Il colore,
in bianco & nero

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di Beppe Colli
Feb. 20, 2008



E' stato grosso modo un paio di settimane fa che un nostro amico, professore di cose correlate al mondo dell'arte in un istituto italiano di livello universitario, ci ha raccontato la seguente storia (che riferiamo per come l'abbiamo capita). Pare che durante una lezione in classe siano sorte delle difficoltà di comunicazione tra alcuni allievi e il loro docente (cioè a dire, lui). E' emerso il seguente particolare curioso: che mentre la discussione verteva su delle immagini a colori (dei dipinti o altro), quello che i suddetti allievi avevano davanti agli occhi erano delle immagini in bianco e nero. Qui si potrebbero senz'altro fare molte considerazioni sulla liceità della fotocopia come sostituto del libro di testo; ma nell'era di Napster e delle nonne che scaricano i film? Proviamo a dare per certo che il volume in questione fosse di quelli di ormai proverbiale "ardua reperibilità"; ne conseguono forse fotocopie in bianco e nero di immagini a colori? Certo, "Se dovessimo fare le fotocopie a colori, quanto ci costerebbero? Quanto il libro!". (Come si vede, Napster non è passato invano.)

Questa storia è continuata a ritornarci in testa per un bel po', con quel tanto di buffo che si accompagna a un (inevitabile) retrogusto triste. Diciamo che è ipotizzabile che gli allievi in questione, anticipando un futuro lavorativo di raccoglitori di mozziconi di sigarette (secondo il ben noto patto "tu fai finta di studiare e io faccio finta di darti un titolo di studio"), abbiano scelto di "minimizzare i costi dell'investimento".

E' un problema che nei suoi termini tragicamente seri riguarda tutto il mondo occidentale. Una recente (January 21, 2008) storia di copertina del settimanale statunitense BusinessWeek (che siamo felici di poter dire da più da un anno è tornato in vendita nelle edicole europee) si interrogava su The Economics Driving The Youth Vote: laddove l'inchiesta di Michelle Conlin sulle intenzioni di voto di quei 43 milioni di statunitensi nella fascia di età che va dai 18 ai 29 anni chiamati Millennials o Gen Yers, e in particolare sul loro atteggiamento nei confronti del candidato Barack Obama, toccava con mano le ansietà di un futuro incerto. Mentre, in parallelo, un recente articolo del quotidiano britannico The Guardian (Tuition Fees Favour The Rich - New Study, a firma Polly Curtis, pubblicato in data February 14, 2008) allertava sugli effetti distorsivi del costo degli studi universitari.

Ma a nostro avviso l'aneddoto raccontatoci dal nostro amico, nel suo sapore quasi da "farsa all'italiana", mette in luce un diverso aspetto del problema. Un aspetto potenzialmente non meno serio, e le cui conseguenze diremmo impossibili da sottovalutare, sul quale proveremo ora a interrogarci.


Nella sua nettezza da "caso puro a 18k", la fiducia (per quanto forse in questo caso interessata) nel fatto che un'immagine in bianco e nero possa essere in grado di rappresentare adeguatamente qualcosa a colori, magari "nell'essenziale" colto con una certa dose di acume, ci pare offrire un buon esempio dell'odierna indifferenza nei riguardi del contenuto. Laddove il contenuto viene sostituito da un'immagine costruita "a piacere".

Lungi dal costituire un morbo dovuto a una sostanza malefica sciolta nell'acqua che beviamo, questo fatto (a volte sbrigativamente definito come "superficialità") sembra da mettere in correlazione con la quantità minima di esperienze vista come desiderabile: una quantità che oggi si identifica con la massima possibile. Ma se il numero delle esperienze deve essere massimo ne consegue che la loro difficoltà di fruizione non può che essere minima, con tendenza verso lo zero.

