Un paio di casse nuove
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di Beppe Colli
Oct. 1, 2006



Triste ma vero, bisognava ammettere che era arrivato il momento di separarci dalle nostre fidate e fedeli casse. Dopo aver consultato un gruppo di persone gentili che fanno parte di un Forum in Rete per/scritto da/a proposito di produttori e tecnici del suono, e avendo fatto esaminare le casse dal nostro tecnico di fiducia, appariva evidente che il colpevole era senz'altro il filtro. Ma dato che le nostre casse erano in effetti un po' vecchiotte, e che trovare le parti di ricambio cominciava a essere un problema, era giocoforza ammettere che era giunto il momento di cambiare. E quindi abbiamo deciso di dare un'occhiata in giro.

Beh... Leggere della morte dell'hi-fi è una cosa, ma vedere quello che è disponibile in città (popolazione: 380.000+) è un'esperienza del tutto diversa: sistemi "home-theatre" dappertutto, negozianti che non hanno altra scelta se non quella di vendere quello che hanno già in negozio, l'unico paio di casse (hi-fi) dal bel suono che ci è stato dato di ascoltare aveva un prezzo che si aggirava (gasp!) intorno agli 8.000 euro... Per non parlare della proliferazione di quegli speaker piccolini che si collegano al computer, o di quei "personal player" portatili che poi vengono riempiti da intere biblioteche di suoni (scaricati - e pagati?). Ma alla fine i buoni vincono sempre: un amico musicista la cui opinione riteniamo degna della massima fiducia ci ha suggerito di dare un'occhiata ai nuovi monitor da studio (no, niente marca e modello). Erano davvero buoni. Detto fatto, comprati.

Abbiamo sempre avuto una predilezione per i monitor da studio, ed è quello che usiamo. E così abbiamo trovato il giusto piazzamento nella stanza, abbiamo provato il nostro "suono di riferimento preferito" (è un armonico proveniente da una pelle della cassa della batteria che si comporta come frequenza risonante nella stanza dello studio dove la registrazione ha avuto luogo; è ascoltabile a circa 2' 19" su The Joke, dal secondo album omonimo degli High Tide pubblicato nel 1970) e via con la musica.

Una cosa che ci piace molto fare ogni volta che compriamo un nuovo componente dello stereo è ascoltare nuovamente un sacco di dischi che già conosciamo. (Avevamo già notato che...? E come ci era potuta sfuggire quella bella parte di basso in...?) Abbiamo anche ascoltato i due album pubblicati dagli Hatfield And The North - e anche delle cose dei National Health - per dare il giusto addio al recentemente scomparso Pip Pyle, il cui lavoro batteristico è probabilmente al suo strepitoso meglio qui.

E' strano come, a volte, il fatto di riascoltare dei vecchi dischi faccia venire la voglia di rileggere dei vecchi articoli. In una cartella del nostro computer teniamo dei bei file con della roba scritta da Greil Marcus. Per esempio la sua recensione dell'album Let It Bleed dei Rolling Stones, originariamente pubblicata nel 1969 sul numero 49 di Rolling Stone. Ci chiediamo quanto possa aiutare qualcuno che non abbia mai ascoltato l'album a sviluppare un apprezzamento per esso, o quanto meno a capirlo. Molte volte chi scrive appare preoccupato soprattutto di inserire il lavoro di un gruppo in un quadro più generale - e nel caso di Marcus questo avviene in modo magistrale (forse ancor di più se parliamo della sua recensione di Sticky Fingers degli Stones, originariamente apparsa sul numero di Creem datato August 1971). Ma dopo aver letto le storie che riguardano il gruppo, i testi, l'atteggiamento del gruppo, la loro attitudine morale... non c'è qualcosa di molto importante che ancora manca?

In un pezzo da lui scritto intitolato The Bangs/Meltzer/Tosches Juggernaut, originariamente apparso al tempo dell'uscita nelle sale del film Almost Famous di Cameron Crowe, Simon Reynolds ha citato il pezzo su The Pretender scritto da (l critico statunitense recentemente scomparso) Paul Nelson per il volume miscellaneo (che diremmo discretamente famoso) intitolato Stranded quale scritto la cui analisi si situa interamente sul piano dei testi. Cosa che, a nostro parere, potrebbe essere detta più o meno tale e quale a proposito del contributo scritto da (l critico del Regno Unito) Simon Frith a proposito di Beggars Banquet dei Rolling Stones che appare nello stesso volume. A volte sembra quasi come se - dato il fatto che certe canzoni erano praticamente dappertutto, sparate da ogni radio e stereo (o forse è meglio dire mono?) - descrivere una canzone in dettaglio sembrasse quasi superfluo. E certo, se parliamo di "rock criticism", quelli erano giorni in cui tutti erano autodidatti. Però...


