Cinque anni
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di Beppe Colli
Nov. 26, 2007



Per quanto incredibile possa sembrare, Clouds and Clocks compie oggi cinque anni. (Come vola il tempo quando ci si diverte, eh?) E questa può essere una buona occasione per cercare di fare il punto sulle dinamiche "macro" delle cose di cui da cinque anni qui ci occupiamo. Per tentare di individuare alcune delle tendenze in atto, esprimere il nostro personale giudizio di valore in proposito e vedere come le ricadute di quanto già da tempo è realtà siano perfettamente in grado di ripercuotersi su cose che a occhio nudo potrebbero invece apparire lontanissime da certi scenari.

Con spirito che per certi versi potrebbe sembrare quasi autolesionista, ci concederemo alcune osservazioni - la dura realtà può talvolta apparire sotto una luce divertente, pur se in modo amaro - sul come Clouds and Clocks abbia in questi anni precariamente navigato tra le confliggenti aspettative di lettori, musicisti, discografici e organizzatori di concerti di più continenti (qui il bilinguismo è d'aiuto!).

Va da sé: astenersi impressionabili, e i bambini a letto.


Dato che per vivere abbiamo bisogno di certezze - e ciò è massimamente vero in quella che si presenta come "l'età dell'incertezza" (almeno di questo siamo certi, pare) - siamo tutti giunti alla conclusione che "Un giorno la stampa andrà in Rete". (Qui qualcuno potrebbe farci notare che la stampa in Rete c'è già, ma andiamo con ordine.) Innanzitutto per motivi di costi crescenti di carta, stampa e trasporti; poi per l'impossibilità di dare le notizie più di una volta al giorno; poi in ragione della (vera o presunta) crescente abitudine da parte del lettore a immagini di tipo "televisivo"; e poi, per finire, in ragione del calo del numero dei lettori, e con essi della pubblicità. Diremmo ben noti a tutti i diversi modi in cui quotidiani e periodici hanno cercato di darsi una presenza in Rete tentando al contempo di non affossare le proprie vendite in edicola; come sia finora sostanzialmente fallito il tentativo di offrire un "premium content" a pagamento accanto a un contenuto liberamente accessibile; come l'incremento nell'offerta di banda larga a prezzi accessibili (sia per i giornali che per i lettori) abbia reso possibile il parziale tramutarsi dei giornali in "mini-tivù" online; come, in parallelo, la "vendita dei bulbi oculari" ai pubblicitari passi ora attraverso la durata dei contatti, e non più per il loro numero.

Va da sé che quale prima approssimazione lo scenario appena abbozzato è adattabile senza troppe forzature ad ambiti diversi da quello delle notizie: per esempio, considerando il file MP3 di una canzone (se la rivista tratta di musica) o il trailer di un film (se la rivista tratta di cinema) come l'equivalente del video di una notizia a carattere giornalistico.

Siccome al di là della sicurezza dei comunicati ufficiali (come sarebbe bello poter recuperare quegli annunci dai quali era bandita ogni incertezza che presentavano redditizie espansioni editoriali e poter chiedere un parere ai lavoratori poi messi in libertà!) tutti vanno a naso, si verificano fatti davvero strani: che "i pezzi in Rete devono per forza essere brevi e di immediata comprensione perché il lettore in Rete non si sofferma ma si limita a dare un'occhiata"; ma che "sul giornale i pezzi devono essere brevi e facili da capire perché il lettore è ormai abituato alla semplicità della Rete e davanti a un ragionamento complesso si trova spaesato". (Quanto è buffo pensare che non molto tempo fa la Rete veniva presentata come il luogo dove sarebbe finalmente cessata la schiavitù della brevità imposta dai costi di carta e stampa!)

(Qui potremmo senz'altro dire di come poi tutto questo si riverberi anche sul tipo di notizie che vengono date/eliminate, ma la diremmo una questione di comprensione intuitiva.)

