Lo strano caso dei promo scomparsi
e altri misteri

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di Beppe Colli
May 1, 2008



Capita di tanto in tanto che qualcuno degli statunitensi con i quali per un motivo o per l'altro siamo in contatto ci scriva per esprimerci la sua sorpresa a proposito della nostra frequentazione del blog tenuto da Bob Lefsetz. Non che ci sia nulla di male: Lefsetz è un avvocato il cui campo d'azione è (diremmo da tempo immemore) l'Entertainment in tutte le sue forme più varie e, oggi, anche nelle sue più complesse implicazioni commerciali e tecniche. In effetti anche a noi Lefsetz appare spesso come una strana miscela di baby-boomer e di (impossibile) profeta informatico, con qualche vecchio conto in sospeso da regolare e interessi non sempre facili da individuare. Il fatto centrale è però che il blog di Lefsetz è anche una fonte preziosa di notizie, e di link a fatti. E dato che per chi scrive la Rete è ancora soprattutto un'agevole modalità di accesso a contenuti a carattere concettuale e verbale (in opposizione all'uso che diremmo oggi prevalente, e cioè: un modo pratico ed "estremamente economico" di scaricare tutta la musica e la cinematografia mondiale)...

Un buon esempio recente è il post di Lefsetz datato 26 marzo. Intitolato Long Road Out Of Eden, il pezzo ha a che fare (anche) con il nuovo album degli Eagles, ma all'improvviso ci troviamo davanti questa frase: "Sul Los Angeles Times di oggi Ann Powers discute il ruolo del critico. Da parte mia ritengo che il critico sia morto". Che è sicuramente un'affermazione ormai non molto originale ma ancora in grado di incuriosirci quanto alla "modalità di esecuzione". E quindi, dopo aver fatto un nodo al fazzoletto per ricordarci di leggere il pezzo di Ann Powers, abbiamo continuato a leggere.

"Non dirò che nessuno legge il giornale. Ma la gente che i critici stanno cercando di influenzare non legge, certamente non le masse. La musica è qualcosa che ascolti, perché dovresti voler leggere qualcosa su di essa e poi accendere il computer per ascoltarla quando invece la puoi ascoltare subito?" (...) "C'è stata un'incredibile democratizzazione del mondo musicale. I critici mainstream hanno meno importanza dei tuoi amici. Proprio come il passaparola è più importante delle recensioni dei film. Il "brusio" è la cosa più importante, e indubbiamente lo è se parliamo di musica." (...) "La verità è che Ann Powers non ha più importanza. E neppure Jon Pareles e Kelefa Sanneh."

Fatto il secondo nodo al fazzoletto (se ben ricordiamo, Jon Pareles è il critico "pop" del New York Times, ma chi sarà mai questo - o questa? - Kelefa Sanneh?) proviamo a ragionare un po'. Che la funzione prima del critico sia quella di influenzare la gente ci pare dubbio, anche se è un discorso che abbiamo sentito fare spesso (specialmente da parte di chi si guadagna da vivere tentando di influenzare la gente). Ma in ogni caso qui sono in ballo questioni diverse. E' un problema di lettura in senso stretto, nel senso di: la gente è di fatto ormai pressoché analfabeta, e quindi non legge più (nel qual caso basterebbe sostituire la lettura con un programma parlato)? Oppure i critici non sono più ritenuti credibili (in quanto "non sinceri", a differenza degli amici)? Oppure si ritiene che niente al di fuori di quello che può essere rivelato dall'ascolto diretto (e quindi non il riuscire a "sentire" gli accordi di Curtis Mayfield dentro un brano di Jimi Hendrix, cosa ovviamente impossibile a meno che qualcuno non ci allerti in proposito, o a meno di non conoscere già Curtis Mayfield) abbia importanza? O il lavoro del critico è diventato (per uno o più motivi) tanto scadente da valere (ma in quale senso? come "suggerimento di ascolto", o quale fonte di arricchimento dell'ascolto?) meno del consiglio di un amico?

Era arrivato il momento di leggere l'articolo di Ann Powers.


