ciò a fronte di un prezzo di abbonamento mensile a un canale televisivo dedito al cinema quale lo statunitense Netflix che è pari a 8 dollari.

Un articolo apparso sulla rivista in Rete PopMatters - The Music Industry's "1-2%" Death Knell, a firma Evan Sawdey - ci dice dell'ultima preoccupazione rivelata dai dati riguardanti iTunes Radio: "iTunes ha indicato che solo l'uno-due per cento degli ascoltatori di iTunes Radio clicca sul pulsante "Compra" per acquistare una canzone che ha appena ascoltato. Il che è un risultato non cattivo, ma catastrofico." E mentre artisti con una base di fan già larga riescono in qualche modo a sopravvivere, "i nomi nuovi hanno problemi a farsi strada,  dato che i modi e i luoghi tradizionali stanno a poco a poco scomparendo, mentre i fan installano nei loro browser delle app che consentono di scaricare con un solo click file MP3 dell'audio di un video che appare su YouTube."


Non è un discorso originale, ma ripetiamolo ancora una volta. La situazione odierna ci dice di una proliferazione pressoché infinita di fonti alla quali è possibile accedere per godere di "cose" a prezzi poco più che simbolici. Queste fonti riescono a fare a meno in modo crescente, e ormai quasi del tutto, del "filtro" che una volta vedeva presente la critica. Il peso crescente dei "social network" mantiene il discorso all'interno di un ambiente che ancorché potenzialmente infinito è però sempre limitato e curiosamente affine alla cerchia delle amiche/degli amici del periodo adolescenziale, contraddistinto da uno sguardo "orizzontale". Se l'abitudine odierna al multi-tasking rende tenue il tipo d'attenzione, le crescenti modalità "tattili" di relazionarsi al mondo propiziano un crollo della sfera verbale, e quindi delle capacità "espressive" propriamente dette.

Data questa cornice, quale tipo di musica è più probabile mantenga adeguate capacità di attrazione?


Chiariamo che per "tipo di musica" non intendiamo qui indicare uno "stile" o qualcosa che sia "di per sé" scadente, anche se dovrebbe risultare ovvio che a una complessità crescente non può non corrispondere una diminuzione del numero dei potenziali fruitori; in parallelo, non va dimenticato che sul "pop" ha pesato per anni un pregiudizio duro a morire, con molta musica "rock" a esprimere formule ben al di sotto in quanto a creatività di tanta musica che si vorrebbe "di facile consumo".

La nostra proposta di identikit è quella che identifica una musica della quale sia possibile discutere in modo da tagliare fuori il minor numero possibile di persone. Questo tipo di discussione non è, come si potrebbe pensare, necessariamente "semplice", bensì "indefinito", cioè a dire contraddistinto da una vaghezza di senso che si presenta come "aperta".

La conclusione è che quello di cui si deve parlare il meno possibile, se non in termini vaghi, è proprio la musica. Mentre la "persona" ha da essere il più possibile "aperta" e "cangiante".

E' ovvio che ogni cosa può essere presentata in modo "elementare". Jimi Hendrix sarà allora "l'esuberante rocker che suona la chitarra con i denti", Frank Zappa "il baffuto Maestro del bizzarro" e Robert Fripp "l'imperscrutabile chitarrista che suona seduto su uno sgabello". Ma il lettore capirà da sé che c'è un limite stringente a quanto è possibile dire intorno a queste figure.

Proviamo ad aggiungere una dimensione ulteriore incrociando due semplici dicotomie: rock/pop da un lato, gruppo/artista solista dall'altro. Esistono gli "artisti rock" e i "gruppi pop", ma diremmo che per il nostro discorso le categorie più rilevanti sono i "gruppi rock" e gli "artisti pop". E non ci pare difficile capire quale categoria sia più semplice da gestire in un mercato distratto come quello di oggi.

L'artista solista pone sempre in primo piano questioni soggettive di "identità personale", pone il fruitore di fronte a un rapporto uno-a-uno, si presta meglio a spostare sullo sfondo questioni riguardanti l'apporto di terzi.


Giunti a questo punto il lettore si starà probabilmente chiedendo in cosa questo scenario differisca da quelli dei tempi andati, a partire da quella cesura del "Glam Rock" che riportò alla ribalta la figura di "cantante" accantonata dallo strapotere dei "gruppi". E' un discorso complesso, e sarebbe forte la tentazione di cavarsela dicendo che David Bowie ed Elton John erano musicisti.

Va da sé che gli anni della "video-musica" non sono passati invano. Ma - pur utili a far apparire "cafoni" i musicisti che mal si prestavano al trattamento - le categorie mutuate da fumosi pensatori francesi adoperate dai critici anglosassoni che gravitavano attorno a riviste quali The Face si trovavano a competere in un ambiente che credeva ancora alla nozione di "autenticità". Ma quando tutto si è rivelato essere una "maschera" non c'è stato più scampo per nessuno. (Ci capita a volte di chiederci cosa pensi oggi un critico quale Simon Frith nel trovarsi di fronte le conseguenze estreme del suo modo di teorizzare.)