Un esempio di immediata evidenza riguarda le visite ai musei, laddove il contenuto di una mostra si identifica nell'Evento quale criterio unico di scelta e misura unica della bontà dell'esperienza. Laddove un museo che offre al visitatore delle belle opere che però non si qualificano come Evento mediatico andrà deserto; mentre una mostra con tutte le caratteristiche dell'Evento, e dove la ressa è grande, lunga la coda, scomode le condizioni di fruizione, nulla l'esperienza di quanto mostrato, si qualificherà come un successo. E siccome le sole cose certe e dimostrabili sono quelle che hanno carattere quantitativo, ogni municipalità che investe soldi in Cultura mostrerà le lunghe code quali espressione visibile dell'avvenuta diffusione della Cultura e del gradimento dei fruitori.

Va da sé che giunti a questo punto il passo successivo è solo logico: far diventare il museo stesso quello che i visitatori vanno a vedere; i vantaggi sono evidenti, dato che un museo non si sposta, mentre le collezioni spesso variano. E' una tendenza il cui esempio più celebre è tutt'oggi, diremmo, il Guggenheim Museum di Bilbao di Frank Gehry.


Com'è logico, ferve l'interesse per le prossime Olimpiadi che si terranno in Cina. Un bell'articolo che abbiamo avuto modo di leggere sul Magazine del New York Times (intitolato The China Syndrome, a firma Arthur Lubow, è apparso in data May 21, 2006) ci racconta delle intricate vicende della costruzione del National Stadium di Pechino firmato dai famosi architetti svizzeri Herzog & de Meuron. E' un pezzo molto lungo e dettagliato: ottomila parole, quasi cinquantamila battute. E fa piacere che nella "civiltà dell'istante" in cui vige il "pointillist time" qualcuno si sia scomodato a scrivere e a pubblicare un pezzo simile, dando per scontato che qualcuno lo leggerà. Un pezzo che ha anche evidentemente avuto un costo non indifferente, con esplorazione sul campo e interviste approfondite.

E se parliamo di architettura e di commercio è fatale che venga in mente il nome di Rem Koolhaas: chi più di lui ha riflettuto in pubblico sui possibili intrecci tra questi elementi? In un'intervista fattagli nel 2000 da Jennifer Sigler per la rivista Index Magazine, interrogato sui legami tra arte e moda, Koolhass va lestamente al centro del problema: "Non penso che si tratti semplicemente del rapporto tra arte e moda. Non è questo il punto essenziale. Oggi c'è una tale commercializzazione, così completa e onnipervasiva, che le aspettazioni si sono spostate: da un'esperienza didattica a una di intrattenimento". Cui fa da corollario l'affermazione che "C'è oggi, nella cultura per come oggi esiste, un'incessante domanda di nuovo".

Com'è evidente esistono molti modi per articolare il problema e dargli una risposta; e l'intervista (facilmente reperibile in Rete) va letta per intero, anche per vedere quali risposte concrete ha dato Koolhaas.

E' solo logico che: se il pubblico vuole essere intrattenuto, se la municipalità vuole mostrare le code, se l'architetto deve muoversi in tale contesto, ne deriva l'essenziale compito per la stampa libera di valutare l'investimento, e innanzitutto i suoi effetti reali per la cultura al di là delle code.

Qui abbiamo un buon esempio concreto: la costruzione della Central Library di Seattle progettata da Rem Koolhaas. Diremmo che i pareri degli specialisti in materia siano stati tutti estremamente favorevoli (diamo per scontate le code). Ma come funziona l'edificio nel tempo? (E' una questione diversa dal fatto che pare che dentro alcuni famosi edifici firmati da "starchitects" piova.) Come ha raccontato sul Seattle Post-Intelligencer (On Architecture: How The Central Library Really Stacks Up - March 27, 2007), a tre anni dall'inaugurazione Lawrence Cheek, un critico che all'epoca si era espresso in termini decisamente entusiasti, ha completamente cambiato opinione. Ma già ai tempi (July 2004), in un articolo intitolato Mixing With The Kool Crowd apparso sulla rivista Projects For Public Spaces, Benjamin Fried aveva espresso seri dubbi che andavano oltre il singolo edificio in questione. (Ambedue gli articoli sono agevolmente reperibili in Rete.)