Ovviamente tutto questo riguarda i giornali e le riviste che in edicola ci sono già. Ma a questo punto, visto che tutto è fatalmente destinato ad andare in Rete, per quale motivo fare un nuovo giornale su carta? Tanto vale andare direttamente in Rete, piantarsi lì, crearsi un "brand" nel nuovo medium e avere dei punti di vantaggio su chi per ragioni di bilancio è costretto a stampare ancora. Elementare, Watson!


E' stato grosso modo a metà dello scorso mese di ottobre che si è diffusa la notizia dell'ormai imminente chiusura della rivista musicale statunitense in Rete Stylus. Pare di capire che la cosa fosse già nota agli addetti ai lavori da circa tre mesi, e che anche lì la notizia fosse stata accolta con una buona dose di incredulità. Per capire il perché è necessario fare un passo indietro.

Approfittando delle enormi possibilità offerte dal nuovo medium, non poche riviste sono andate direttamente in Rete. Diremmo che le tre testate di maggiore successo in termini di numero di accessi e di mole di pubblicità (influenza, prestigio e livello delle retribuzioni essendo ovviamente di più sfuggente quantificazione; ma se sui primi due si può discutere a lungo diremmo che il valore del terzo elemento si collochi discretamente in basso sulla scala) fossero senz'altro le statunitensi PopMatters, Pitchfork e Stylus. (PopMatters si occupa anche di cinema, televisione, DVD-V e libri, Stylus trattava di musica e cinema; solo musica per Pitchfork.) Aggiornamento quotidiano, le classiche "cinque recensioni al giorno", notizie e interviste, ecc. E quindi?

La situazione della stampa musicale internazionale su carta presenta un quadro per certi aspetti contraddittorio. Le vere novità editoriali Made in UK degli ultimi dieci anni sono stati i ben noti mensili - Q, Mojo e Uncut - che all'ultima conta vendevano intorno alle 120.000 copie cadauno nel Paese una volta patria del settimanale. Mentre numeri di qualche tempo addietro davano lo storico quindicinale statunitense Rolling Stone fermamente attestato su 1.250.000 copie di tiratura.

E' ovvio che in un simile scenario l'apparizione di un quotidiano musicale in Rete gratuito porta un discreto scompiglio. Notizie sempre sul filo dell'attualità, e tutto un contenuto (gratuito!) con cui chi ha da tenere in vita un giornale a stampa non può per ovvi motivi competere. E con la crescente disponibilità di banda larga a buon prezzo non c'è quasi limite al numero di file audio e video che possono essere offerti (gratuitamente) al lettore. Insomma, la carta vincente. O no?

Qui vanno ovviamente comparate tante cose (numero e qualità di interviste e recensioni in primis), ma quello che pare di capire è che nonostante tutto il modello a stampa bene o male ha tenuto (per quanto tempo ancora è un altro discorso); mentre la testata "virtuale" con file annessi si è trovata a dover affrontare un concorrente assolutamente imprevisto (proprio perché imprevisto era il diffondersi in questa misura della banda larga): quello che da parte nostra chiamiamo "il giornale senza parole".


Se torniamo indietro nel tempo, possiamo dire che la musica - cioè a dire, la radio - precede il discorso a stampa. Che a partire dagli anni cinquanta, con il R'n'R e il R'n'B, il suono - e il commento dei pari - precede il discorso scritto. Ora, è ovvio che è assolutamente lecito leggere la nascita della "moderna stampa rock" negli anni sessanta (i vari Crawdaddy!, Rolling Stone, Creem e via dicendo) come "il modo in cui l'industria discografica si rivolge a un pubblico che è ancora di nicchia", affiancando magari in parallelo al discorso un breve excursus su nascita e successivo prosperare della radio in FM.

Ma se di buona qualità, un articolo, una recensione di un album o un concerto o un'intervista su/di/con Frank Zappa, i Beatles o i Kinks - oltre ovviamente a promuovere Frank Zappa, i Beatles o i Kinks (e oltre ovviamente a essere resa possibile dal fatto che qualcuno compra gli spazi pubblicitari del giornale, e spedisce gli album) - produce una conoscenza che prima non c'era e la comunica al lettore, la cui comprensione della musica sarà da quel momento in poi modificata. Ed è proprio per una differenza di approccio che diciamo, per esempio, che Musician era meglio di Rolling Stone. Tutto questo vale, come modello, grosso modo fino all'avvento di MTV.

