La critica musicale
in un mondo mercenario

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di Beppe Colli
June 16, 2006



E' stato grosso modo un mese fa che ci è giunta la notizia della chiusura di un altro giornale musicale: questa volta si trattava del mensile statunitense Circus. Non sappiamo quanto questo nome possa risultare familiare al lettore (di qualsivoglia nazionalità). Se parliamo di esperienza diretta, per chi scrive il nome Circus è soprattutto sinonimo di un periodo in cui - fatta eccezione per quelle tre o quattro città italiane "di respiro europeo" - trovare in edicola un giornale in lingua inglese era un evento decisamente raro. Sebbene la nostra conoscenza di quella lingua fosse allora più un'ipotesi che una risorsa, procedemmo senza indugio ad acquistare quell'oggetto misterioso che in copertina annunciava un'intervista a un Jim Morrison in attesa di processo (le star di quel numero erano i Grand Funk Railroad). Molto tempo dopo (anni!) arrivò un altro numero, il cui principale motivo di interesse erano i risorti Jefferson Airplane di Long John Silver. (Averli ancora, quei giornali... In effetti l'intervista a Jim Morrison è ancora nel nostro schedario. Sul retro dell'ultima pagina, un necrologio di Janis Joplin firmato da un nome che solo alcuni anni dopo avrebbe avuto per noi un senso: Patti Smith.)

Quando si dice le coincidenze: giusto un anno prima un esauriente ritratto di Circus era apparso sul sito Rockcritics.com. Il sempre affidabile Steven Ward aveva condotto una lunga e meticolosa esplorazione di quel mondo, tracciandone il profilo grazie a una decina di interviste con giornalisti che in buona parte erano poi divenuti famosi altrove ma che proprio su Circus avevano svolto il loro periodo di apprendistato. Ed è stato grazie all'articolo di Ward che abbiamo appreso che Circus era - insieme a Rolling Stone - il giornale musicale statunitense più longevo: fondato nel 1966 con il nome di Hullabaloo, aveva assunto il nome definitivo nel 1968. Un nome forse poco prestigioso (da cui la poca attenzione prestata dai media alla sua scomparsa?), ma che a giudicare dalle copertine della seconda metà degli anni settanta non era poi troppo dissimile dal Creem post Lester Bangs. Va da sé che gli anni ottanta avevano visto il mensile dedicare la giusta attenzione al "metallo capelluto".


Sul lato opposto dell'Atlantico, il Regno Unito piange la scomparsa di Smash Hits, a ventott'anni dalla fondazione. Un ritratto approfondito del "glorioso settimanale" (cinque pagine ricche di foto) è apparso sul numero di aprile del mensile The Word: la firma è quella di Mark Ellen, che per un certo periodo proprio di Smash Hits fu il direttore. Pura coincidenza, la copertina è dedicata ai Pet Shop Boys (com'è noto, Neil Tennant era stato un giornalista di Smash Hits). Ovviamente quando si tratta di piangere la scomparsa di qualcosa di nazionale il Regno Unito non è secondo a nessuno; quindi, nelle parole di Mark Ellen, "La notizia della morte del giornale ha fatto irruzione nei media, in parte perché i media sono oggi diretti dalla generazione che è cresciuta con esso. David e io - e molti altri - siamo stati bombardati da inviti di giornali, radio e televisioni allo scopo di contribuire a una giornata nazionale di lutto, acri di nostalgia compilati da gente che era ancora in grado di citare a memoria spezzoni della sua prosa febbrile e di recitare sottotitoli di foto del 1985. La notizia è perfino apparsa nel telegiornale della sera.". E' fin troppo ovvio che l'esperienza di questi fatti viene fortemente colorata dall'esperienza passata di ciascuno. Ma l'articolo di Mark Ellen - che pure è perfettamente cosciente di ciò - offre anche una cornice di tipo diverso.

E' buffo notare come i giornali musicali Made in UK di un certo peso che hanno chiuso i battenti nel corso degli ultimi anni - Sounds, Melody Maker, Smash Hits - fossero tutti settimanali. Buffo notare che i giornali musicali Made in UK con bilanci largamente in attivo sono oggi dei mensili (e questo in un paese che, a differenza degli USA, era sempre parso essere irrimediabilmente allergico alla sola idea del mensile): Q, Mojo, Uncut, The Word. Il primo è il più vecchio (vent'anni?), il secondo una sua "evoluzione" (di pressappoco quindici anni di età), il terzo è in fondo la vera sorpresa e il quarto l'ultimo nato (tre anni e qualcosa). E' certo possibile tracciare un parallelo tra la comparsa della "musica da vedere" e il crearsi di condizioni favorevoli alla vita di un mensile "per adulti". E' possibile notare quanto la presenza di un "CD omaggio" si sia infine rivelata elemento meritevole dell'appellativo di "accessorio indispensabile" (Mojo aveva sempre snobbato l'idea di un "CD omaggio" quale avvenimento non occasionale, e The Word, allora diretto da Paul Du Noyer, era nato proprio presentando l'assenza del "CD omaggio" quale un tratto distintivo della testata). E' possibile anche ipotizzare il mensile quale "momento (relativamente) solido" in quel fluire sempre più accelerato di fatti che la Rete è oggi perfettamente in grado di mostrarci quale insieme di punti.


