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Pensieri dalla spiaggia

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di Beppe Colli
Aug. 1, 2010



In vacanza da qualche giorno, ce ne stavamo tranquilli ad arrostirci al sole (il mare davanti a noi, una collina alberata alle nostre spalle, qualche raro gabbiano a passare veloce sopra le nostre teste - il perfetto balsamo per dei nervi fritti) quando il suono di uno dei nostri cellulari ha rotto il silenzio. Grande allarme nel vedere che a squillare era quello rosso, la "linea calda" intercontinentale che da sempre è sinonimo di drammatiche notizie dalle ripercussioni imprevedibili. E proprio questo era il caso: "La Microsoft non ha rinnovato il contratto a Christgau, la Consumer Guide sparisce da MSN Music e Christgau non sembra intenzionato a trasferirla altrove. E' la fine di un'era." Un istante dopo eravamo in Rete.

I primi due giorni di luglio ci hanno offerto una panoramica completa, pur se alquanto smilza rispetto alle nostre (ragionevoli) aspettative. Un comunicato ufficiale di Christgau. Una mini intervista a Christgau fatta da Ann Powers e ospitata sul suo blog sul Los Angeles Times. Un intervento di Jason Gross su PopMatters. Uno stringato articolo di Christgau pubblicato sul blog del National Arts Journalism Program (titolo: "End of an Era"?). E poi qualche piccola cosa su vari quotidiani statunitensi, con la maggior parte dei pezzi a citare per esteso il comunicato ufficiale. La forza dell'abitudine ci ha spinto a digitare l'indirizzo di RockCritics, ma (come prevedibile) non c'era niente: ormai da tempo, purtroppo, il sito non è più quel perenne crocevia di notizie e commenti frutto degli sforzi di Scott Woods e di Steven Ward. Qualche giorno dopo mandiamo un messaggio e-mail a un collega inglese (un "collega di lui", non un "collega di noi", se è chiara la differenza) nella speranza di avere qualche particolare in più sulla vicenda, ma (incredibile a dirsi) la notizia lo coglie del tutto di sorpresa, cosa che ci è suonata davvero strana, e forse un cupo segno dei tempi.

Christgau non resta certo disoccupato, tra l'insegnamento alla NYU, la collaborazione a All Things Considered, la pagina scritta regolarmente per Barnes & Noble Review e tutto quanto sarà capace di inventarsi, come già successo altre volte in passato. Nondimeno, l'attenzione per il fatto ci è parsa oltremodo sommessa, data la rilevanza pubblica del personaggio (nonché la sua statura: ricordiamo il volume-omaggio Don't Stop 'til You Get Enough - Essays in Honor of Robert Christgau, apparso nel 2002 in occasione del sessantesimo compleanno del critico statunitense). Forse la simbolica "fine di un'era" era stata la separazione forzata dal Village Voice, quattro anni fa, in occasione della cessione della storica testata. E forse quella era stata percepita come la "vera fine" della Consumer Guide, la rubrica a cadenza mensile nata proprio sul Village Voice nel lontano 1969 che aveva vissuto una seconda giovinezza sul sito MSN Music. Ma forse quella del critico è oggi una figura tanto insignificante - o per meglio dire, nell'odierna cornice di consumo mediatico (una vera e propria Babele senza capo né coda) il lavoro del critico ha un'importanza tanto ridotta - che anche il destino del lavoro di un Christgau non appare più come una notizia degna di attenzione.


