Il controverso problema del Tonic
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di Beppe Colli
Apr. 24, 2007



Durante la prima settimana di febbraio abbiamo trascorso molto tempo a leggere articoli sulla "Progettazione Urbana" (Urban Design). Non ricordiamo più esattamente cosa stessimo cercando, ma nel corso di una ricerca in Rete ci siamo imbattuti in un link che portava alla trascrizione di un dibattito che aveva per oggetto l'Urban Design e che era apparso sul più recente numero (# 25, Fall 2006/Winter 2007) della rivista statunitense Harvard Design Magazine, dal titolo Urban Design Now. Avendo trovato la discussione molto interessante abbiamo ordinato il numero e proceduto a esplorarlo.

Un articolo ha attirato immediatamente la nostra attenzione - e potrebbe mai essere diversamente quando il titolo è The Upside Of Gentrification? (Il lato positivo della "gentrification") Una cosa che abbiamo appreso è che "gentrification" è parola recente. Avendola incontrata per la prima volta a metà degli anni ottanta - e avendone capito senza difficoltà il significato, dato il contesto nel quale veniva usata - avevamo dato per scontato che fosse in uso da tempo; ma quando l'avevamo cercata ci eravamo accorti che sul nostro vocabolario (risalente alla metà degli anni settanta) non c'era.

Dopo averne dato una definizione ("La definizione generalmente accettata di "gentrification" è l'arrivo in una zona urbana di nuclei familiari ad alto reddito che a poco a poco rimpiazzano i residenti di reddito basso in numero sufficiente a cambiare il carattere sociale della zona"), l'autore (Matthew J. Kiefer) ci rivela che il termine venne usato per la prima volta nel 1964 dal sociologo britannico Ruth Glass, e che il suo primo utilizzo negli Stati Uniti fu in un articolo apparso sul New York Times nel 1972.

La questione "gentrification" ha dato adito a molte polemiche, e continua a provocarne tuttora, ricevendo molto spazio sui media soprattutto quando costruzioni che vengono considerate di alto valore culturale rischiano di essere rimpiazzate da grandi edifici destinati ad abitazioni o affari. Il caso più recente è senz'altro quello del club di New York (famoso in tutto il mondo?) Tonic.

Apprendemmo dell'esistenza del Tonic quando John Zorn cominciò a portare nel locale musica "d'avanguardia e sperimentale" (crediamo all'incirca nove anni fa). Ogni volta che ricevevamo un messaggio e-mail con i nomi di coloro i quali avrebbero suonato lì pensavamo a che fantastica esperienza sarebbe stato poterci andare, posto che uno vivesse lì. Non siamo mai stati a New York, ma ogni volta che qualcuno che conosciamo ci andava (e ogni volta che leggevamo la recensione di qualche concerto) avevamo notizie del Tonic. E' solo da poco che abbiamo iniziato a riflettere sul fatto che non avevamo mai chiesto nulla - e niente ci era mai stato detto in termini chiari e semplici, facili da capire - su cose quali la grandezza del Tonic o la sua situazione finanziaria.

Fummo ovviamente rattristati, lo scorso anno, dall'apprendere che il Tonic stava navigando in acque finanziariamente pericolose. Non è quindi stata una sorpresa leggere che era sul punto di chiudere. Cosa che ha poi fatto lo scorso 13 aprile.

Se c'è mai stato un caso di "gentrificazione in azione" è questo, con il Lower East Side quale zona dove nuovi edifici vengono costruiti quasi ogni giorno. Ma leggendo gli articoli apparsi su quotidiani e periodici comincia ad apparire un quadro più complesso. Grazie all'articolo di Tricia Romano intitolato Dead Again (apparso sul sito del Village Voice in data April 9th, 2007 4:02 PM) abbiamo appreso che "i due proprietari, Melissa Caruso Scott e suo marito John Scott, erano in arretrato di mesi con il fitto, con un debito che adesso ammonta a più di $10,000. Sono quindi sottoposti a una procedura di sfratto". Abbiamo anche appreso che "il basement, che ospitava party che erano fonte di introiti di tutto rispetto come il Bunker, era stato chiuso dalle autorità pubbliche perché i coniugi Scott erano privi persino del più semplice dei requisiti - un certificato di occupazione e un permesso di ospitare pubblico, ambedue necessari per qualsiasi posto. Che fossero andati avanti così a lungo senza essere chiusi era un miracolo. Che non fossero un locale in regola con le licenze e si fossero comportati per molti anni come se lo fossero senza incorrere in violazioni era come vincere alla lotteria". Abbiamo anche appreso che "il Tonic era stato sul punto di fallire due anni e mezzo addietro, quando i coniugi Scott avevano avuto bisogno di apportare migliorie al sistema fognario senza essere nelle condizioni economiche di farlo. Una serie di concerti di beneficenza li aveva tolti dai guai". E visto che parliamo di fogna, abbiamo letto anche dello stato (pietoso) dei cessi.