Dire che il rapporto tra stampa e musica "rock" (dovremo qui accontentarci di una approssimazione intuitiva) è molto cambiato nel corso degli ultimi quarant'anni è affermare una verità autoevidente. Se il rock è oggi definibile a pieno titolo come un tratto culturale che (co)definisce la cultura occidentale è solo logico che quotidiani e periodici non specializzati se ne occupino dedicandogli ampio spazio. In parallelo, è esperienza comune ritrovare su quotidiani e periodici le firme di molti nomi provenienti dalla stampa "specializzata", per ovvi motivi di elementare comprensione: maggiore sicurezza del posto di lavoro, livello dignitoso delle retribuzioni. Ma il quadro è oggi sottoposto a violente torsioni, alcune delle quali riceveranno un primo abbozzo di spiegazione più sotto.


(Breve interludio # 1. Muore il povero Billy Preston. Agenzie e quotidiani lanciano così la notizia: "L'unico tastierista ad aver suonato sia con i Beatles che con i Rolling Stones". In effetti, dati i tempi, forse non era lecito aspettarsi di più, anche se da parte nostra continuiamo a sognare il momento in cui un abbozzo di descrizione stilistica e strumentale sarà presente nel necrologio di un musicista, accanto e oltre alle notizie biografiche. Certo, la notazione "l'unico tastierista ad aver suonato sia con i Beatles che con i Rolling Stones" è fin troppo ghiotta, e toglie tutti dal grave imbarazzo di dover dire qualcosa. Ma è vera? Vediamo un po' se ricordiamo il nome di un altro illustre tastierista: Nicky Hopkins. Grande collaboratore degli Stones, giusto? E chi è che suona il piano elettrico su Revolution dei Beatles? Che non è un brano qualunque, sia chiaro, ma uno dei più famosi - e discussi! - tra quelli scritti da Lennon, oltre che la facciata B del megasuccesso mondiale Hey Jude.)



Diamo per scontata l'eterna disputa sul carattere "altro" della musica "rock", nelle numerose accezioni in cui ambedue i termini posti tra virgolette possono essere definiti. (Un tentativo interessante di definire un "musicista di culto" e il rapporto intercorrente tra questi e il "mainstream" è quello fatto da Greil Marcus nel celebre saggio su Randy Newman contenuto in Mystery Train.) Il problema è reso oggi più complesso (ma, se vogliamo, anche più semplice) dalla circostanza che il "rock" - da sempre potenzialmente "inclusivo", pur se a certe precise condizioni - è oggi "potenzialmente inclusivo" su scala planetaria. Dal che deriva che mentre il musicista celebre di ieri tendeva a fare innumerevoli interviste (e, se ne esisteva la possibilità, anche apparizioni televisive) il suo equivalente di oggi fa solo quelle che gli garantiscono il massimo impatto possibile - e basta. (Diamo qui per compresa la differenza tra "domani telefono a Keith" e le interviste odierne, con le domande presentate per iscritto per l'approvazione di manager, casa discografica e quant'altro e il testo finale che ripassa per le correzioni attraverso gli stessi filtri.) Salta qui la possibilità di "tipi" diversi di intervista (diversi sia per argomenti che per grado di complessità). E salta anche la possibilità di aggiornare il "modello Musician": in copertina Thom Yorke o John Frusciante e dentro il Ganelin Trio o R. Stevie Moore. (Una lettura interessante è l'intervista di Steven Ward con Matt Resnicoff intitolata A Musician's Musician - Interview With a Former Music Critic, consultabile su Rockcritics.com.)