Qui si possono tenere in parallelo molti fattori, dalla diffusione di quella banda larga che rende possibile scaricare i file sonori a quella sostanziale impunità che rende possibile farlo, da un'abitudine a una musica di tale semplicità espressiva da rendere "non necessario" il discorso verbale all'enorme quantità di attività svolte che contraddistingue oggi "una vita intensa", dalla crescente quantità di analfabetismo reale alla credenza che "la scelta" contraddistingua di per se stessa un "empowerment" per chi sceglie, dalla diffidenza per ogni discorso complesso alla fede cieca per quanto è preferito "naturalmente".

Fatto sta che le riviste di musica in Rete - e Stylus ne ha fatto le spese - si trovano oggi di fronte quelle "riviste senza parole" che sono i sistemi di raccomandazione personalizzata che trovano il loro modo  paradigmatico di essere in un sistema come quello di Last.fm. Laddove l'ascolto diretto e il "principio del simile" - "se ti piace questo ti piacerà quest'altro, e qui puoi anche sentirlo" - esauriscono l'esperienza saltando lo stadio verbale. Non è che con questo si intenda qui dire - attenzione! - che lo stadio verbale è reso impossibile; ma che esso non è più la condizione "tipica".

Paradossale notare che di fronte a tutto ciò le riviste musicali in Rete (ma anche, mutatis mutandis, quelle di carta) sembrano ripetere lo stesso errore fatto da quei giornali che hanno riprodotto la televisione (per tipo di argomenti, e velocità e superficialità della trattazione) allo scopo di meglio (!) contrastarla; laddove la lunghezza di quanto è scritto tende sempre più a contrarsi, mentre aumentano proprio le cose che i lettori cercano altrove: i file video e audio, spesso "in anteprima/in esclusiva". (E chi abbia il coltello dalla parte del manico in una situazione in cui la disponibilità privilegiata di file ottenuti dall'esterno tende a diventare il contenuto maggiormente dotato di valore che una rivista di musica può offrire al pubblico non è cosa troppo ardua da comprendere.)


Che c'entra tutto questo con Clouds and Clocks? Meglio ancora, che c'entra tutto questo con la "nostra" musica? Qui è ovviamente questione di punti di vista. Alcuni anni fa - facevamo parte del Forum moderato dal tecnico, produttore e inventore George Massenburg - ci fu rivolta proprio questa domanda: perché eravamo tanto interessati alle dinamiche prevalenti nel mainstream quando poi, con qualche rara eccezione, il nostro interesse era tutto per musiche pochissimo commerciali che sembravano inevitabilmente destinate  a rimanere appannaggio di pochi?

Se ben ricordiamo, la discussione aveva avuto inizio quando qualcuno aveva giudicato la situazione attuale molto simile a quella di prima dei Beatles, con un pubblico interessato prevalentemente al ballo, al "facile ascolto" e ai singoli piuttosto che a forme che uscivano fuori dal seminato. Da parte nostra credevamo - e lo crediamo ancora, se possibile con maggiore fermezza - che le precondizioni favorevoli alla nascita e alla sopravvivenza di musiche "difficili", a quell'epoca presenti, fossero in via di estinzione, e così il pubblico "attento".

Le opportunità tecniche sembrano oggi tutte dalla parte dei musicisti, dall'accessibilità dei sistemi di registrazione a quelle vetrine come MySpace che rendono possibile non pagare pedaggi a nessuno. Anche qui i pareri sono fatalmente destinati a divergere (con dentro tutti i paradossi del caso: è dubbio che avere una pagina su MySpace serva davvero; ma - lungi dall'essere una scelta - avere una pagina su MySpace è oggi obbligatorio). Però un conto è pensare a nomi che vengono da "un'altra epoca" (fosse anche solo pochi anni fa), un altro pensare alle possibilità di chi dovrebbe sfruttare da esordiente "i nuovi mezzi". E un conto è tirare in ballo nomi come James Taylor o gli Henry Cow, con tutto quello che ancora significano per il loro pubblico, un altro credere che un musicista possa crearsi un pubblico in un'epoca in cui nulla pare più essere in grado di sedimentare. (Chi fosse interessato ad approfondire queste tematiche è invitato a leggere il blog di Bob Lefsetz, un avvocato statunitense che si occupa di questioni concernenti l'entertainment.)

