L'enigma Faust
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di Beppe Colli
Dec. 21, 2005



(Scritto quale presentazione e commento a Faust - The Wümme Years - 1970-1973, il cofanetto edito dalla Recommended Records, questo articolo è apparso sul # 30, novembre 2000, del mensile italiano Blow Up.)



"Ma interessano ancora a tal punto, i Faust?" Saremo sinceri: è stata questa la prima cosa che ci è passata per la mente quando alcuni mesi fa ci è giunta la notizia che era stato messo in cantiere un cofanetto dedicato al gruppo tedesco. Ci affrettiamo a precisare che i motivi della nostra perplessità non derivano certo da scarso apprezzamento per la produzione discografica del gruppo, uno dei nostri preferiti in assoluto dal giorno in cui acquistammo una copia import (erano 650 in tutto, se vogliamo prestar fede alle cifre ufficiali dell'epoca) del loro innovativo album d'esordio: un lavoro che si annunciava originale e fortemente atipico già a partire dal ben noto aspetto grafico. Ancora minori, se possibile, le nostre perplessità riguardanti il contributo fornito dai Faust allo svilupparsi di un'estetica. Senz'altro numerosissimi gli attestati di stima espressi nei confronti del gruppo da parte di musicisti che di quegli insegnamenti asserivano di aver fatto tesoro. Fin troppo facile, poi, prevedere l'appeal esercitato da un cofanetto che immaginavamo ben curato nei confronti di chi conosceva poco o nulla i Faust e di coloro i quali avessero mancato l'appuntamento con le (tutt'altro che economiche) ristampe giapponesi dei primi due album in formato CD o con qualcosa delle puntate successive. E allora?

Lo diremo con estrema chiarezza: se c'è un gruppo la cui storia è ancora oggi misteriosa, opaca e (deliberatamente?) omissiva, ebbene questi sono i Faust - un gruppo a proposito del quale non conosciamo (letteralmente) quasi nulla. Parlare dei Faust, oggi, vuol dire innanzitutto ammettere quanto poco in realtà si conosca. Giunti a questo punto del discorso ci pare quasi di vedere l'espressione incredula del lettore: "Ma come?! Dopo tanti articoli, profili, recensioni, discussioni, ascolto dei dischi... quasi nulla?!" Ci si conceda il punto solo per pochi istanti, giusto per comodità di argomentazione, intanto che riflettiamo su una questione di carattere più generale: quanto sono vere le nostre idee sulla musica e i musicisti? Attenzione: qui non ci si intende riferire alle impressioni soggettive "a pelle" ("le nostre") della musica, arte che rimane sempre (in un senso rigoroso del termine) "inspiegabile", ma al fatto che - da un libro all'altro, da un articolo all'altro - passano innumerevoli semplificazioni, inaccuratezze e distorsioni che poi sedimentano in un'immagine "dura"; la qual cosa è ancor più grave oggi, quando dopo le troppe "canne di postmodernismo" l'unica convinzione che sembra essere certa è l'uguale plausibilità di ogni punto di vista. Non scomoderemo Paul Feyerabend, ma la diminuita importanza dei concetti di "verità" e di "fatto" ci pare indubitabile. Non vorremmo dare l'impressione di stare parlando del sesso degli angeli, quindi facciamo un bell'esempio. Lo scorso anno è stato pubblicato il cofanetto di materiali beefheartiani intitolato Grow Fins. L'importanza di questo cofanetto, lo ricordiamo, stava nell'offrire registrazioni e testimonianze inedite che avrebbero dovuto sollecitarci a fare i conti con le nostre idee (probabilmente poco rispondenti al vero) a proposito di Captain Beefheart, dei suoi musicisti e della sua musica. Ebbene, è stupefacente osservare quanti articoli scritti dopo l'apparizione del box (e a proposito del box stesso!) avrebbero potuto tranquillamente essere stati scritti - tali e quali - prima. Il "punto di vista" non è cambiato? O non sarà invece che continuare a scrivere quello che si è sempre scritto non richiede alcuna fatica aggiuntiva? A fronte di chi decide di mettere la sordina alla rilevanza dei "fatti" diremo che proprio questa posizione è indubitabilmente un "fatto".