Vera o presunta che fosse, la nozione di "alterità" è sempre stata un elemento costitutivo imprescindibile del "rock"; da cui le aspre polemiche sulla cessione di brani celebri per scopi pubblicitari, che ovviamente non avrebbero senso alcuno al di fuori di tale cornice. Del tutto originale la nozione di "alterità" come declinata dall'odierno hiphop (e dove esso finisca, e dove abbia inizio il "pop", è cosa ovviamente soggetta a valutazione). Facile citare quale precedente le impeccabili "uniformi di scena" di celebri gruppi vocali degli anni sessanta quali i Temptations e i Four Tops o i sontuosi abiti delle Supremes (qui Sly & The Family Stone, con quel che sartorialmente ne seguì, rappresentarono un mutamento che sarebbe ingiusto dimenticare). Un pensiero va rivolto anche alla pelliccia "extralong" del recentemente scomparso Wilson Pickett. Ma non è solo un mutamento di scala quello cui assistiamo: è tutto il commerciabile che entra ora in gioco quale elemento "costitutivo di identità", da vini e liquori alle scarpe e all'abbigliamento tutto, da gioielli e preziosi agli orologi, dalle moto alle auto (e c'è spazio anche per i vibratori: "per adesso sono sola, quindi mi fanno buona compagnia X e il praticissimo Y, che posso anche mettere in borsa").


(Breve interludio # 2. Ecco un piccolo quiz, ovviamente riservato a chi ha buona familiarità con l'album in questione: qual è il pezzo citato all'inizio dell'assolo di pianoforte di Greg Phillinganes - a partire da 1' 50" - sulla versione di Ruby Baby che appare su The Nightfly di Donald Fagen? Non si vince niente, ma è giusto per il puro piacere di.)



E' ora venuto il momento di affrontare un argomento alquanto volgare (difatti non se ne parla quasi mai) ma nondimeno imprescindible: i soldi. Facciamo due conti assumendo quale punto di partenza la paga oraria in nero di chi fa un lavoro manuale non specializzato quale pulire pavimenti e similia nella zona geografica in cui viviamo: sei euro, ovvero più o meno 7 dollari. Quantificando il tempo medio necessario a rendere conto di un CD in cinque ore (tre ascolti di un'ora più due ore per stendere la recensione) si arriva così alla cifra minima possibile: trenta euro, ovvero 35 dollari.

Quanto riceve, di solito, chi scrive una recensione per un giornale "assestato" (nozione che, com'è ovvio, può variare grandemente)? Qualche anno addietro il colosso USA Blender aprì con una retribuzione recensioni (che sono alquanto brevi, ma i recensori hanno spesso un nome) di cento dollari. Per converso, fonti che asseriscono di aver osservato i rendiconti entrate/uscite di Pitchfork, apparsi per errore sul sito di quello che a oggi viene considerato essere l'unico giornale "in Rete e non su carta" dalle entrate degne di nota, pongono il compenso delle recensioni - molto più lunghe, e decisamente più impegnative, della media - a venti dollari. (E' doveroso dire della dichiarazione della proprietà secondo la quale le tabelle in questione erano vecchie e superate.) E' però noto che la maggior parte delle recensioni viene solitamente scritta a titolo gratuito, con il possesso del CD quale unico compenso (da cui la recente battuta secondo la quale il giorno in cui i recensori cominceranno a ricevere file invece di oggetti rivendibili tutto il castello di carte cadrà). Le opzioni sono comunque soggette a un alto grado di variabilità - e non si dia per scontato che siano i gruppi editoriali di maggiore consistenza quelli che pagano meglio! Può anzi darsi una situazione in cui, a fronte di un inquadramento di lavoro stabile, le recensioni - musicali o cinematografiche - vengano considerate un "atto dovuto" da effettuare a titolo gratuito.

Tutto ciò può apparire alquanto bizzarro: se un tempo, data la scarsità di fonti, l'attenzione prestata a uno scritto era pressoché "automatica", oggi è la qualità l'elemento che dovrebbe guidare le nostre scelte. (Un buon esempio concreto è dato da Seeing and Nothingness, l'ottimo articolo di J. Hoberman su The Vision That Changed Cinema, la rassegna cinematografica dedicata a Michelangelo Antonioni, apparso sullo statunitense Village Voice in data June 6th, 2006.) La realtà è però del tutto diversa.


Esistono intere biblioteche sul rapporto intercorrente tra opera d'arte, critica e pubblico (in uno stadio a limitata alfabetizzazione) e tra industria culturale, opera d'arte, critica e pubblico (in uno stadio ad alfabetizzazione diffusa). L'impressione prevalente è che le dinamiche già in atto abbiano subito negli ultimi anni una decisa accelerazione. La cosa appare con tutta evidenza nel mondo del cinema, dove il numero di film che vengono distribuiti nelle sale senza essere mai sottoposti all'attenzione dei critici è in deciso aumento. (Diamo qui per scontata la consapevolezza del gran numero di articoli che in un modo o nell'altro fanno da cassa di risonanza a un film di grosso budget lungo tutto l'arco della sua lavorazione.) Ed è sempre più netta la tendenza che vede lavoratori dello stesso gruppo essere impiegati quali "jolly" in più testate, a volte con mansioni differenti. Però, se dal conglomerato non possiamo più aspettarci nient'altro che puro commercio, ci rimane pur sempre la piccola rivista indipendente, giusto?