Il pezzo di Ann Powers si intitolava Can controlling how and when music is released backfire on artists and fans? (Può il fatto di controllare come e quando la musica viene pubblicata avere ripercussioni negative sia sugli artisti che sui fan?) Che era un titolo decisamente diverso da quello che ci saremmo aspettati. Il primo nome nel quale ci imbattevamo era quello di Jack White: sua, pareva di capire, la decisione di pubblicare il nuovo album dei Raconteurs rendendolo accessibile in tutti i formati a fan, stampa e radio nello stesso preciso momento, "di modo che nessuno fosse in posizione avvantaggiata per ciò che riguardava disponibilità, ricezione o percezione" dell'album. Una storia che ci era sfuggita, e che, vedevamo, seguiva a comportamenti analoghi da parte di Trent Reznor/Nine Inch Nails e Gnarls Barkley. Tra le molte cose che ci colpivano, questa balzava immediatamente agli occhi: "Alcuni critici (incluso, con larghezza di opinioni, Jason Gross su Popmatters.com) si sono chiesti se la buona critica andrà persa in questo processo di smantellamento" (e qui facevamo subito un altro nodo al fazzoletto per ricordarci di leggere il pezzo di Jason Gross).

Compresa a questo punto (o almeno, così speravamo) la cornice del discorso, il resto era interessante e avvincente, a partire da questa affermazione: "Non esiste critico - incluso chi scrive - che non abbia privilegiato la fretta di esprimere un giudizio rispetto al bisogno di scoprire gradualmente le sfumature di un lavoro. Le decisioni affrettate non sono nulla di nuovo, né è nuova la posizione critica compromessa. Ma la professione è diventata sempre più complicata da faccende di accesso e dal bisogno di scoop fonte di successo sul Web." (...) "Quando mi è stato negato l'accesso anticipato alle copie promozionali ho trovato materiale che si supponeva non fosse disponibile al pubblico su siti di fan inglesi e su blog italiani, sperando che le indicazioni dei pezzi fossero corrette e che i missaggi non provenissero da demo. Come i miei colleghi, anch'io cerco di evitare tali strane circostanze. Ma questo non è sempre possibile, specialmente se il fine del critico è quello di colpire per primo."

(...) "Anche i canali che aiutano a determinare quali sono gli artisti che "importano davvero" si sono moltiplicati. Non c'è più nessuna consonanza di vedute." (...) "Il bisogno di arrivare primi, che adesso è così acutamente sentito, è reso ulteriormente complesso dalla crisi riguardante l'accesso." (...) "Ora tutto può spuntare in Rete." (...) "I critici delle testate più affermate si trovano tallonati dai blogger che li battono in tempismo. Ma i consigli o le stroncature di chi scrive appaiono a ogni modo irrilevanti, data l'abbondanza di promo in streaming e di pezzi legalmente scaricabili a scadenza prefissata. I fan possono sentirsi la musica da soli."

La Powers appare fiduciosa nell'importanza del confronto tra pareri: "Sono ancora curiosa di sentire quello che i critici che rispetto hanno da dire su una nuova uscita, perfino se l'ho sentita una dozzina di volte, perfino dopo che l'ho recensita." Meno fiduciosa, ovviamente, sul fatto che questo sia anche l'atteggiamento del classico "ascoltatore medio". Ed è a questo punto che ci ricordavamo di dover leggere il pezzo di Jason Gross.


Intitolato Reviewers no more? The disappearing advance copy (Non più recensori? La scomparsa della copia promo in anteprima), il pezzo di Jason Gross era apparso su PopMatters il 20 marzo. Gross partiva dalla decisione presa dai Nine Inch Nails, Raconteurs e Gnarls Barkley di accelerare l'uscita dei loro album nel tentativo di minimizzare le "fughe illegali", ma continuava sottolineando il fatto che gli album erano arrivati sul mercato senza che ai recensori venissero fornite delle copie in anteprima. "Nell'era di Internet e del download quando tutto sembra essere istantaneamente disponibile il fatto di far aspettare i fan per settimane o mesi per qualcosa che è già disponibile tra i critici sembra una cosa da epoca pre-digitale che non ha motivo di essere", diceva Gross. "Da fan, capisco questo modo di ragionare - voglio la musica adesso, non voglio aspettare mentre i pochi nei giornali a diffusione nazionale si gustano i brani."