Avevamo lasciato da parte la questione "misteri & oscurità": ci tocca adesso l'onere della prova. Cominciamo dal principio: come si formarono i Faust? Qui non c'è che l'imbarazzo della scelta, da "gruppo in cerca di un contratto" a "casa discografica che crea un organismo in provetta", con il produttore ad assumere i ruoli più vari a seconda del copione prescelto. Due album per la Polydor e poi la rottura: perché? Qui la risposta più logica è: vendite magre. Ma se è vero che ci furono gruppi tedeschi che all'epoca vendettero di più è altrettanto vero che ce ne furono altri che vendettero molto meno senza patire le stesse conseguenze. Poi il contratto con la Virgin e il lancio in grande stile di Faust Tapes, messo in vendita al prezzo di un singolo (48p): sembra certo che venne esaurita l'intera tiratura, pari a centomila copie. Poi Faust IV. Poi fine della corsa. Anche qui le scarse vendite, da sole, non spiegano. Da non dimenticare inoltre che i Faust, lungi dall'essere un gruppo misconosciuto, godevano di ampia stima da parte di critici francesi, italiani e di non pochi bei nomi nella decisiva Inghilterra: ricordiamo, tra gli altri, personalità decisamente influenti quali John Peel e Ian MacDonald del New Musical Express. Il lettore tenga bene a mente il nome di Ian MacDonald: lo ritroverà infatti citato nel libretto che accompagna il box, a proposito di un episodio molto divertente e che quindi non sveliamo per non sciupare il gusto della sorpresa. Chi riuscirà a procurarsi una copia originale di Faust Tapes potrà anche leggere un bell'articolo di Ian MacDonald risalente al Marzo del 1973 e che venne riprodotto sulla copertina unitamente a contributi di altri critici: una serie di scritti che costituisce la migliore smentita delle varie leggende a proposito dei "gruppi la cui importanza non fu all'epoca ben compresa" ecc.

Ribadiamo: qui da noi i Faust erano molto popolari; trovare in casa di un amico una copia di Faust IV - il primo album, ricordiamo, a essere stampato in Italia - era un evento tutt'altro che raro. Ma dopo quel disco il gruppo tedesco parve essersi volatilizzato. Qualche tempo dopo alcuni periodici musicali pubblicarono una notizia che nell'infuocato clima ideologico dei tempi non poteva non avere l'effetto di una bomba: i Faust erano nazisti! La Virgin aveva quindi scisso il contratto. Stupore e costernazione oltre ogni dire. Ragion per cui quando nell'estate del '75 ci trovammo a Londra decidemmo di recarci negli uffici della Virgin, ai tempi non poco spartani, per tentare di chiarire un fatto che personalmente ci bruciava non poco. Giunti a destinazione fummo praticamente costretti, in cambio di una pastarella a dire il vero squisita, a tradurre recensioni su Gong, Hatfield & The North, Robert Wyatt e Steve Hillage, a riprova di quanto per la Virgin il mercato italiano fosse allora interessante. I Faust, ci fu detto con accettabile chiarezza, non erano affatto nazisti - ma dal temperamento difficilmente gestibile sicuramente sì. (Fu proprio in quei giorni che vedemmo i Kraftwerk: che dire? Ancora privi della leggenda che si è poi depositata sul loro nome non ci parvero affatto questa gran cosa. I Van Der Graaf, invece... ma non divaghiamo.)

A quel punto dei Faust si era definitivamente persa ogni traccia: non restava che continuare ad ascoltare quei vinili ormai un po' stanchi dove un originalissimo e profondo lavoro elettronico si mescolava a elementi di musiche jazz, folk e classiche, a evidentissime tracce zappiane, a canzoni ora sarcastiche ora di incredibile delicatezza e poesia; quegli squarci maestosi che all'improvviso si aprivano dentro intricate giungle ritmiche; quei momenti di densa (e mai piagnucolosa) malinconia - com'è triste la chiusa di Krautrock! (Faust IV) E che strano quell'organo filtrato, così sommesso e discreto, mentre la chitarra classica aspetta paziente, in conclusione di On The Way To Abamäe (Faust So Far). A poco a poco scoprivamo appieno di quale complessità e spessore fosse l'eredità che il gruppo ci aveva lasciato. Il progredire dei sistemi di ascolto a disposizione ci consentiva nel frattempo di imparare a percepire quelle sfumature timbriche, quelle proporzioni così originali nei missaggi, quelle prospettive spaziali che - anche in conseguenza di un inferiore grado di maturità dell'ascolto - ci erano dapprima sfuggite. Comportamento tipico? Chi può dirlo. Sappiamo solo che - '78? '79? - nel momento in cui decidemmo di sostituire la nostra copia di Faust IV ci bastò una telefonata. Non altrettanta fortuna, invece, con i due Polydor e Faust Tapes.