Il rapporto tra chi scrive e Christgau (da noi letto per la prima volta alla fine degli anni settanta sul mensile statunitense Creem, che allora ristampava la Consumer Guide del Village Voice) è per più versi paradossale. Se per quanto riguarda gli anni sessanta alcuni dei "nomi preferiti" - Kinks, Stones, Hendrix e Creedence - coincidono, l'opposto avviene per quanto concerne Doors, Zappa e Airplane. Va ancora peggio con i settanta, con gente come Van Der Graaf Generator, Hammill, Can e Zappa a non impressionare più di tanto Christgau, che invece fa il tifo per New York Dolls e Ramones. Potremmo definire Christgau un "critico rock" nell'accezione statunitense del termine (per intenderci: Yo La Tengo e Sonic Youth), ma sarebbe un'assurda semplificazione, data la sua nota (e atipica: per età e colore) attenzione per hip hop, techno, Afro-pop e quant'altro: da Dr. Dre a Kanye West, da Pink a M.I.A., da Pavement e Sleater-Kinney ai Vampire Weekend. Molto semplicemente, Christgau è una persona seria (e onesta: il che dovrebbe essere un'ovvietà, ma come ben sappiamo...), con un gran rispetto per il lettore, la musica, i musicisti e il concetto di lavoro retribuito, e per questo il suo lavoro merita di essere letto ben al di là delle differenze di opinione.

Ci sono molti presupposti (che in un'accezione statunitense diremmo senz'altro) "politici" nel lavoro di Christgau, a partire dalla scelta (negli anni sessanta!) di un nome quale Consumer Guide fino alla concezione del lavoro "intellettuale" - musica, critica e insegnamento inclusi - come fatto sociale. E sempre fa capolino, anche in via implicita, una dimensione "working class" che mai permette che vengano dimenticati fattori sociali quali classe ed etnia.

Chi, non avendo mai letto in precedenza le sue "capsule reviews", si aspetti la classica cosettina tirata via che solitamente precede il voto avrà una sorpresa: densa la prosa, molteplici i rimandi, originale la trattazione (qui non si copiano i  comunicati stampa!). Molta parte del lavoro di Christgau è consultabile sul suo sito (eminentemente "searchable"), saggi e libri inclusi, quindi per una volta non sarà il materiale a mancare (crediamo che le sole recensioni siano nell'ordine delle decine di migliaia). Per chi volesse approfondire la conoscenza c'è poi anche una certa quantità di interviste, decisamente facili da trovare in Rete.

Tranquilli al sole, la nostra attenzione è attirata da uno stranissimo suono. Aperti gli occhi, ci accorgiamo trattarsi di una piccola radio a transistor che una grassa signora di mezza età sdraiata nelle vicinanze tiene in precario equilibrio sullo stomaco. Piccole cuffie, e il nirvana è assicurato.

Una scena che ci riporta agli anni sessanta e settanta, quando il binomio mare-radio (e, durante l'inverno, quello studio-radio) era un'accoppiata inscindibile.

Abbiamo spesso l'impressione che chi è venuto dopo - per tacere di chi si è poi formato nell'era "scaricafacile" della musica intesa come oggetto "immateriale" di pronto e ubiquo consumo - abbia una certa difficoltà a cogliere i dati salienti dell'ascolto radiofonico di quel tempo (un retroterra che, senza per questo volerne fare un modello generativo, ci pare di cogliere nel multistilismo che caratterizza non pochi dei critici rock "storici"). La cosa è ovviamente comprensibile: se la memoria storica tende al ricordo di quanto fu clamoroso, dirompente e atipico - è il caso delle "pirate radio" inglesi (ben rappresentate da un film quale The Boat That Rocked, intitolato Pirate Radio negli Stati Uniti e in Canada e I Love Radio Rock in Italia) o delle leggendarie stazioni in FM statunitensi di città come New York, Boston o Berkeley - la cornice moderna che vede il consumatore quale signore assoluto di un numero potenzialmente infinito di "libere scelte" non può che far percepire l'ascolto "passivo" di quanto imperscrutabilmente deciso da un'unica fonte come quanto di più simile a una "dittatura culturale". A ben vedere questa è però una definizione che meglio si attaglia a quel concetto moderno di "narrowcasting" (solo hip-hop, solo metal, solo pop, solo r&b, solo country, solo oldies) che mira all'inquadramento millimetrico del bersaglio.