Chiaramente questa non è una situazione dove qualcosa è andato storto, ma una situazione che è in condizioni finanziariamente precarie da moltissimo tempo - praticamente da sempre. Siamo finalmente riusciti a conoscere la capacità ufficiale del Tonic: 180. E dato che la nostra memoria non è più quella di una volta abbiamo cercato il numero odierno degli abitanti della città di New York: 8.000.000+.

Quello che è successo in seguito - e che abbiamo letto in Rete, con la situazione che adesso è in uno stato fluido, con cambiamenti attesi (o, quanto meno, sperati) ogni giorno - ha qualcosa di surreale. In breve, alcuni musicisti hanno formato una coalizione chiamata Take It To The Bridge allo scopo di affrontare i problemi più grossi riguardanti la situazione corrente della musica sperimentale nella città. I musicisti hanno organizzato una protesta pacifica al Tonic il 14 aprile, all'indomani della chiusura del club. In questa occasione la polizia ha arrestato e ammanettato due musicisti - Rebecca Moore e Marc Ribot - che sono poi stati rilasciati.

Notizie sulla coalizione possono essere trovate in Rete. In breve, essa chiede che il consiglio comunale adotti un principio simile a quello della politica culturale europea, cioè a dire che le arti non dovrebbero essere lasciate alla mercè delle forze del mercato; che la città riconosca il danno arrecato alla sua eredità culturale e al suo status di "capitale culturale" dalla chiusura di locali di grande importanza per la musica sperimentale, e si adoperi per preservare i locali rimanenti dall'essere chiusi, o mediante fondi sufficienti a permettere loro di sostenere l'esplosione dei fitti commerciali, o per mezzo di una legislazione che obblighi i proprietari a sottoporsi a un limite per ciò che riguarda gli affitti di locali di valore culturale, o in entrambi i modi.

Ci è anche capitato di leggere altrove (no, non l'abbiamo ricevuta) una "lettera aperta" inviata dal (fiatista) Ned Rothenberg indirizzata a "Dear Friends in Europe", dove si afferma che "l'Europa, che ha sempre sostenuto questa musica, ha un grande ruolo da giocare dato che la leadership politica di New York è ben consapevole del fatto che  gli europei (e i turisti canadesi) sono decisivi per la forza dell'economia della città di New York".

Quello che non comprendiamo è (quella che percepiamo come) una certa riluttanza da parte di chi così argomenta (abbiamo letto testi di altri musicisti, tutti molto simili) ad ammettere che quello di cui parlano non è basato su niente più - e niente meno - che un giudizio di valore, nel senso di "Dato che io considero questa musica come culturalmente rilevante/importante/indispensabile/meritevole di conservazione, chiedo soldi". Puro e semplice. Il fatto che un locale come quello (posti: 180) sia stato in rosso praticamente dal primo giorno mostra senza alcuna traccia di ambiguità che alla gente di New York la cosa non interessa. E con tutto il rispetto per Rothenberg, l'idea che i turisti europei si rechino a New York avendo il Tonic tra le tappe del loro itinerario non ci pare collocabile tra quelle maggiormente plausibili.

Prima di andare avanti vorremmo brevemente illustrare il nostro punto di vista a proposito del sostegno pubblico alle arti - a differenza di quello concernente, per esempio, l'istruzione, la sicurezza pubblica, l'assistenza sanitaria e così via. Preghiamo chi è tanto gentile da leggere quanto segue di fare attenzione - abbiamo notato che perfino musicisti dotati di un Q. I. più alto del normale mostrano una carenza di comprensione quando ci sono di mezzo i (loro) soldi.