Il lungo cammino della rivalutazione dei Faust che vede oggi quale punto d'arrivo il cofanetto dedicato al gruppo ha inizio nel...? Diciamo che già nel 1973 Chris Cutler aveva diviso il palco con la formazione tedesca: anche gli Henry Cow, infatti, incidevano per la neonata Virgin e quindi i due gruppi "affini" vennero mandati in tour in tandem. Peter Blegvad alla chitarra e Uli Trepte ai marchingegni elettronici rimpiazzavano in quell'occasione gli assenti Rudolph Sosna e Joachim Irmler. Cinque anni più tardi, fondata la Recommended Records, Cutler decise che accanto alle uscite di nuovo materiale sarebbe stato compito dell'etichetta ristampare album di grande pregio ma da tempo ormai fuori catalogo e che altrimenti, in considerazione del loro scarso appeal commerciale, sarebbero rimasti per sempre ignoti alle nuove generazioni di ascoltatori. Seguirono Faust Tapes e i due dischi successivi contenenti materiale in buona parte inedito, Munic & Elsewhere ('86) e The Last LP ('88). A quel punto la Virgin, che si era ben guardata dal ristampare alcunché, decise di pubblicare in formato CD Faust IV ('92) - com'è ovvio senza aggiungere i testi, che possiamo garantire sarebbero sicuramente apparsi se la ristampa fosse stata effettuata dalla piccola etichetta. Fatto curioso: sulla copertina di questo CD è sparita la dicitura "Special equipment and sound engineering by Kurt Graupner" - e anche diverse altre cose. Vogliamo aggiungere questo fatto alle stranezze di cui sopra?

Che dire del rapporto tra i Faust e Zappa? Crediamo che all'epoca dei fatti i punti di contatto fossero decisamente evidenti per chiunque ascoltasse musica rock in tutte quelle forme che più si allontanavano dai sentieri maggiormente battuti - un numero tutt'altro che esiguo, ricordiamo. Ovviamente man mano che la conoscenza approfondita dei materiali in questione diviene fatto meno usuale è giocoforza che percepire la presenza di certi fili diventi molto più difficile. Qui ci basta ricordare l'enorme influenza che i primi album zappiani ebbero su tutta la scena europea su ambedue i lati della Manica. Pensiamo innanzitutto all'uso così innovativo fatto da Zappa dello studio di registrazione, delle sue apparecchiature, delle possibilità consentite dall'impiego fisico del nastro (montaggi, dissolvenze, incroci) e dei mutamenti del senso del possibile che ne derivano, su album quali Lumpy Gravy e We're Only In It For The Money. In questa accezione diremmo senz'altro i Faust un gruppo che non può non annoverare Zappa tra i suoi maestri. Ma proviamo a indicare qualche esempio di tracce zappiane intese in un senso maggiormente idiomatico. Che dire della chiusa di Faust So Far, ...In The Spirit: non ci richiama forse per climi e funzione la America Drinks And Goes Home posta alla fine di Absolutely Free? Oppure si ascolti la traccia 16 su Faust Tapes: non è un omaggio manifesto - in alcuni momenti al limite della citazione letterale - al capolavoro chitarristico di Uncle Meat, Nine Types Of Industrial Pollution? Ascoltiamo l'attacco di Giggy Smile (Faust IV) e poi l'assolo di sassofono - incluso l'accompagnamento della ritmica e gli strappi chitarristici che sembrano riecheggiare un piano Fender - e accostiamo il tutto a King Kong (di nuovo Uncle Meat). Notiamo che molto spesso gli assolo di sassofono nei Faust sembrano quasi un incrocio tra i sassofonisti zappiani Ian Underwood e Bunk Gardner; il secondo viene a volte richiamato anche per ciò che riguarda le parti di sassofono trattato.

Nel cofanetto c'è tutto ciò che è logico aspettarsi ci sia - poco plausibile attendersi chissà quali rivelazioni sonore a proposito di un gruppo del quale era stato pubblicato quasi tutto il pubblicabile. C'è l'affresco cangiante, dal suono ampio, di Faust - notiamo che ai testi sono state aggiunte molte parti in tedesco mancanti nell'originale, mentre viene finalmente trascritta quella frase gridata dopo il frammento di All You Need Is Love: "but we're only six on that wall, just keep on waiting". C'è Faust So Far, con le sue atmosfere più concentrate. C'è quel mosaico di ben nota creatività che è Faust Tapes, per la prima volta con tutti i testi: veniamo così a scoprire di avere erroneamente canticchiato per tanti anni "it's a woman colour" invece di "it's a warming colour" - è la track 3, ora intitolata Flashback Caruso. 71 Minutes raccoglie come d'abitudine i brani già presenti su Munic & Elsewhere e The Last LP. L'ultimo CD, intitolato BBC Sessions +, si apre con i tre brani registrati nel '73 e apparsi su un vinile in tiratura limitata di quattro anni fa - The Lurcher, Kraut Rock e Do So - prosegue con tre inediti della serie Party, ripesca Party 1 e con enorme gioia di chi scrive We Are The Hallo Men, ambedue rimaste fuori da 71 Minutes per problemi di minutaggio, per poi offrire in chiusura versioni alternative delle già note So Far e Meer. Per tutti i brani cantati inclusi nel cofanetto viene adesso fornita l'indicazione su chi sia la voce solista. E poi c'è il libretto.