Quello che ci piacerebbe ricordare di quell'epoca è il rapporto esistente tra "innovazione" e "norma" come vissuto da un normale ascoltatore. Una pratica possibile laddove tante cose diverse vengono presentate una di fianco all'altra, rendendo così agevole (a chi lo volesse) percepire (sottili o dirompenti) differenze in aspetti quali suono, timbri vocali o strumentali, testi, melodie, accordi, costruzione dei brani e via dicendo. E' un aspetto dell'ascolto che ha (potenzialmente) in sé molto di "didattico" senza però esserselo mai posto coscientemente quale scopo (se non nel senso implicito in una gerarchia dei prodotti culturali).

Chi oggi vede solo l'aspetto "totalitario" (ascoltare tutti obbligatoriamente la stessa cosa) non riesce a percepire né l'aspetto di "esperienza condivisa" (che rende un oggetto "letto" e "variamente interpretato" simultaneamente da ampie fasce di popolazione) né quello di "novità" (pensiamo a brani quali Satisfaction, Like A Rolling Stone e Strawberry Fields Forever nella cornice sonora del loro tempo).


Se parliamo di "critica rock" diremmo che nessuna prosa è in grado di incarnare il "senso di stupore" (il lettore deciderà autonomamente se aggiungere l'aggettivo "psichedelico") derivante dall'ascolto di qualcosa di innovativo in modo più convincente di quella di Paul Williams del periodo "storico" di Crawdaddy!. Prima "rivista di musica rock" in assoluto, Crawdaddy! camminò in parallelo alla nascente scena "rock" per tutto il periodo in cui Williams ne fu direttore e penna principale (1966-1968) fungendo altresì da palestra per tutta una serie di nomi poi approdati alla celebrità nell'ancora da venire Rolling Stone.

Se alcuni scritti di Williams sono da tempo accessibili in Rete - da parte nostra ricordiamo le belle recensioni di The Kinks Are The Village Green Preservation Society (insieme a Mendelssohn e Christgau Williams fu uno sfegatato fan del gruppo inglese) e dell'omonimo album di esordio dei Procol Harum - crediamo difficile non consigliare quale "lettura estiva" quella raccolta del "meglio" scritto da Williams per il Crawdaddy! del periodo d'oro racchiuso in Outlaw Blues, originariamente pubblicato nel 1969 e ancora oggi disponibile a un prezzo molto basso in versione paperback.

Quello di Williams è un processo di pensiero molto lento e articolato espresso con un linguaggio e un periodare preciso e meticoloso e - con apparente paradosso - dagli esiti molto spesso sorprendenti. (Il parallelo più calzante è a nostro avviso quello con il rapporto tra prosa e idee esistente nel lavoro di Philip Dick.) Come messo in evidenza nell'introduzione originale scritta da Michael Lydon, l'attenzione di Williams per la musica include (del tutto logicamente) "(...) lo spazio che separa le canzoni sull'album The Byrds Greatest Hits" (...) "quel tempo tra le canzoni, quel momento pieno di riflessione e di rimpianto per la canzone che è appena terminata e di viva attesa per la canzone che sta per arrivare".

Il volume comprende capitoli su Rolling Stones e Jefferson Airplane. Donovan, Buffalo Springfield e Byrds. Trenta pagine su Dylan. Sessanta su Brian Wilson e Smile. Cronologie musicali dell'epoca. Istantanee su San Francisco. Una lunga (ed eccellente) intervista con Paul Rothchild sulla realizzazione dell'album di esordio dei Doors e una percettiva recensione del suddetto album, con grande spazio dedicato a senso e funzione narrativa del verso di Soul Kitchen che recita "Learn to Forget".

(Un pensiero va a quanti dopo aver letto il pezzo di Williams andranno in negozio o in Rete per procurarsi l'album d'esordio dei Doors... in una versione rimissata e stravolta che lascerebbe di stucco sia Williams che Rothchild!, e che è l'unica attualmente in commercio in formato digitale.)


