Parliamo di soldi
----------------
di Beppe Colli
Apr. 20, 2010



Non abbiamo alcuna difficoltà ad ammettere di non avere le idee troppo chiare riguardo al modo in cui il lettore considererà quanto segue, in primis la nostra affermazione che il fatto che più ci ha colpito negli ultimi tempi (restringiamo qui ovviamente l'obiettivo a quanto accade nel mondo dei media che si occupano di musica) è stato l'unanime, clamoroso consenso attribuito dai media "a stampa" al recente album di Joanna Newsom intitolato Have One On Me.

Chiariamo subito, e una volta per tutte, che il nostro discorso non verte qui su giudizi di valore, e che quindi il nostro stupore non riguarda la sproporzione tra l'attenzione prestata - un'attenzione che è possibile definire solo come enorme - e una supposta scadente qualità del manufatto. E' invece, la nostra, una perplessità derivante dalla curiosissima sproporzione esistente tra l'attenzione dei media e un peso commerciale che è obiettivamente quantificabile in poco più di zero. Insomma, quello che ci ha davvero stupito è il fatto che un'enorme quantità di pollici a stampa sia stata dedicata a quella che senza tema di smentite è lecito definire commercialmente come una "signora nessuno".

Il clamore mediatico ci ha ricordato quello (a rigor del vero di tono tutt'altro che unanime) che un tempo fu riservato all'uscita di Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band o del "White Album" dei Beatles (e per altri versi al Michael Jackson già Thriller o a Madonna già star acclamata). Agevole consultare la pagina di Metacritic dedicata alle recensioni di Have One On Me, laddove accanto alla sbrigativa tiepidezza di Rolling Stone l'unico parere davvero sfavorevole  è quello di PopMatters, peraltro presto bilanciato da una entusiastica recensione di un concerto apparsa poco dopo sullo stesso webzine.

E se si tratta di lodi i quotidiani non sono stati certo da meno: un critico di nome come Ann Powers ci ha messo la faccia sul Los Angeles Times, mentre il magazine del New York Times ha ospitato un lungo ritratto (e quando diciamo lungo non stiamo affatto esagerando: si dice qui di 27.000 battute, ovvero 15 cartelle, ovvero 4.600 parole) affidato alle penna di Jody Rosen ("the music critic for Slate") e intitolato Joanna Newsom, the Changeling (pubblicato in data March 7, 2010). Rosen non si è frenato, rischiando allegramente in proprio con affermazioni decisamente impegnative quali "Come musicista - in termini di pura abilità tecnica - la Newsom ha più cose in comune con gente come Eddie Van Halen e Wynton Marsalis che con stelle indie come Banhart e i Decemberists".

E' ovvio che qui si potrebbe facilmente argomentare che l'attenzione dedicata all'artista e all'album riflette solo la qualità che chi scrive - e chi commissiona il pezzo e ne decide la lunghezza - ha liberamente percepito. Che cosa ci sarebbe di tanto strano? Da parte nostra chiediamo solo se questo comportamento possa dirsi "tipico" dell'odierna cornice mediatica. O esso è forse atipico perché atipico è il talento di cui si discute? Lasciamo la risposta al lettore, pregando però chi fosse a corto di argomenti di non tirare in ballo per l'ennesima volta i Velvet Underground "ritenuti minori al tempo, e allora poco venduti, ma successivamente colossi d'influenza", dato che la concezione nota come "futurismo morale" è stata non da oggi dimostrata falsa al di là di ogni possibile dubbio (di natura non mercenaria).

L'accoglienza di cui si è detto ha comunque solo contribuito a rinnovare i nostri interrogativi su molti aspetti del moderno modo d'essere delle carriere e - supremamente importante per chi, come chi scrive, ha a cuore le possibilità di sopravvivenza concretamente disponibili per chi fa musica poco commerciale - sulla realtà quale essa è dietro le sapienti cortine fumogene delle Public Relation.

E' un argomento spinoso, forse oggi difficilmente trattabile su riviste il cui destino appare sempre più strettamente connesso a un'industria discografica che ogni giorno è costretta a chiedersi se vedrà il sole dell'indomani. Certo non si può dire che il gusto della ricerca empirica sia mai stato una qualità sovrabbondante nelle redazioni.