Il giornale (UK) chiamato Sound on Sound ("The UK's Biggest Selling Music Recording Magazine", recita il sottotitolo) ospita (ogni mese?) un articolo di argomento fisso chiamato Classic Tracks. Ne abbiamo letti alcuni (è possibile leggere tutti gli articoli della rivista sul suo sito web, otto mesi dopo che il numero in questione è andato in edicola), e sebbene siano molto diversi li abbiamo trovati per la maggior parte molto interessanti, e molto piacevoli da leggere. Una delle più belle puntate a parere di chi scrive è quella riguardante I'm Not In Love, il clamoroso successo mondiale del 1975 dei 10cc., specialmente per la discussione sul processo di arrangiamento e sull'uso dello studio e dei loop di nastro fatto dal gruppo. (Ma anche leggere di Tony Visconti che discute il suo uso di quei tre microfoni per la parte vocale di David Bowie su "Heroes" non è male.)

La formula è davvero semplice: si intervistano musicisti, produttori e tecnici che hanno avuto una parte nel creare e registrare una canzone famosa. E proprio quando pensiamo di avere letto tutto quanto c'era da leggere sull'argomento - è mai possibile leggere qualcosa di nuovo a proposito di, per esempio, Layla di Eric Clapton? - ecco che arriva questo pezzo (è sul numero datato September 2006) sul mixer fatto apposta per Tom Dowd: "(...) Beh, aveva i fader del mixer messi in questo modo - erano messi al contrario, con la posizione di più forte quella più vicina a te." Bestiale! Questa non l'avevamo mai sentita.


A causa di una, o più, delle diverse ragioni possibili (mancanza di maturità? motivi editoriali? considerazioni commerciali? filosofie differenti? pura e semplice ignoranza?) alla fine quello che viene fuori dalle casse non sembra essere molto importante quando si parla di musica. Quello che la maggior parte dei giornali sembra privilegiare di questi tempi sono le biografie colorate (e in effetti, se è di questo che parliamo, la maggior parte dei musicisti non delude di certo). E' vero, i giovani si annoiano comunque dopo solo poche frasi.  E sì, tutti quegli anni passati a guardare video non possono non avere avuto un effetto sia su chi scrive che su chi legge. Ma all'atto pratico, l'assoluta prevedibilità di questi racconti di peccato e di avventure estreme può tramutare anche la più interessante delle carriere musicali nello stimolo per una gigantesca gara a chi russa di più. Non c'è bisogno di sottolineare quanto discutere uno stile di vita sia più semplice, e a prova di errore (per non parlare di quanto sia più economico: sappiamo di quanto stiano colando a picco le retribuzioni per chi scrive, e non importa di cosa, no?) che parlare di musica, che è sempre una cosa pericolosa.

Avendo letto della ri-ristampa del "molto celebrato album solo del 1973, Paris 1919" di John Cale abbiamo pensato di ri-ricomprarlo! La presenza di qualche pezzo/versione/missaggio/qualsiasi cosa inedito era di grande tentazione, ma che suono avrebbe avuto? - un sacco di versioni "digitally remastered" di vecchi album ha voci, rullanti e piatti stridenti e fastidiosi, e in più un livello di volume esagerato forse destinato a competere con quello delle nuove uscite. Siamo riusciti a trovare una recensione dell'album - molto lunga e dettagliata, considerati i tempi. Il problema era che - a parte il fatto di non menzionare mai il suono della versione rimasterizzata - il recensore sembrava conoscere bene solo un gruppo del (distante) passato (giusto, indovinato): The Velvet Underground. Cosa strana, non veniva fatta alcuna menzione del produttore di Paris 1919, Chris Thomas, che certamente ha avuto un non piccolo merito nel successo (artistico) del disco; e neppure dei Procol Harum, il gruppo (a quei tempi decisamente famoso) i cui dischi Chris Thomas produceva, e il cui distintivo stile musicale Paris 1919 certamente ricorda, più di quello dei Velvet Underground.


Abbiamo usato le nuove casse per ascoltare delle cose nuove che avevamo sul tavolo, un CD che ci è piaciuto particolarmente essendo quello di recente pubblicazione dei Rova intitolato Totally Spinning. Eravamo nel bel mezzo delle sedute di ascolto quando ci è capitato di leggere un paio di recensioni che riguardavano proprio questo titolo. Ma quello che c'era scritto in queste recensioni non somigliava per niente a quello che stavamo sentendo noi! E' chiaro che questi ragazzi stanno usando delle casse sicuramente guaste, no?


© Beppe Colli 2006

CloudsandClocks.net | Oct. 1, 2006