Ovviamente non abbiamo nulla contro le donazioni private (beh, qui forse ci potremmo fare una bella chiacchierata a proposito delle esenzioni fiscali, ma lasciamo questo argomento per un'altra volta). Parliamo di fondi pubblici. Dobbiamo ammettere che, da rock'n'roller quali siamo, abbiamo sempre trovato l'dea del sostegno pubblico un po' strana - e ancor di più dopo aver letto delle distorsioni, inefficienze e ruberie (pure e semplici) che possono originare dall'intervento pubblico. Così ogni volta che qualcuno ci dice qualcosa come "Perché il musicista X non dovrebbe avere un sostegno visto che l'opera e il balletto lo ricevono?" la nostra reazione (scherzosa, ma non del tutto) è "Perché invece non eliminiamo il sostegno per l'opera e il balletto così che esista una concorrenza leale tra essi e il musicista X?". Dobbiamo ammettere che una cosa che ci piace pochissimo è il fatto che soldi che provengono (per mezzo delle imposte) da contribuenti a reddito basso vengano usati  per sostenere cose che vengono fruite in misura sproporzionata da persone ad alto reddito - accade lo stesso con l'università (pubblica), un fatto reso peggiore dalla (non uniforme) distribuzione dell'evasione fiscale nell'universo contributivo.

Facciamo un esempio facile da capire. Supponiamo di avere un festival che dura, poniamo, otto mesi, con più concerti al mese. Supponiamo che il budget totale sia di 1.000.000 di euro. I soldi vengono spesi per pagare gli artisti, più: biglietti aerei; albergo; pasti; manifesti che pubblicizzano i concerti; biglietti; programmi stampati per ogni evento, con note e foto; affitto della sala; affitto degli strumenti e degli amplificatori; impianto audio e luci; sistema di monitor da palco; tecnici e personale addetti a ciò. Alla fine di tutto potremmo giungere alla conclusione che se quello che ci sta a cuore è il benessere dei musicisti potremmo inviare loro, diciamo, un decimo della somma totale (cioè a dire, 100.000 euro) per starsene a casa a non fare niente, lasciandoci il resto della somma pronta per essere spesa per migliorare le condizioni di scuole e strade. E in effetti la maggior parte dei fondi non va a beneficio dei musicisti ma di vari affari "non correlati" - e non dimentichiamo gli stipendi di quanti lavorano per le organizzazioni burocratiche che gestiscono questi eventi. Tutto ciò dovrebbe contribuire gentilmente a far ricordare i motivi per i quali molta gente è estremamente favorevole al fatto che le arti siano sostenute dalla sfera pubblica.

Ovviamente non appena proponiamo questo molti si mettono a ridere. Pagare i musicisti per restare a casa a non fare niente! E il pubblico? Lasciando da parte le cose che si dicono tanto per dirle, oggi nessuno crede più al vecchio adagio "la vera arte rende la gente migliore". Anche la nozione della mera esistenza della "vera arte" è oggi messa in dubbio. L'intervento pubblico va oggi in maniera crescente in direzione di "eventi" che i più troveranno di loro gradimento - incidentalmente, cose dove le aziende private possono avere un ruolo come sponsor, senza che venga aggiunto ulteriore peso alle già esauste finanze pubbliche: grandi eventi con "il grosso nome X gratis", o, sempre di più, dove "è la gente comune la vera protagonista dell'evento", che consiste in buona sostanza nello stare fuori tutta la notte a vedere attrazioni varie, con i negozi aperti e simili ("Circenses", per quelli che hanno fatto latino). Ignoriamo chi oggi possa davvero credere che un musicista che vende, diciamo, 100 CD in tutta la nazione possa cambiare la percezione di ciò che è arte per, diciamo, 200 persone in ogni città in cui suona, persone che hanno pagato una miseria (ammesso che qualcosa abbiano pagato) per essere ammesse al concerto, non hanno alcuna idea di chi sia l'artista e ne dimenticheranno il nome non appena saranno fuori dalla sala (e se c'è qualcuno che crede che le cose vadano diversamente, beh, c'è una vecchia costruzione a Roma che potremmo vendervi).