Da parte nostra, già alcuni anni prima dei fatti di cui ci stiamo occupando, abbiamo iniziato a porci delle domande riguardanti la per noi sorprendente solvibilità finanziaria della Newsom: stante il successo estremamente limitato di The Milk-Eyed Mender (2004), com'era possibile che un'artista che incideva per un'etichetta indipendente dai mezzi limitati come la Drag City potesse permettersi di realizzare un album quale Ys (2006), con arrangiamenti per grande orchestra (!) di Van Dyke Parks, arpa e voce della Newsom registrate da Steve Albini, orchestra registrata da Tim Boyle, missaggio di Jim O'Rourke, registrazione analogica su due registratori a 24 piste e missaggio su nastro e masterizzazione nei famosissimi Abbey Road Studios in quel di Londra?

C'è già chi ha definito la deludente performance commerciale di Have One On Me la prova indubitabile e definitiva dell'incapacità odierna delle riviste "a stampa" di orientare i gusti del pubblico (e i suoi acquisti). Ma questi erano gli ultimi pensieri che avevamo in mente quando, alcune settimane fa, ci siamo chiesti: ma quanto starà vendendo il nuovo della Newsom?


In maniera del tutto fortuita ci è stato possibile prendere visione dei dati di Soundscan relativi alla prima settimana di vendite di Have One On Me, in quel momento piuttosto recenti. Come ben sappiamo, già a partire dalla sua introduzione avvenuta poco meno di vent'anni orsono il metodo di rilevazione delle vendite di musica denominato Soundscan ha dimostrato: a) che le vendite di interi generi musicali quali il rap, il metal e il country risultavano sistematicamente sottostimate dai metodi di rilevazione precedenti; b) che la rappresentazione abituale di un album che scala le classifiche un po' alla volta per poi eventualmente raggiungere la vetta non era niente di più che un mito, la realtà essendo che un album debutta al punto più alto per poi discendere, a meno che singoli o altri brani non vengano recepiti per i motivi più vari da un pubblico situato al di là del "core audience".

Le vendite statunitensi dei due album precedenti della Newsom vengono oggi quantificate in 70.000 copie cadauno lungo un arco temporale di, rispettivamente, sei e quattro anni.

Il totale della prima settimana di vendite di Have One On Me veniva detto ammontare a 7.978 copie, così suddivise: 842 copie in vinile, 2.653 in CD e 4.483 in formato digitale.

Da un punto di vista personale, abbiamo trovato piuttosto alte le vendite di file digitali, soprattutto se consideriamo che nei formati fisici l'album aveva un libretto con testi e foto che si presupponevano di sicuro appeal per i fan e che i prezzi erano molto bassi (se ben ricordiamo, Amazon UK vendeva il box con tre CD a circa £12, e il cofanetto con tre LP a circa £20).

Nella classifica Billboard 200 l'album ha debuttato al #75, per poi scendere nelle settimane successive al #104 e al #140 (quindi la teoria delle vendite riguardanti la prima settimana regge ancora). A oggi Have One On Me risulta essere rimasto nei primi 200 per un totale di (sole) quattro settimane.

I dati di Music Week Report per le vendite nel Regno Unito ci danno un totale di 34.551 copie per il primo album (in sei anni), 45.762 per il secondo (in quattro anni) e una prima settimana per il terzo di 8.481 copie totali.

Dati che diremmo deludenti, soprattutto negli Stati Uniti, come già fatalmente ammesso dal Los Angeles Times già dopo la prima settimana di vendite.


Con pochissime eccezioni, le vendite di album dei nostri eroi (cioè a dire, i musicisti preferiti da chi scrive) ammontano ad ancor meno. Il che non toglie che anche per la Newsom quelle cifre siano decisamente basse. Ovviamente esistono modi "collaterali" di guadagno, ad esempio riuscire a piazzare le proprie musiche in film, pubblicità e documentari. Abbiamo avuto l'idea di consultare il capitolo intitolato Licensing of songs relativo alla voce dedicata alla Newsom che appare nella versione in lingua inglese di Wikipedia: è una lista lunga e decisamente istruttiva, che chi vuole potrà facilmente esaminare. E qui, forse per associazione di idee con la notizia che nel 2009 il brano della Newsom Sprout And The Bean era stato usato nella pubblicità di un reggiseno della celebre casa di intimo Victoria's Secret abbiamo provato a fare una ricerca su Google Images, trovando la Newsom in veste di indossatrice per la collezione Spring 2010 di Giorgio Armani.

Sarà però evidente a chiunque che questi lavori non si trovano certo presentandosi a degli sconosciuti con l'arpa sotto il braccio. Ci siamo quindi interrogati sull'identità di chi si occupa delle PR della Newsom. Nuova ricerca in Rete, ed ecco qua: la Pitch Perfect di Jessica Linker, una grande azienda il cui elenco clienti costituisce senz'altro un'interessante lettura. Alla voce Company Information sul sito dell'azienda leggiamo che "Pitch Perfect PR is a public relations company (...). Founded by Jessica Linker, who has over eight years of public relations experience for Thrill Jockey Records and affiliate marketing/partner relations for RollingStone.com".