Ma qui, concretamente, come si comportano i nostri mezzi di informazione? Anche qui occorre cautela: laddove, come abbiamo visto, la presunta "superficialità" dei soggetti è in realtà una caratteristica derivante dal fatto che la proliferazione potenzialmente infinita delle esperienze viene vissuta quale condizione desiderabile, è fin troppo facile coprire di insulti la sciatteria di tanta informazione (parliamo di informazione, non di intrattenimento mascherato da informazione).

Ma come viene remunerata oggi l'informazione? In un recente articolo (Our Media Have Become Mass Producers Of Distortion apparso su The Guardian in data February 4, 2008) Nick Davis ci informa dei risultati di una ricerca da lui commissionata a specialisti dell'Università di Cardiff. Se l'articolo va ovviamente letto per intero, basta dire di questo dato: il redattore/giornalista copre oggi il triplo dello spazio che copriva vent'anni fa. Come, in queste condizioni, possa essere effettuato il controllo delle fonti e della veridicità di quanto riportato ognuno può giudicare da sé.


Recentemente abbiamo letto un'intervista con il (diremmo famoso) contrabbassista Charlie Haden. Un'intervista davvero bella, il che ci ha colpito: di solito le interviste con Charlie Haden che ci è capitato di leggere hanno sempre un che di generico, di... indefinibilmente vago, che le nostre aspettative vengono puntualmente frustrate. Quando ci siamo accorti che arrivati alla terza pagina non riuscivamo a mettere giù il giornale (a proposito: è il mensile statunitense Down Beat, il numero datato February 2008) ci siamo chiesti: ma chi è questo che ha fatto l'intervista? Ethan Iverson. E chi è Ethan Iverson? Poi ci siamo ricordati che Ethan Iverson è il pianista dei Bad Plus. Da cui, scoramento: ma allora per leggere un'intervista come si deve (intendiamo: seria e ben fatta, in cui si parla di cose concrete, non di aria fritta) la deve fare un pianista?

Diamo un'occhiata al più recente numero del mensile britannico Mojo (issue #172, March 2008), e ci cadono gli occhi su una stroncatura di un libriccino della nota serie 33 1/3 della Continuum. La stroncatura (un genere oggi raro), a firma Andrew Perry (due stelle che a leggere la recensione avrebbero potuto essere ancora di meno), riguarda un volumetto dedicato a Pink Moon di Nick Drake curato da una certa Amanda Petrusich. Le recensioni che riusciamo a trovare in Rete sono ancora più impietose. Ma chi sarà questa Amanda Petrusich? Mah! Dato che nessuno dei colleghi statunitensi da noi interpellati sembra conoscerla in termini men che generici facciamo un'esplorazione in Rete.

La prima cosa che troviamo è un'intervista a PJ Harvey apparsa su Pitchfork in data 11-05-07. Detto che la musicista fa un figurone, ci accorgiamo che a tratti la conversazione ha un che di surreale. Allorquando la Harvey lamenta la proliferazione dei reality show alla tv inglese, la Petrusich viene fuori con questa frase: "In effetti ci vuole molto sforzo per lasciare fuori questa roba. E' così onnipresente, un continuo chiacchiericcio...". A dire il vero a noi sembra che basti non accendere la televisione e non parlare con gente per cui queste cose sono importanti.

Segue questo scambio:

Petrusich: Man mano che invecchio, scopro - e questo è un po' deprimente...

Harvey: Quanti anni hai? Non puoi averne più di 15!

Petrusich: Ne ho 27, e credo che questo sia tipico della mia generazione, in un certo senso, ma oggi io non ho bisogno della musica nello stesso modo disperato in cui ne avevo bisogno quando ne avevo 15.

Assolutamente da non perdere quell'impagabile "in un certo senso" ("in a way").


E questa è l'altra faccia della realtà.


© Beppe Colli 2008

CloudsandClocks.net | Feb. 20, 2008