Mentre cercavamo altre notizie a proposito di questa faccenda del Tonic ci siamo imbattuti, del tutto casualmente, in un scritto di Marc Ribot. Intitolato Crisis In Indie/New Music Clubs, è stato postato in data Wed, 09/20/2006 - 8:50pm. E' un articolo lungo (persino più lungo di questo editoriale), complesso, ricco e stimolante che necessita di essere letto nella sua interezza. Quello che segue non è né un sunto dello scritto di Ribot (ma lo abbiamo citato generosamente per evitare di rappresentare erroneamente le sue posizioni) né una refutazione del suo punto di vista (sebbene molti dei suoi argomenti ci abbiano lasciato tutt'altro che persuasi).

"Questo scritto sosterrà che il mercato inteso come mezzo per sostenere la "downtown new music" sta fallendo", inizia. Per poi aggiungere: "Il sostegno da parte del mercato non è più possibile. Questa idea sembra scioccante e strana, ma da un punto di vista storico è la nostra aspettazione che la nuova musica possa essere sostenuta dal mercato a essere strana".

Nota che "Dagli anni quaranta agli anni sessanta i compositori di "new music" non si aspettavano di fare soldi per mezzo del mercato dei concerti dal vivo: per sopravvivere molti insegnavano. Il reddito di John Cage non si basava sul riempire un nightclub di clienti che pagavano per il biglietto e per un drink: molte delle sue "prime" che hanno fatto storia sono state frequentate da meno gente di quella che va a un concerto qualunque al CBGB's. Si manteneva essenzialmente con soldi provenienti da commissioni ed esibizioni finanziate, e con borse provenienti da fondazioni private e pubbliche".

Dopo aver affermato che "L'idea che la "new music" potesse essere sostenuta dal mercato è nata nella downtown NY nei tardi anni settanta" procede ad asserire che "Nel 1988, la vendibilità degli sperimentatori "downtown" era così alta che la musica poteva sostenere un club autonomo aperto sette sere alla settimana, la Knitting Factory, con gli artisti principali a suonare nei weekend". Ma con il passare del tempo, "il Tonic, comunque, rappresentava già un rimpicciolimento del pubblico della "new music": esso poteva ospitare 180 persone, paragonate alle più di 300 della sala grande della Knitting Factory".

Dopo aver detto che "Ho passato circa due mesi l'anno in tour in Europa dal 1984, facendo lì più di 1.000 concerti", procede ad aprire un nuovo capitolo nel suo argomentare ricordandoci il fatto che "i fondi pubblici europei hanno sostenuto le musiche più ardite degli Stati Uniti sin dai tempi di Louis Armstrong". Aggiunge: "L'idea che sta dietro il sostegno pubblico europeo alle arti (...) è una dottrina chiamata "l'eccezione culturale europea", un insieme di politiche governative basate sull'idea che, persino in un'economia di mercato, l'arte/la cultura devono essere trattate in modo diverso dalle altre merci".

Ma ultimamente ha notato un cambiamento: "Quando negli anni ottanta ho iniziato a suonare regolarmente in Europa i programmi dei festival sembravano un elenco di musicisti statunitensi, per buona parte di New York. Oggi siamo inclusi meno di frequente, e a volte per nulla. Le ragioni di ciò sono complesse: un riconoscimento fin troppo tardivo di eccellenti artisti europei; l'erosione del mercato "jazz/new music" da parte della "world music;" l'euro/nazionalismo; l'avversione politica nei confronti degli Stati Uniti; e il graduale sbiadire delle condizioni storiche che hanno prodotto l'enorme popolarità di jazz/new music statunitense".

Nel frattempo, "Al confine rock/pop del margine sperimentale un altro tipo di sostegno è adesso raro. Le grosse case discografiche una volta erano disposte a investire in musica che godeva del rispetto critico, anche se non era redditizia come il pop mainstream. Cecil Taylor, Ornette Coleman, John Zorn, The Lounge Lizards e l'autore a un certo punto incidevano tutti per delle major", ma per tutta una serie di ragioni che il suo scritto esamina estesamente questo non avviene più.