(In Rete troviamo anche la notizia che "Jessica Linker is head publicist for Pitchfork, and runs PR for the Pitchfork Festival", ma non sapremmo decidere quale importanza attribuire alla cosa, al di là di un profumo tutt'altro che lieve di "conflitto d'interessi".)


Di recente, per circostanze del tutto fortuite, ci siamo trovati a prendere un cappuccino in un bar mai visto di una piccola città dove non eravamo mai stati. Sullo schermo televisivo è apparsa una cantante che tutti - la giovane cameriera, il cassiere di mezza età, i numerosi clienti di età e tipologie più varie - sembravano conoscere benissimo: Lady GaGa.

L'episodio ci sembra una perfetta illustrazione del fatto che ancora oggi, anche se con regole e modalità d'accesso ovviamente diverse che in passato, esiste un ben definito "centro". Il proliferare di luoghi e occasioni, le modalità accelerate di fruizione, il livello di attenzione dei fruitori, il contrarsi del tempo e dello spazio, sono fattori che hanno indotto molti osservatori a scambiare la polverizzazione delle esperienze dei singoli con l'abolizione di un centro. Va da sé che è estremamente verosimile che in un futuro che forse è già qui il cantante preferito dal sottogruppo x rimanga per sempre del tutto ignoto al sottogruppo y, per i motivi ben noti. Ed è possibile che la musica trasmessa negli anni ottanta dall'allora nascente MTV sia destinata a rimanere l'ultima della quale rimarrà una memoria condivisa di massa. Ma questo non esclude la possibilità di condivisione di massa di alcuni "oggetti", per esempio Lady GaGa.

La visione della Rete quale serbatoio di talenti dal quale le Major potranno attingere (con la Rete a prendere il posto che una volta era occupato dalle etichette indipendenti) ci pare del tutto erronea. Mentre la tendenza che vede i soggetti fruire singolarmente di stimoli condivisi da "tutti" ci pare destinata a durare (preghiamo il lettore di notare che usiamo il termine "tendenza" nel suo uso stretto proprio delle scienze sociali, non in quello giornalistico di servizi quali "Nuove tendenze: schiarirsi l'ano").

Mentre amplia a dismisura le possibilità di essere visti, questo scenario non distribuisce le opportunità in maniera uguale, né "a capriccio". E se chi canta può sfilare, e chi sfila può cantare, e tutt'e due possono scrivere libri, restano ancora oltremodo necessarie quelle ingenti risorse finanziarie che oggi come sempre consentono di partecipare a una gara dove nessuna dote veramente di spicco è richiesta. Il lettore potrà qui stendere una propria lista di persone che è agevole ritrovare su una moltitudine di mezzi a stampa, in TV e in Rete, e per i motivi più vari: album e concerti, film, l'ideazione di linee di moda, affari di cuore, gossip, l'essere testimonial di questo o quell'oggetto di consumo (la nostra lista è potenzialmente infinita, da Peaches, Chan Marshal e Beth Ditto a Scarlett Johansson e Carla Bruni).


Com'è noto ormai da tempo, il destino dei giornali "a stampa" - che qui diamo per scontato comprendere quel particolarissimo sottoinsieme dato dalle loro manifestazioni in Rete - è appeso a un filo. E la cosa sembra ancora più drammatica per quei giornali che si occupano prevalentemente o esclusivamente di musica, per i motivi ben noti che non è qui il caso di ripetere per esteso. Non vanno comunque dimenticate le seguenti circostanze: a) che ormai da decenni la musica non è più appannaggio esclusivo dei giornali "specializzati", quotidiani e periodici avendone fatto un punto importante delle loro pagine dedicate a "intrattenimento & cultura"; b) che la musica "scritta" ha ormai da tempo un temibile rivale nella musica "sentita" sotto forma di quei file che in un modo o nell'altro è decisamente agevole trovare in Rete; c) che buona parte degli artisti popolari di oggi esercita un fascino "trasversale" per la quantità di piattaforme sulle quali è fruibile.

Un paio di settimane fa ci è capitato di dare un'occhiata a PopMatters, rimanendo colpiti dalla seguente scritta: Call for Music Critics and Music Bloggers - PopMatters has openings for music critics and music bloggers - PopMatters is looking for talented music critics and bloggers.

Il particolare recitava: We're looking for talented writers with deep genre knowledge of music and its present and past alongside a cultural generalist perspective with strong interests in many areas of culture.