Un altro libro che troviamo perfetto quale "lettura estiva" è il grosso tomo intitolato Back To A Shadow In The Night, di Jonathan Cott (sottotitolo: Music Writings And Interviews 1968 - 2001, anche se a dire il vero la maggior parte degli scritti proviene dagli anni settanta e ottanta).

La prima cosa che si nota scorrendo l'indice del volume di Cott (un critico, sia detto tra parentesi, un tempo molto noto e apprezzato, pur se oggi poco menzionato, diremmo soprattutto in ragione di una grave malattia che ne ha reso sempre più sporadica la produzione) è la sua enorme versatilità: scritti su Stravinsky, Partch, Ives, Varèse, Gould, Weill... e Yoko Ono, Buddy Holly, John Lennon e Patti Smith. Quello  che più ci piace sono però le sue approfondite interviste, e anche qui la varietà non è minore: George Balanchine, Pierre Boulez, Steve Reich, John Adams, Leonard Berstein (un'intervista che ricordiamo di aver letto al tempo della sua prima uscita sulla rivista statunitense Rolling Stone), Michael Tilson Thomas... e John Lennon, Ray Davis, Bob Dylan, Mick Jagger, Van Morrison.

Sia qui concessa una breve parentesi per il lettore italiano. Chi ricorda la copertina di questo piccolo libro uscito in Italia nel 1974 (L. 1.000) conosce già una (piccola) parte del lavoro di Jonathan Cott.


Il volume rendeva disponibile, in traduzione, una serie di interviste precedentemente apparse su Rolling Stone. Ed era gente del calibro di Frank Zappa, Mick Jagger, John Lennon, Grace Slick e Paul Kantner, James Taylor e Carly Simon, Elton John. Chiediamo al lettore più giovane un grosso sforzo di riposizionamento: non ancora esistente Internet, perfino la reperibilità in edicola di riviste in lingua estera era qualcosa di poco comune. Per non parlare del grado di conoscenza di quella lingua che si sarebbe dovuta padroneggiare! Da cui, il prosperare dell'industria del tradotto.

Va da sé che le interviste del volume erano tradotte in maniera a volte fantasiosa, con tagli "a piacere". Quella di Cott a Mick Jagger, decisamente pregevole, l'avremmo poi recuperata in un volume miscellaneo dei primi anni settanta curato da David Dalton. Quella a Lennon l'abbiamo poi letta per la prima volta in lingua originale solo nel volume di Cott di cui si dice adesso.

Belle le due interviste a John Lennon (sono la prima e l'ultima da lui date a Rolling Stone), come pure le due conversazioni con Bob Dylan (del '77 e del '78). Mick Jagger si disimpegna bene al suo solito al tempo di Some Girls ('78), fluisce il Van Morrison del '78. Quella a Ray Davis (realizzata nel 1969, ai tempi di Arthur, e pubblicata su Rolling Stone l'anno seguente) è senz'altro l'intervista più bella e toccante da noi letta tra le molte che lo hanno visto protagonista. Ritroviamo l'approccio "a tutto campo" utilizzato con Ray Davis nella lunga conversazione con Leonard Berstein e in quella, più breve ma non meno densa concettualmente, con Michael Tilson Thomas.

E proprio da quest'ultima (effettuata nel 1999) offriamo al lettore un breve estratto: "Una delle cose che oggi stiamo facendo è tramutarci in un tipo di società impaziente ed egoista; credo di poter dire che stiamo fabbricando dei "cambiacanali" senz'anima, dato che ci sono così tante possibilità che per il minimo impulso capriccioso qualcuno salterà su un altro canale. (...) E poi la durata dell'attenzione massima che si riesce a prestare diventa sempre più breve, e la gente perde il senso qualitativo di quello che dovrebbe attendersi dall'arte."

E questa è oggi la situazione.


© Beppe Colli 2010

CloudsandClocks.net | Aug. 1, 2010