Ma dopo aver affermato che nel recensire la musica "mi piace raramente sputare i miei pensieri senza prima averci pensato su per un tempo appropriato", Gross affermava preoccupato: "L'altra cosa che mi impensierisce di queste uscite veloci è che la cosa potrebbe rendere la critica poco importante. Lo so, lo so - c'è del giornalismo musicale che fa schifo (...). Ma (...) le cose migliori che trattano di musica non si limitano a dare un voto ma creano un dialogo, delle idee e un contesto per la musica che amiamo. Possono migliorare il nostro appezzamento per essa e farcela vedere in modo nuovo."

Gross concludeva rimandando a un articolo di Adrian Serle intitolato Critical Condition uscito sul quotidiano britannico The Guardian in data 18 March 2008, e non possiamo che concordare con lui.


Che la ormai lunga sequenza di articoli pubblicati sulla "morte della critica" abbia reso l'argomento insopportabilmente noioso per molti è cosa nota. Se ne è avuta piena conferma con il post intitolato The Death of Criticism Warmed Over, Yet Again (La morte della critica, riscaldata, un'altra volta ancora) messo in pagina da A.C. Rhodes in data April 9, 2008 sul classico sito RockCritics.com. Si apriva una discussione (che diremmo stanca) a proposito dell'articolo di Patrick Goldstein apparso in data April 8, 2008 sul Los Angeles Times con il titolo di The end of the critic? There was a time when they were our arbiters of culture. Those days are gone (La fine del critico? C'è stato un tempo in cui i critici erano arbitri di cultura. Quel tempo è finito). Un intervento interessante era quello in data April 11 di bflaska (che supponiamo essere la sigla del noto critico Barbara Flaska) a proposito "dei blog che hanno quale argomento la musica: sono d'accordo sul fatto che il pozzo si sta prosciugando (...). Ma è stato divertente finché è durato, non è vero?".

L'articolo di Patrick Goldstein aveva il non piccolo merito di ricordarci la base economica di fenomeni che troppo spesso consideriamo solo sotto l'aspetto culturale: "I critici vengono ridimensionati dappertutto, sia che si tratti di musica classica, di danza, di teatro o di altri campi delle arti. Mentre fattori economici sono qui in ballo - vedendo il loro modello economico franare, molti giornali hanno semplicemente deciso di non potersi più permettere tutta una batteria di critici - sembra chiaro che siamo in un'epoca con un approccio molto diverso al ruolo della critica".

Goldstein citava poi il parere di Leah Rozen, critico cinematografico di People: "Tutti i caporedattori sono stati a tal punto influenzati dal modello del "giornalismo di servizio" da arrivare a chiedersi perché i critici la fanno tanto lunga quando poi tutto quello che il lettore vuole sapere è se deve andare o no a vedere quel film." (...) "Rozen afferma inoltre che ogni volta che su People c'è una riprogettazione grafica le immagini diventano più grandi e lo spazio per il testo più piccolo".


Se queste notazioni possono essere considerate bastevoli quale prima approssimazione allo scopo di tratteggiare un quadro di riferimento, resta ancora tutto da costruire (e sappiamo che non è poco) il modello delle relazioni e l'individuazione delle variabili indipendenti.

Ma sappiamo questo: il pubblico rifiuta sempre più l'espressione verbale e privilegia in maniera preponderante l'approccio "senza mediazioni"; gli organi "a stampa" privilegiano sempre più un contenuto di tipo "tattile" (fino a non molto tempo fa un Podcast con "nuove proposte" al quale si aggiungono oggi quei video e quei "contenuti esclusivi" la cui presenza è resa possibile dal crescente diffondersi della banda larga a prezzi accessibili) a spese di quello di tipo verbale; le case discografiche trovano sempre più inutile la funzione della "casta" dei critici e sempre più profittevole rivolgersi, magari sotto "mentite spoglie" (sarà davvero un "ladro gentiluomo amante della libertà" colui che ha messo in Rete quella succulenta anteprima?), a quelle comunità di fan il cui entusiasmo e la cui capacità di passaparola sono per definizione senza pari.