Un compito qualitativamente impegnativo, come si vede. E anche la quantità di lavoro alla quale si veniva chiamati, se non propriamente onerosa, consigliava una certa prudenza nell'accettare l'incarico. Ci siamo subito chiesti quale potesse essere la remunerazione prevista per un simile compito, e qui abbiamo fatto lavorare la fantasia. In termini di pubblico e popolarità, a occhio, diremmo PopMatters non proprio al livello di successo di Pitchfork (ma impostazione e referenti non coincidono che in minima parte) ma non molto al di sotto. Abbiamo quindi scrutato per vedere se l'annuncio prevedesse informazioni monetarie, trovando questo: "Note: we are unable to pay you monetarily at this time". E poi si faceva riferimento al milione di lettori per mese che avrebbero avuto la possibilità di apprezzare quel lavoro.


Ovviamente non siamo in grado di sapere se le informazioni certe alle quali siamo in grado di accedere possano essere considerate tipiche, ma una cosa è sicura: da tempo immemore il patto tacito tra recensori e testate prevedeva la gratuità del lavoro di recensione, con un compenso aleatorio e virtuale costituito dalla possibilità di rivendere in giro le copie omaggio. Negli ultimi tempi il patto è però definitivamente saltato, e in ragione di molti intoppi. Ricordiamo qui il crollo delle vendite dei CD e il parallelo invio della musica da recensire sotto forma di file a "fedeltà variabile". Se pur sembra una novità sconvolgente, il file digitale da scaricare (con la linea di chi? questa è una domanda interessante!) al posto del CD non è che la veste moderna assunta dal vecchio "nastrino anteprima" dei tempi del disco in vinile. Il piccolo particolare è che un tempo il nastrino era incorniciato in un rapporto di lavoro dove la recensione era (variamente) retribuita. Certo, anche l'essere visti e apprezzati può essere considerato una qualche forma di "retribuzione". Ma quale l'entità in grado di assumere e pagare quando anche una testata da un milione di lettori non paga?

Le conseguenze sono già visibili: ci sono testate che hanno drasticamente diminuito il numero di recensioni ospitate e altre che le hanno rese di una brevità tale da rendere impossibile una trattazione qualsiasi. Mentre la quantità di strafalcioni e di giudizi buttati lì tanto per arrivare alla fine dicono di età molto verdi o di carichi di lavoro impossibili. Ma davvero impossibile è trovare una logica in tutto questo.

Logica conseguenza, una crescente influenza da parte degli uffici stampa, siano essi emanazione delle case discografiche come siamo abituati a conoscerle o delle aziende di PR che si occupano dei destini degli artisti che rappresentano a 360°. Ne consegue un ulteriore depotenziamento del potere contrattuale di giornali e riviste, soprattutto se prive di quelle possibilità di accesso audio e video che sole rendono "totale" l'esperienza della fruizione per un pubblico tecnologicamente "moderno".


Chi ha modo di frequentare i negozi che (ancora) vendono musica registrata su un supporto fisico, fisici o virtuali che siano, avrà senz'altro notato come negli ultimi tempi il numero delle ristampe in vinile di album storici o leggendari sia aumentato in misura esponenziale. Mentre non accenna a diminuire la quantità di titoli nuovi che appaiono anche in formato LP.

Una cosa che non avremmo mai immaginato è il fatto che più di qualche piccola etichetta, audiofila o meno, specializzata nel ristampare titoli storici abbia chiuso i battenti o si appresti a farlo: accade infatti che, avendo notato che la faccenda cominciava a diventare interessante dal punto di vista monetario, le Major hanno iniziato a centellinare le licenze di stampa di molti album dei quali possedevano i diritti per poi passare direttamente all'azione, con la conseguenza che alle piccole etichette restano sovente solo quei nomi tanto settoriali da costituire più un rischio che una risorsa.

La cosa interessante (che quasi nessuno nota) è la quantità di investimenti che hanno come destinazione nuovi impianti di stampaggio degli LP: zero. Con la conseguenza che, allorquando (è un esempio fittizio) i migliori impianti statunitensi vengono occupati in toto per mesi dalle ristampe in vinile dei Beatles e le ristampe di Jimi Hendrix vengono effettuate nel migliore impianto tedesco, agli altri rimangono... i gloriosi resti dell'Est europeo.