Per molti anni ci siamo chiesti che fine avessero fatto i Faust. Le tentammo tutte: telefonate, lettere, sempre con lo stesso risultato - "The members of Faust seem to have disappeared". Il ritorno del "marchio" sulla scena concertistica e discografica ci lasciò perplessi: prima due elementi, poi tre, poi nuovamente due. Ultimamente, poi, voci attendibili riguardanti aule di tribunale e musicisti ai ferri corti non lasciavano sperare nulla di buono per quanto riguardava l'accertamento della famosa "verità". Nel frattempo ci eravamo chiariti le idee su chi avesse suonato cosa sui dischi del gruppo, un aspetto prima tutt'altro che chiaro - i due album Polydor elencavano i nomi e basta, i due Virgin nemmeno quelli, enciclopedie discretamente attendibili per ciò che riguarda questo genere di cose arrivate ai Faust toppavano clamorosamente. Arnulf Meifert e Werner "Zappi" Diermaier erano i batteristi, Jean-Hervé Peron il bassista, trombettista e cantante; Joachim Irmler, da noi sempre immaginato come "il tastierista" del gruppo, suonava in realtà solo l'organo. Proprio due elementi che oggi mancano all'appello si rivelavano personalità decisive: Gunther Wüsthoff, "il sassofonista", era anche il sintetista e l'uomo dei loop; Rudolph Sosna, chitarrista e cantante, suonava anche quasi tutte le parti di piano (ed è lui a produrre il suono "elettronico" sulla seconda facciata di Outside The Dream Syndicate di Tony Conrad). Ecco come nel libretto lo descrive Peron: "(...) Rudolph - adesso, dopo tanti anni, capisco che Rudolph era molto, molto importante per i Faust. Sai che è morto, no? Morì pazzo, perché era un genio. Lui era tutto, lui era la voce; componeva canzoni - belle canzoni; suonava il piano, conosceva tanto della musica."

La morte di Sosna non è stata che la prima delle sorprese incontrate durante la lettura del libretto. Vengono intervistati Peter Blegvad, Peron, Irmler e per la prima volta in assoluto il produttore Uwe Nettelbeck e il tecnico del suono Kurt Graupner. Dire che le versioni della maggior parte dei fatti non coincidono affatto è un eufemismo - a proposito del concerto all'Hamburger Musikhalle le versioni sono tanto diverse da sfidare il lettore. E non è che l'inizio: le origini del gruppo, le modalità di incisione del primo album, la posizione nei confronti dell'etichetta, il tour inglese, la Virgin... tutto: un mosaico i cui pezzi si rifiutano ostinatamente di combaciare. A tratti pare quasi di vedere l'intervistatore (Chris Cutler) trattenersi dal fare un salto di stupore (siamo abbastanza certi, comunque, che da perfetto Holmes l'inarcarsi di un sopracciglio sarà stata la sua reazione più visibile). Non mancano poi stranezze aggiuntive - a proposito dell'intervista con Uwe Nettelbeck Cutler scrive: "Parti di questa intervista sono complicate e non in perfetto inglese - ma Uwe ha insistito che dovesse essere usata esattamente così com'è - o non avremmo potuto usarla! Ci spiace." E potremmo andare avanti ancora per molto, spazio permettendo, ma non vogliamo sciupare al lettore il piacere di tentare di venire a capo di questo enigma ("proprio come Rashomon", ci è stato suggerito). Chi scrive ha letto il tutto una mezza dozzina di volte e non si è ancora stancato. (Ah! C'è anche - crediamo! - la soluzione ai nostri interrogativi sul fallimento commerciale dei due album Polydor: mancato appoggio distributivo derivante da un conflitto tra la "sezione internazionale - che li aveva messi sotto contratto "forzando il proprio ruolo" - e la "divisione interna".)