Se non ci vuole molto a immaginare le case discografiche intente a mettere le riviste l'una contro l'altra per ogni "uscita importante" (e chi oserà più stroncare un album la cui presenza sulla propria testata è già segno di revocabile benevolenza?) è storia di oggi il fatto che la copertura della musica si riduce spesso a notazioni di costume sul personaggio; da cui la possibilità - ignota in tale misura in passato, con pochissime, notissime eccezioni - di incaricare della promozione riviste di ogni tipo, ma principalmente di moda e "lifestyle".


A questo punto il dibattito è aperto. E "com'è che ci siamo ridotti così?" è sempre una delle prime domande che capita di sentire. A onor del vero va detto che a parere di molti le cose sono sempre andate "così", nel senso che la critica è sempre stata largamente ininfluente per i più qualora rapportata al passaparola e al gruppo dei pari. E i ricordi personali non sempre aiutano, dato che non di rado si viene a scoprire di essere cresciuti in una situazione che si immaginava allora tacitamente essere "tipica e comune" ma il cui carattere di "eccezionalità" è oggi fin troppo facile da percepire.

Quello che ci preme sottolineare è il fatto che, a fronte della obiettiva carenza di informazioni tipica degli anni sessanta e di buona parte dei settanta, ci si ingegnava proprio per "desiderio di sapere". Ed era immancabile il momento in cui, non appena nota l'informazione che uno dei presenti in fondo non se la cavava poi troppo male con l'inglese, la copertina di un album veniva aperta e i testi presentati all'esame per un primo abbozzo di comprensione (e spesso si trattava di 4 Way Street di Crosby, Stills, Nash & Young). Dal che dovrebbe discendere che, data la quantità di informazioni oggi potenzialmente a disposizione di chiunque possegga un computer e una connessione, chi è appassionato di musica dovrebbe conoscere tutto (che non vuol certo dire avere tanti hard disk stracolmi di file).


E' un fatto pressoché obbligato che chi ha cuore il destino della "nostra" musica (entità quanto mai fumosa e di impossibile definizione, ma per questa volta faremo finta che non sia così) e dei musicisti che la pensano e la suonano si chieda cosa è possibile fare per cercare di mettere una pezza sul presente stato di cose.

Anche qui, il consenso è tutt'altro che totale. C'è chi trova degna e di bella godibilità la produzione odierna di tanti nomi illustri (anche senza bisogno di tirare in ballo il fattore "alle presenti condizioni"). C'è chi trova bella o addirittura entusiasmante l'esperienza del concerto del gruppo glorioso ora riformatosi (qui esistono due campi: quelli che ci vanno perché sono "fan da sempre", e quelli che non ci vanno... per lo stesso motivo).

Il realismo consiglia miti pretese. Un gruppo "come si deve" ha bisogno di provare (e provare, e provare...) molto a lungo prima di rendere correttamente e con scioltezza, in modo credibile, un repertorio di una certa difficoltà. Non pochi album dimostrano oggi la loro origine "costruita", laddove ciascun musicista ha inciso le sue parti isolatamente e in un luogo diverso. Un'estetica "forte" ricostruita "a memoria" su un palco da musicisti che non si erano più visti dal (brevissimo) tour precedente diventa una gabbia.

Le cose non migliorano se osserviamo il pubblico. Se già la "videomusica" aveva privato il concerto dal vivo di un suo contenuto specifico diverso da fumi, schermi e coreografie dei nomi più ricchi, l'abitudine al "multitasking" pare aver reso "fluttuante" il punto di vista di chi si reca oggi a un concerto: laddove ciascun membro del pubblico sembra considerare ciascuno dei presenti (categoria quanto mai soggetta a evoluzione, come dimostrato dall'uso del telefono cellulare quale "ricetrasmittente mobile") altrettanto importante del gruppo che sta sul palco, al quale ci si rivolge in uno spirito da "e adesso fammi divertire, se ne sei capace".