E adesso che si fa? Le soluzioni di Ribot possono essere giudicate solo dopo una lettura attenta del suo articolo. E' comunque possibile dire che in buona sostanza tutto conduce a una situazione in cui i musicisti dell'avanguardia chiedono un intervento pubblico, in qualsivoglia guisa ciò possa avvenire. Il manifesto della coalizione citato in precedenza va senz'altro in quella direzione. Non c'è nulla di male in ciò. Ma a questo punto ci sono un paio di cose cui vorremmo brevemente accennare.

Ribot ha ragione a proposito di John Cage. Ma quella è solo la metà della storia. In quei giorni l'Accademia esisteva davvero, ed esercitava un monopolio virtuale in un sistema che "certificava" il fatto che un musicista avesse le qualità giuste per essere un potenziale destinatario dei fondi che era possibile ricevere nei modi appropriati. Quel sistema era, essenzialmente, chiuso, con possibilità di ammissione solo per pochi. Ma oggi chi è un musicista "avant-garde"? Dipende dalla persona alla quale lo chiediamo. Potrebbe essere un DJ, un suonatore di kora, un ragazzino con un laptop, perfino qualcuno che è primo in classifica ma che fa qualcosa... beh, di diverso. Che in una situazione come quella attuale qualunque persona che si autocertifica come "avant-garde" possa sperare di avere accesso a uno status certificato comparabile a quello di John Cage è assolutamente fuori discussione.

Per molto tempo Wynton Marsalis è stato attaccato da tutte le parti per la sua visione della musica, dell'eredità culturale e di tutto il resto. Ma la sua strategia ha funzionato: presentando un passato riconoscibile che poteva essere definito quale "ancora con noi", di cui si poteva godere e che poteva (in un senso molto specifico) "essere migliorato", Marsalis ha usato una definizione di "cultura" che poteva ottenere fondi.

(Non si può fare a meno di notare che non pochi membri della "avant-garde" sono baby-boomer che, si può immaginare, hanno ora di fronte la prospettiva - l'incubo? - di dover mandare i figli all'università. Potrebbe essere che... No, non scendiamo così in basso.)

Dobbiamo dire che è ormai da circa dieci anni che abbiamo iniziato a percepire un netto spostamento dei musicisti "avant-garde" in direzione di un approccio di tipo "sovvenzionato", in opposizione a quello "basato sul mercato". Come se le loro priorità fossero cambiate, o come se essi avessero abbandonato ogni speranza che le cose potessero cambiare in meglio. Questo ovviamente non implica necessariamente un giudizio sfavorevole nei confronti della musica da loro suonata, che potrebbe perfino essere migliore. Ma non riusciamo a scacciare la triste impressione che, mentre trattano con disprezzo "il mercato", (certamente alcuni) tengono d'occhio un diverso tipo di mercato. A volte è strano leggere di tutti i diversi gruppi che il musicista X ha, tutti pronti per andare in tour - sembra di leggere il menu di un ristorante. E tutti (beh, di certo più di qualcuno) continuano a pubblicare CD che nessuno ascolterà mai, con il numero degli ascoltatori che scende sempre di più a fronte di un numero di CD che non è mai stato più alto. E quando si arriva a trovare una rivista con più di 150 CD recensiti in un solo numero, la maggior parte di gente che non si ha neppure la minima idea di chi sia, la maggior parte dei quali vengono detti essere "molto buoni, se non addirittura eccellenti"... beh, è il momento di dire basta!

Nella nostra veste di consumatori, troviamo sempre meno da leggere. Di questi tempi quando ci capita di leggere interviste a musicisti (inclusi non pochi la cui musica ci piace) ci accorgiamo che sempre di più esse sono prive di reale passione e dedizione - come se pensassero che a parlare con la stampa sprecano il loro tempo. Ovviamente potremmo avere torto, ma dato il fatto che non esiste più alcun "centro", e con ormai nessuna speranza di poter convincere qualcuno a comprare un loro CD ("hai detto "scaricare""?), ormai è come se preferissero parlare con qualcuno che può procurare loro un po' di concerti, o forse una commissione.


© Beppe Colli 2007

CloudsandClocks.net | Apr. 24, 2007