La deflagrazione odierna ci pare frutto della combinazione di due fattori: la crescente semplificazione di quanto di musicale in senso stretto è possibile assorbire nell'era del multi-tasking e l'irrompere su una scena quale quella statunitense, che vede la progressiva scomparsa del critico musicale in senso stretto (qui non è difficile considerare il periodo che ha visto baldi giovani sottopagati intenti a copiare i comunicati stampa delle case discografiche quale la tappa intermedia che ha tolto ogni credibilità residua alla categoria), di una schiera di laureati in "discipline umanistiche" pronti a tradurre in soldoni gli sciagurati insegnamenti di un'università intenta a produrre chiacchiere auto-referenziali.

Il punto cruciale è come sempre la "sparizione dell'oggetto" e la sua incorporazione in affermazioni prive di qualunque possibilità di verifica. In quest'ottica il "consensus" di Christgau è destinato a sparire, e non per la moltiplicazione degli oggetti che rende pulviscolo gli agglomerati ma per la progressiva incapacità di costruire un oggetto che sia comunicabile e confrontabile con altri. In teoria resterebbe quel puro "indicare" che è dato dal momento dell'acquisto. Ma se tutti scaricano?


Quale intermezzo "politico" ci piace notare che le questioni concernenti l'identità personale come slegata dai fattori produttivi ma legata al sesso e al proprio gruppo sociale di riferimento acquistano rilevanza in parallelo alla svalutazione del lavoro, emigrato in nazioni dove il costo della manodopera in grado di fabbricare beni durevoli è più abbordabile o in quei paesi dove proliferano i tristemente famosi "sweatshop" che producono capi d'abbigliamento.

La crescente sparizione dei giornali musicali quali entità in grado di sopravvivere in termini commerciali rende possibile a chi si occupa di musica parlare un linguaggio vago e scarsamente significante che è perfettamente in grado di rivolgersi ai lettori dei quotidiani, laddove la crescente diffusione della brevità imposta dai social network consente alla frase arguta e al ricorso al frammento di godere di un'impunità di fatto.

Slegate dalla necessità di dover aderire alla musica, le figure anfibie che oggi occupano buona parte dello scenario mediatico sono così in grado di rappresentare gli interessi commerciali più vari non in quanto "adagiati" sulle loro figure ma quali propaggini della loro personalità di "artisti".

Paradossalmente in un'epoca che mai è stata tanto materiale, a essere glorificata è proprio l'immaterialità del file - che a ben vedere ha più di qualche punto di contatto con quella del volatile capitale finanziario.


Qualcosa che va dritto nella nostra personale classifica degli orrori, la conversazione a due voci tra Ann Powers e Carl Wilson è un'altra di quelle cose che mai avremmo potuto cogliere non fosse per la meritoria opera di segnalazione fatta da RockCritics.

Doveroso antefatto è la pubblicazione, nel 2007, di un volumetto della serie 33 1/3 intitolato Let's Talk About Love del critico canadese Carl Wilson. Il libro trae il titolo da una canzone di Celine Dion, e non a caso: l'oggetto del lavoro è il nostro rapporto con la musica che non ci piace. Il lettore che volesse saperne di più dovrà però provvedere in proprio. Il motivo è semplice: dato che la qualità dei libri delle serie 33 1/3 da noi letti ci aveva trovato tutt'altro che entusiasti, a un certo punto abbiamo fatalmente passato la mano.

Il libro di Wilson ha raggiunto una buona popolarità - quanto buona in termini quantitativi non sapremmo dire, di certo ha goduto di buone recensioni. Una nuova edizione del libro è apparsa un paio di mesi fa. Al saggio originale si aggiungono alcuni nomi esterni, tra i quali spiccano quelli di Nick Hornby e di Ann Powers. Ed è proprio quest'ultima, alla faccia del conflitto di interessi, a ospitare con prosa garrula Carl Wilson sul blog della statunitense NPR intitolato The Record.

Non abbiamo difficoltà ad ammettere di aver trovato lo scambio di vedute che va sotto il titolo di Why We Fight About Pop Music massimamente sconcertante. Per quanto lungo e arricchito da citazioni estese il resoconto che segue non rende l'idea. Il lettore interessato procederà in proprio.