Da quanto detto finora discendono more geometrico due conseguenze importanti. Innanzitutto il rifugiarsi di molti musicisti nell'Accademia, luogo che non di rado era stato oggetto del loro scherno e dileggio negli anni della gioventù. Qui c'è poco da dire: mangiare si deve. Però va anche detto che il lavoro accademico sembra spesso (troppo spesso per essere un caso) incoraggiare quelle tendenze di "studio del particolare" e di "propensione all'esperimento" dal carattere autoreferenziale che non sembrano il miglior rimedio per una carente comunicazione con il pubblico dei "comuni mortali". In parallelo, il fatto di doversi esibire su palchi sovvenzionati dove il risultato musicale, paragonato alle "definizione dell'evento" come riscontrabile da cartellone, non conta nulla, spinge i musicisti dentro un processo inflattivo senza pietà dove anno dopo anno la sigla ha da essere sempre più "eccezionale" per giustificare l'esborso di capitale. Va da sé che qui il ruolo del critico è quello di "compiacente imbrattacarte", ma è cosa nota sulla quale non ci dilungheremo oltre.

Avviandoci (finalmente!) alla conclusione, faremo ricorso a un aneddoto personale. Alcuni anni fa fummo gentilmente invitati a conversare con degli studenti universitari su cose quali il ruolo del critico e faccende simili. Dopo solo pochi minuti ci accorgemmo che gli occhi sgranati che ci guardavano erano senza alcun dubbio indice di stupore e sgomento; decidemmo quindi di scendere immediatamente di altitudine gettando via la traccia mentale di dialogo che ci eravamo prefissati di adoperare durante l'incontro.

Il resto della discussione si svolse in maniera pacifica e senza particolari rivelazioni, almeno fino al momento in cui ci capitò di far notare (in maniera assolutamente incidentale) che per un recensore il pericolo di scrivere recensioni negative, pur se veritiere, era quello di non vedersi più recapitare i promo da recensire. Fu a quel punto che udimmo "Gli sta bene, così se li compra". Sul momento pensammo di aver capito male: incompetenza a parte, è la recensione compiacente (non importa se per ragioni monetarie, di amicizia, o altro) quello che abbiamo sempre considerato il peccato tipico del recensore; assolutamente paradossale, quindi, avvertire il compiacimento di chi considerava appropriata la punizione di chi aveva fatto l'interesse del lettore.

Era proprio così. E  non ci fu verso di ragionare oltre. Il punto, assolutamente non correlato, portò inaspettatamente alla luce l'odio contro "il critico" che - senza avere merito alcuno - riceveva CD ed entrava ai concerti senza pagare un soldo. Cercammo inutilmente di spiegare che il rimedio alla proliferazione dei critici incompetenti e disonesti era quello di modificare le regole del gioco (d'accordo, stiamo sognando; ma parliamone "in teoria") in modo da rendere molto difficili, se non impossibili, comportamenti scorretti. Niente. La storia era sempre quella: il critico si deve pagare tutto di tasca propria.

Non si arrivò mai (ma si sarebbe mai potuto?) a una formulazione chiara, ma ci sentiremmo di ricostruire l'atteggiamento in questo modo: o il critico non è niente più di un comune mortale, nel qual caso che si paghi tutto di tasca sua; o pretende di sapere cose non accessibili all'esperienza diretta di ognuno - e che cosa mai potrebbero essere? Il ragionamento combinava quindi il rifiuto dell'esistenza di un sapere "specialistico" e l'accettazione di una sfera "altra" accessibile a tutti, "sol che si voglia". Quindi, il conversare dentro un gruppo di pari basta e avanza alla bisogna.

E questo è un modo di ragionare oggi estremamente diffuso, dove ogni risultato intellettuale deve essere raggiunto senza fatica e dove ogni cosa che si situi oltre un livello "normale" di fatica in realtà - letteralmente - non esiste. E dove chi vuole persuaderci della complessità delle cose è solo un imbroglione di cui diffidare.


© Beppe Colli 2008

CloudsandClocks.net | May 1, 2008