Ma la cosa che diremmo più curiosa è il comportamento del pubblico, invero in perfetto accordo con le moderne teorie del consumo. Chi trovava scandaloso pagare un CD venti euro oggi ne sborsa tranquillamente altrettanti e anche più per qualcosa che dal punto di vista della qualità prevedibile della copia è senz'altro più erratico e la cui provenienza digitale è un'assoluta certezza. Da quali master provengano queste edizioni in vinile non è dato sapere, com'è pure ignoto il tipo di trattamento subito nello stadio dell'equalizzazione allo scopo di non farle suonare "mosce". Evidente quindi che l'acquisto degli LP si configura sempre più come un "consumo ostentato" parallelo a quello di chi, decenni orsono, colmava le librerie di volumi dalla costa dorata che non avrebbe mai letto.

A riprova della sostanziale sterilità di questo tipo di consumo basta notare un fenomeno altrimenti inspiegabile: l'assoluta indifferenza nei riguardi delle edizioni originali, il cui prezzo (tolti i casi non troppo comuni di album di notevole interesse collezionistico) si mantiene ormai da tempo (e proprio grazie alla diffusione del celebre "180 grammi") a livelli così bassi da non richiedere più dei veri e propri sacrifici. Resta misterioso a questi acquirenti il perché il suono pesantemente riverberato di un album del '67 sia "impossibile" e il perché sia assurdo che chitarre acustiche di dimensioni e caratteristiche tecniche molto diverse suonino in modo praticamente identico.

Anche qui ha funzionato uno dei cavalli di battaglia dell'industria del consumo: a fronte di un presente digitale miniaturizzato e privo di supporto, il recupero dell'oggetto fisico "ingombrante" porta con sé l'immagine di un tempo in cui l'apprezzamento della musica era affare per pochi e seri intenditori - "proprio come te, che oggi compri album in vinile".

In un modo che sarebbe divertente se non fosse amaro, ci pare di rivivere il passaggio dall'LP al CD, di cui trattammo in un articolo di vent'anni fa.


Va da sé - per tutti i motivi di cui si è già detto, e per tanti altri ancora che il lettore non avrà difficoltà a individuare autonomamente - che per chi suona musica "difficile" questi sono tempi duri sotto molti aspetti. Vendite basse, pubblico per più versi residuale, la scomparsa del concetto di "carriera" per come eravamo abituati a conoscerlo, la lotta per accaparrarsi i concerti sovvenzionati (tra l'altro in numero decrescente), il ricorso alla "colletta" (!) per finanziare l'incisione di un nuovo album, a volte un tirare a campare che sempre più spesso sa di inerzia. A fronte di ciò, le aspettative del vecchio pubblico che a confronto con la realtà non sempre risultano basse a sufficienza.

Alcuni dei nostri eroi erano a Modena, il primo marzo di quest'anno, per la Prima Mondiale di Comicoperando - A Tribute to the Music of Robert Wyatt. Qualche nome (l'elenco completo dei presenti è in Rete): Dagmar Krause, Richard Sinclair, Annie Whitehead, John Edwards, Chris Cutler. Ci siamo andati? No. Abitiamo lontano da Modena. Ci saremmo andati se la distanza geografica fosse stata inferiore? Neppure. La cosa non ci convinceva. E ci aspettavamo un disastro.

Il musicista sicuramente più noto del tributo è senz'altro l'omaggiato. Lo vediamo su Mojo, lo sappiamo su Wire, i suoi album si trovano con facilità, il suo nome circola. Non è, insomma, il nome dimenticato la cui musica necessita di essere riscoperta. Ci si potrebbe far notare che la musica di Wyatt non è conosciuta e apprezzata nella misura che meriterebbe. D'accordo. Ma in questo caso l'omaggiante dovrebbe essere mille volte più conosciuto dell'omaggiato - diciamo un David Bowie o un David Gilmour - e non certo meno, al prezzo di ingenerare la sgradevole impressione che il suddetto omaggio costituisca per alcuni solo un'occasione come un'altra per cercare di sbarcare il lunario.

Nello specifico, la problematica compatibilità di alcuni dei musicisti, la prevedibile difficoltà del repertorio, la scarsa disponibilità di tempo per arrangiare e provare i brani, e un'amplificazione che in casi come questo è sempre un'incognita ci avrebbero indotto in ogni caso a restare a casa. Dato che non c'eravamo non siamo in grado di riferire i particolari della cosa, ma abbiamo ragione di credere che per molti (che magari avevano fatto più di qualche centinaio di chilometri) la delusione sia stata cocente. "Con soli due giorni di prove non avremmo davvero potuto fare di meglio". "Ma io non ho fatto quattrocento chilometri per vedere delle prove aperte".

E' solo una questione di soldi.


© Beppe Colli 2010

CloudsandClocks.net | Apr. 20, 2010