La conversazione è suddivisa in cinque parti. La prima, intitolata Is There A Crisis In Music Criticism? vede Ann Powers porre la seguente domanda: "La destrezza richiesta dallo stare in equilibrio sulle alte onde dei suoni a disposizione rende l'andare in profondità obsoleto?" (...) "E' una linea di sfiducia alla quale non credo." (...) "Ma non riesco a capire perché essa risuoni proprio adesso. Questo è un momento di grande forza per chi ama la musica. C'è così tanta roba a disposizione. La tecnologia ci offre costantemente nuovi mezzi per rendere possibile e per organizzare il nostro apprezzamento della musica. E oggi chiunque può essere un critico, postare playlist e risposte su YouTube, fare blogging e Tumbling, e dire al mondo "this is my jam"." (...) "Quindi, cos'è questo aroma di paura proprio adesso - che non riguarda il fatto che l'industria musicale possa crollare o che i musicisti siano in grado di pagare la propria assicurazione sanitaria, ma fattori più filosofici quali senso e autorità? Forse è una reazione al clamore creato da molte onde sonore, un tentativo di contenere ciò che non può essere contenuto."

Dobbiamo ammettere di essere rimasti un po' indecisi sul senso da attribuire a queste dichiarazioni, che sulle prime ci sono parse scherzose.

Finché non siamo giunti alla seconda parte, appannaggio di Carl Wilson, che ha per titolo: "Perché la gente ce l'ha con l'ottimismo pop? Perché sta vincendo."

Dice Wilson: "Le forze a favore del pop dominano. Ci sei tu alla NPR, io a Slate, Jody Rosen al New York magazine/Vulture, Jon Caramanica e i suoi colleghi al New York Times, Sasha Frere-Jones al New Yorker e altri ancora in ogni posto importante che potremmo citare. Perfino Pitchfork, una volta bastione dell'oscurantismo indie-rock, dedica ora uno spazio generoso alla dance, al pop, all'hip-hop e ad altre forme." (...) "E quindi devo definire quello che proviene dagli autori anti-pop come un contraccolpo, una reazione acida da parte di gente che sta accorgendosi che una battaglia culturale è finita e che loro hanno "perso"."

Dobbiamo ammettere che se avessimo ascoltato per radio questa conversazione il nostro stupore sarebbe stato ancora maggiore, di certo è grande la nostra curiosità di conoscere l'identità di questa gente inacidita. Neppure un nome? In compenso, quella schiera di "amici" presenti nei giornali di mezza America ci ricorda il modo in cui nei nostri incubi immaginiamo si svolgano i patteggiamenti dietro le quinte che precedono i concorsi universitari per Professore ordinario.

Ma Wilson fa sul serio, come dimostrato dal seguente passo: "Il mio nuovo post-scriptum è in parte sulle questioni che tu sollevi: come la tecnologia e la generazione nata dopo il 1980 hanno cambiato il panorama del gusto. Discuto persino la possibilità di concepire una società "post-gusto" nella quale quasi nessuno mantiene una lealtà a linee guida estetiche, e tutti facciamo il surf tra un oggetto e l'altro."

Questa, per tornare al discorso di Christgau sul "consensus", è la teorizzazione della morte di qualsiasi possibilità di argomentazione razionale delle preferenze, una possibilità che viene lasciata allegramente evaporare. Ma esiste già una fetta della vita in cui domina incontrastato il "capriccio": è il regno della moda, delle scelte che non si "spiegano" ma si "mostrano". Dovremmo dunque accettare tranquillamente l'imporsi di questa logica "gassosa"?

Concludiamo con la Powers dalla parte terza. "Recentemente Linday Zoladz ha scritto su Tumblr di essere andata a un concerto di Miley Cyrus e di avere compreso che - alcune volte - vorrebbe scrivere rivolgendosi ai Bangerz, i devoti di Miley, e non ai suoi colleghi nerd di Pitchfork." Ma qual è la differenza? Le esigenze di informazione dei diversi soggetti sono così diverse? E' una questione di tono? E' davvero scherzoso quell'appellativo di "nerd" rivolto ai colleghi? Non è dato saperlo.

Prosegue la Powers:  "Nel suo eccellente pezzo su EMA - il cui album The Future's Void è uno dei miei preferiti del 2014 - Sasha Frere-Jones quasi chiama la sua musica rock, ma invece dice che è "una bestia pelosa, occasionalmente digitale". Mi piace quella frase. Suona come quello che Jimi Hendrix suonerebbe adesso. In altre parole, per trovare dove è andato il rock dobbiamo prima essere d'accordo su che cos'è. E non è facile."

A essere sinceri abbiamo la decisa sensazione che qualcuno sia andato fuori di testa.


Un piccolo p.s.

Dato che non avevamo mai sentito nominare Lindsay Zoladz abbiamo fatto una ricerca incrociando il suo nome con quello di EMA, trovando subito un'intervista apparsa su Pitchfork. Ci ha colpito questa domanda: "In un certo senso, l'estetica di questo disco sembra essere pro-Internet, anche. C'è tanto rumore degradato, e un processing sulla tua voce che sembra quasi mostrare i pixel. Era questo un tipo particolare di effetto che stavi cercando di ottenere?"

La parola alla giuria.


© Beppe Colli 2014

CloudsandClocks.net | May 14, 2014