Ripetiamo, le precondizioni ci sembrano tutt'altro che favorevoli. Per un Francis Davis ancora in grado di scrivere pezzi di buona lunghezza sul Village Voice, quanti si trovano oggi a produrre un sapere "in pillole"? E che dire di quelle rubriche di cinema dove accanto a una recensione sempre più piccola compare il trailer del film in questione? O di quelle recensioni di artisti "classici" che si concludono con un filmato tratto da YouTube? E sarà un'impressione, ma mai il sito Rock Critics ci sembra più vivo di quando rende omaggio a critici scomparsi o a esperienze editoriali ormai "defunte".


Ovviamente la Rete è così vasta che esprimere valutazioni (seppur di larga massima) espone inevitabilmente al rischio di facili smentite. Purtuttavia ci pare di poter dire che delle regolarità sono percepibili. Bene o male alcuni giornali costituiscono ormai un metro di paragone, anche se - come già detto in precedenza - è proprio il concetto di "sapere verbale" che pare oggi essere messo in discussione. In parallelo (anche se questa è l'osservazione più azzardata proprio per motivi di quantità) abbiamo la precisa sensazione che rispetto ad alcuni anni orsono il mondo dei blog "seri" (quelli, per intenderci, che offrono un vero contenuto informativo elaborato in proprio) abbia subito una battuta d'arresto (se ne è dibattuto recentemente su Rock Critics, con ampia diversità di vedute). Il fatto è che ogni cosa fatta "nel tempo libero" - che non vuol certo dire "per hobby" - necessita di tempo, esattamente come quelle piccole case discografiche che è previsto non diano alcun profitto.

Si dice spesso che data la (crescente) brevità degli scritti che appaiono in Rete la "presunzione di colpevolezza" riguardante la competenza di chi si occupa di musica costituisce opinione rischiosa. Da parte nostra ci sentiamo di dire che la competenza media di chi scrive è insufficiente in modo scandaloso (e la cosa viene fuori in tutta la sua drammaticità quando si tratta di ristampe; d'accordo che quasi sempre chi recensisce la nuova versione di un album storico non ha a disposizione l'originale, ma come si può credere che un rullante che somiglia a un colpo di pistola sia un rullante tipico degli anni sessanta?). Ovviamente la brevità può ben fungere da cortina fumogena per un ascolto sciatto e frettoloso; perché mai il lettore dovrebbe decidersi a spendere dei soldi su una così esile base rimane un mistero.

Nel panorama cartaceo Down Beat e Mojo ci sembrano ancora in grado di svolgere il loro compito (il che non vuol certo dire che ambedue le testate siano esenti da difetti!).

Due le cose che ci colpiscono in maniera drammatica. La prima è una sciatteria ormai senza limiti nei riguardi di tutto. Prendiamo a bella posta un artista non molto caro a chi scrive, il recentemente scomparso Joseph Zawinul. Rimane inspiegabile come si possa scrivere un profilo che non faccia alcun cenno al suo contributo alla sintesi e alla sua influenza in proposito (c'è anche il brano di Eno intitolato Zawinul/Lava!).

La seconda è veder spuntare lo stesso nome contemporaneamente dappertutto. D'accordo, gli album si recensiscono quando sono di fresca uscita. Ma è plausibile che Nellie McKay venga recensita da tutti quando è spinta dalla Sony (ma non in Italia, dove la Sony non l'ha distribuita!) e da quasi nessuno quando il contratto è rotto? E che dire di Robert Wyatt? (Usiamo a bella posta un nome a noi caro.) Quasi comico vedere l'elenco internazionale delle recensioni che ogni mattina si allungava un altro po'. Era il nuovo album un tale passo avanti rispetto ai precedenti? Cosa spiegava tanto sudore? Triste dover osservare che la "variabile indipendente" era la nuova casa discografica (per un elenco discretamente completo il lettore può consultare il classico Metacritic). Come si può prendere sul serio un tale entusiasmo a comando?