Beh, dipende. Qui il discorso si fa complesso. In realtà, come già detto in precedenza, la pressoché totale scomparsa della "intervista intelligente con nome già molto noto" costringe sempre più la piccola rivista nella poco invidiabile posizione di un trendismo perenne, laddove solo quello che non è (ancora!) noto ai più può trovare spazio. Esiste ovviamente un'alternativa: praticare un buon giornalismo che sia anche ricco di spunti critici. Qui l'obiezione è la solita: il popolo è bue. In realtà l'ostacolo principale è quello delle paghe: chi può ragionevolmente pensare di poter mantenere un alto livello di qualità se il tempo a disposizione è solo quello "libero"? Esistono ovviamente altri ostacoli, in primis la rapacità di piccole etichette, piccoli inserzionisti e piccoli distributori, che se rapportati ai budget di una piccola rivista tanto piccoli non sono. (Piace qui ricordare quel vecchio blues che faceva "le linee telefoniche possono essere intasate/ma il diavolo trova sempre il segnale di libero".) Non di rado la piccola testata si vede costretta a ricorrere all'argomento morale che vede i grandi giornali immersi in grandi intrallazzi; e qui viene subito in mente il Charles M. Young che una ventina d'anni fa asserì "come se fosse più morale vendersi per poco" (se ben ricordiamo si parlava di una sponsorizzazione che vedeva coinvolto il gruppo statunitense dei Long Riders). Certo è che la fuga pubblicitaria dalla carta stampata di piccole dimensioni sembra promettere lo spettacolo di un'orribile agonia.


Un buon esempio di quanto le cose possano andare male anche in presenza di precondizioni decisamente favorevoli è dato dall'accoglienza riservata al recente album di Scott Walker, The Drift. Innanzitutto ci piacerebbe capire perché non sia apparsa alcuna retrospettiva critica su questo "grande recluso" nel corso degli undici anni trascorsi dalla pubblicazione del suo album precedente, Tilt, e perché la riscoperta coincida con la pubblicazione del nuovo album (se la domanda appare paradossale è solo perché abbiamo introiettato un modello di pensiero mercantile). La tendenza a risolvere la musica nel "personaggio" è nota da tempo, che i profili battessero a più non posso il tasto della "bizzarria" non può quindi stupire. Una veloce occhiata alle recensioni raccolte nel classico Metacritic conferma i peggiori sospetti: molti menzionano tra gli strumenti l'ormai celebre "fetta di maiale" usata in funzione percussiva, ma quali altri strumenti siano presenti sull'album (a parte un generico "archi") spesso non è dato sapere. Preoccupante vedere quanto gli scritti si somiglino l'un l'altro.

C'è una piccola intervista a Scott Walker fatta da Graham Reid e apparsa su Rock's Backpages il mese scorso dove sono presenti alcuni spunti non male, che avrebbero senz'altro meritato un ulteriore approfondimento. A proposito della realizzazione di "provini" Walker afferma: "No. Non ho mai realizzato un demo. Se ci pensi, non potresti fare un demo dei miei ultimi dischi. Da dove cominceresti?" Beh, qui c'era già mezza intervista. E l'altra mezza era contenuta in nuce in questa affermazione di Reid: "Nella 'popular culture' la dimensione prevalente è 'lo vogliamo e lo vogliamo adesso', mentre nella 'art music' la gente le dedicherà il suo tempo dato che essi danno per scontato che dovranno dedicarle del tempo".

Non abbiamo l'abitudine di passare le giornate a curiosare in Rete, quindi non sappiamo quanto realmente rappresentativa sia la tendenza che ultimamente ci pare di riscontrare: più di un artista ha aperto una pagina di dialogo su MySpace (e a nostra insaputa potrebbero benissimo esistere molti altri luoghi simili). La cosa appare a prima vista paradossale: è pressoché impossibile che nell'infinità della Rete ogni artista non trovi la nicchia "a stampa" che fa al caso suo. Bene il tentativo di "filo diretto", male il fatto che i fan presenti siano spesso i più sfegatati e acritici, una categoria che molto di rado è in grado di rivolgere critiche di una qualche utilità. Meglio comunque aprire una pagina su MySpace che comportarsi come certi musicisti italiani, sempre più simili ai lavavetri che ci rovinano la vita ai semafori.


© Beppe Colli 2006

CloudsandClocks.net | June 16, 2006