Dice niente il nome di Kurt Graupner? Citiamo Cutler: "Quando sono andato a far rimasterizzare alcuni di questi nastri il tecnico dello studio con il quale stavo lavorando mi ha chiesto: 'chi è che ha registrato questo? Non ho mai visto nulla di simile.' Quando gli ho detto che era stato fatto nei primi anni '70 ha scosso la testa." E ancora: "In vista di questo box è sembrato decisivo parlare con il loro tecnico e costruttore di apparecchiature - l'uomo responsabile del loro suono e di molte tecniche sperimentali nonché di tutte le attrezzature "su misura" che definiscono il progetto di Wümme. Non è mai stato intervistato prima, e come tutti i tecnici del suono il suo contributo è rimasto non riconosciuto, o è stato dato per scontato da giornalisti e recensori che hanno scritto peana nei confronti dei Faust." Diremmo che può bastare. Già da una prima lettura il contributo di quest'uomo al "suono Faust" emerge in tutta la sua evidenza: l'invenzione di sistemi di delay ("Ricordo un pezzo dove Jochen l'ha usato per moltiplicare il suo organo tramutandolo in uno stormo di gabbiani che si muovevano nello spazio" - provate ad ascoltare No Harm, da Faust So Far, da 1' 50" a 2' 04"), la costruzione di scatole multieffetti di enorme ingegno funzionale lunghe un metro, l'uso degli effetti ("Tutti i trattamenti erano praticati dal vivo. Qualcuno suonava uno strumento, io aggiungevo un delay, o il riverbero - o qualche filtro speciale per ridurre certe frequenze e amplificarne altre - e questo veniva rimandato indietro alle loro cuffie. Quindi loro interagivano direttamente con il suono manipolato per creare nuovi materiali musicali. Quindi i trattamenti sul suono non erano aggiunti in seguito ma costituivano parte integrante della musica. I nastri giravano in continuazione e io missavo sempre i nostri esperimenti live su due tracce. In seguito sceglievamo certi passaggi e li rielaboravamo."), il sistema delle cuffie usato dal gruppo in concerto... Potremmo continuare a lungo ma siamo certi che il lettore amerà condurre da sé questa affascinante esplorazione per poi riascoltare tutti gli album con orecchie nuove.

Cosa sarebbe successo se i Faust avessero proseguito nel loro cammino? Impossibile dirlo. Certo è forte la tentazione di definire il lavoro realizzato a Wümme come il risultato di una serie di componenti nessuno dei quali sostituibile. La cronologia dell'ultimo periodo ci mostra un gruppo poco motivato, forse disilluso, forse altro. Le session per Faust IV furono di certo strane, con Kurt Graupner a lavorare in uno studio tecnicamente poco personalizzato (e nel quale fu visto come un intruso?) e con il gruppo poco presente - "forse un'ora al giorno, e di rado più di due di loro contemporaneamente" secondo Uwe Nettelbeck (ma per chi scrive Faust IV è un disco stupendo - accostiamolo a So Far). Le ultime session in ordine cronologico - Munic/Yesterday e Don't Take Roots, registrate negli studi Arabella di Monaco - non sono certo rivelatrici. In conclusione ci piace ricordare l'incredibile somma di fattori che hanno contribuito a produrre la splendida musica dei Faust: una casa discografica che nello spirito dei tempi "ci volle provare" finanziando un progetto che oggi parrebbe assurdo (uno studio messo su di sana pianta, a disposizione ventiquattr'ore su ventiquattro, per un gruppo che era solo un'entità nebulosa), un ex giornalista diventato produttore che si trovò a indossare molti cappelli, un tecnico formidabile e irrimediabilmente sobrio nel bel mezzo di un ambiente tutt'altro che morigerato, lo studio che per anni funse da laboratorio e alcuni superbi musicisti. Citiamo ancora Uwe Nettelbeck: "Branson mi firmò un assegno che non mi fu possibile incassare, forse lo annullò, e immediatamente mollò i Faust, perché - pur scemo com'era - possedeva quello specifico istinto che è indispensabile per diventare ricchi. Sapeva per certo che non avrebbe potuto gestire Zappi e gli altri, nemmeno per un minuto. Condannati a fare la loro strada, come tutti i veri artisti, verso regioni sconosciute a Branson e ai suoi simili, infantili com'erano, come in un certo senso devono esserlo tutti i veri artisti, dediti a un mondo tutto loro, erano del tutto al di fuori della sua meschina portata."


© Beppe Colli 2000 - 2005

CloudsandClocks.net | Dec. 21, 2005