Resta da dire di Clouds and Clocks.

Bene o male, con i limiti inevitabili della cosa, dobbiamo ammettere di non esserne poi troppo scontenti.

Sin dal primo momento abbiamo immaginato Clouds And Clocks come un attore a pieno titolo nel dibattito internazionale, senza ovviamente illuderci che il sito potesse pesare più di tanto laddove è il fattore "testata" a contare. Ma con i moderni metodi di ricerca dei risultati su scala globale un elaborato "piccolo" non ha da essere necessariamente minore - e può essere altrettanto facile da trovare. E dobbiamo dire di essere fieri di quel che finora è apparso sul sito, in primis di quell'intervento di Bettye Kronstad a proposito di un album inciso dal suo ex marito, tale Lou Reed, e intitolato Berlin, che una stampa meno (sciatta? distratta? pavida? stanca?) avrebbe in altri tempi rilanciato.

Chi ha seguito la nascita di Clouds and Clocks sa che sulle prime non era neppure certo che il sito sarebbe stato anche in lingua italiana. Per essere ancora più chiari, Clouds and Clocks è (culturalmente) un sito "apolide scritto in inglese". Non è certamente un sito "italiano" nel senso in cui lo è uno stabilimento caseario che produce e vende parmigiano. Questo è un concetto che - seppur evidentissimo per alcuni (e non sono pochi i musicisti che proprio qui a Clouds and Clocks hanno le loro interviste più lunghe e approfondite, quelle davvero in grado di rappresentarli su uno scenario globale) - risulta ancora opaco a coloro i quali ragionano sulla base di una vecchia scala mercantile: quella per cui un giornale "italiano" è in italiano e ha da ricevere i promo secondo i tempi dell'uscita fisica in Italia; questo nell'epoca dello scambio globale P2P e degli acquisti (fisici!) senza confini. (Anche se con discreto sforzo, ci rendiamo conto che chi non ha nient'altro da offrire deve per forza puntare sul fatto di fare le cose in "Anteprima".) Pazienza.

Le idee guida di Clouds and Clocks sono sempre state: descrizione adeguata della musica e servizio reso al lettore. Fiduciosi che è così, e solo così, che si rende un servizio ai musicisti "difficili". Per dirla con maggiore chiarezza, non crediamo affatto al "sito fiancheggiatore": quello che esalta i risultati buoni, passa sotto silenzio gli insuccessi, sottovaluta i passi falsi, non (si) pone le domande scomode. Questo tipo di "amicizia" non ci interessa affatto.

E' un atteggiamento che nel corso di cinque anni ci ha consentito di fare una discreta collezione di insulti:

da parte di musicisti i cui lavori non abbiamo neppure preso in considerazione (la stroncatura si fa se serve, al di sotto di certi livelli qualitativi l'unica risposta adeguata è il silenzio); da parte di musicisti i cui lavori abbiamo stroncato; da parte di musicisti i cui lavori abbiamo lodato, ma in misura evidentemente inferiore al bisogno;

da parte di discografici e distributori, per ovvi motivi;

da parte di promoter intenti a salvaguardare la pagnotta.

Ed è drammatico dover constatare che a molti musicisti del pubblico non importa poi un granché. Tanto, con questi chiari di luna, non è da lì che verrà il guadagno. Ma allora che ci sta a fare il critico? A produrre cartaccia per le rassegne stampa che fanno da sostegno cosmetico a cachet pagati da soldi pubblici?


Quanto già detto a proposito dei giornali in Rete dimostra che il futuro è massimamente incerto, in primis perchè è per definizione imprevedibile quel progresso tecnico che è la molla prima di tanti cambiamenti. Mentre abbiamo l'impressione che l'impoverimento del linguaggio sia quasi giunto a un punto di non ritorno.

Restiamo curiosi.


© Beppe Colli 2007

CloudsandClocks.net | Nov. 26, 2007