2013
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di Beppe Colli
Jan. 1, 2014



Com'è loro abitudine sul finire dell'anno, Manohla Dargis e A. O. Scott - le firme più importanti del quotidiano statunitense The New York Times per quanto riguarda il cinema - hanno pubblicato due articoli aventi per oggetto i film da loro maggiormente apprezzati nel corso dell'anno; una trattazione ovviamente situata all'interno di una prospettiva culturale di carattere più generale.

E se è vero che gli interventi dei due critici sono sempre prevedibilmente acuti e degni di attenzione, diremmo quelli di quest'anno particolarmente stimolanti. Pubblicati in data December 11, 2013, gli articoli in questione sono intitolati The Festival World, And What's Beyond (quello della Dargis) e Feasts For The Eyes, 1,001 Nights' Worth (quello di Scott). (Chi fosse interessato può fare riferimento anche al lungo articolo di Scott apparso sul magazine del New York Times in data November 25, 2013 con il titolo di The Big Picture Strikes Back.)

Dando per scontato che si tratta di interventi che meritano di essere letti per intero, citeremo un passo dal pezzo di Scott che crediamo possa essere utile quale punto di partenza per quanto ci accingiamo a discutere.

"(...) Chi esprime il suo dispiacere per la morte o la vecchiezza del cinema non presta a esso la dovuta attenzione. (...) L'arte del cinema è fiorente. (...) E' ovvio che da un punto di vista economico lo stato di salute del cinema è sempre stato precario, ma oggi sembra esserci un divario crescente - potremmo chiamarlo un fossato - tra la qualità del lavoro che viene prodotto e la quantità di calore con cui esso viene accolto. (...) Ci sono molte ragioni per cui le cose vanno così. (...) Ma (...) sarò schietto. Il problema siete voi. Una forma d'arte vitale ha bisogno di un pubblico partecipe - un pubblico scettico che non si accontenta e che possiede la capacità di entusiasmarsi - in grado di assicurarle un futuro economicamente solido e di incoraggiarne lo sviluppo estetico."


Ci trovammo a leggere per la prima volta del lavoro di David Mamet nel momento in cui il suo Speed-the-Plow stava per andare in scena. Era la fine degli anni ottanta, e la rivista sulla quale leggemmo quel lungo servizio era la statunitense Interview (per i pignoli: Andy Warhol's Interview). Non era difficile capire che il motivo principale per cui quel lavoro riceveva una così ampia attenzione era da individuare nella circostanza che vedeva Madonna fare lì il suo debutto in veste di attrice teatrale. Qualunque la ragione, il risultato fu che alcuni anni più tardi - quando il lavoro di Mamet intitolato Oleanna fece tanto parlare di sé, anche per il fatto davvero poco comune di un pubblico che in teatro rumoreggiava e si divideva parteggiando ad alta voce per l'uno o per l'altro dei protagonisti (una circostanza destinata a ripetersi anche nei teatri del Regno Unito, dove il lavoro fu messo in scena per la regia di Harold Pinter) - quello di Mamet non era più per noi un nome ignoto.

E fu proprio l'accesa reazione del pubblico a farci pensare per la prima volta dopo tanti anni che il teatro poteva ancora essere una forma d'arte vitale in grado di incidere sul presente.

Pur sempre quantitativamente minima, grazie all'esistenza di Internet e alla possibilità di accedere a quotidiani come il New York Times la nostra conoscenza di cose teatrali non è oggi pari a zero come in passato.

L'interrogativo che poniamo è il seguente: quando pensiamo al teatro, pensiamo a esso come una forma d'arte che oggi è viva e vitale? Detto diversamente: se oggi ci viene chiesto di fare il nome di una forma d'arte viva e vitale ci viene in mente il teatro?


Come già estesamente argomentato nel pezzo da noi scritto in occasione del decimo anniversario di Clouds and Clocks intitolato Dieci anni, è da un po' di tempo che al momento del classico "bilancio di fine anno" ci capita di ritrovarci quasi increduli a pensare alla pochezza di gran parte di ciò che abbiamo ascoltato nel corso dell'anno. Ovviamente non mancano mai gli album belli, alcuni dei quali anche notevoli per l'uso fatto di questo o quel linguaggio musicale. Resta però sempre una certa insoddisfazione di fondo, la consapevolezza di qualcosa di mancante. Una sensazione che diventa di schiacciante evidenza quando belle musiche di un tempo andato - un buon esempio recente essendo la ristampa del catalogo zappiano che ha avuto luogo nel 2012 - ci costringono a confronti impietosi.

E le prospettive diventano di giorno in giorno peggiori. Si potrebbe dire che per incidere il primo album gli Henry Cow hanno impiegato tre settimane, e partire da lì per fare dei conti di fattibilità. Quello che non viene detto - e chissà quanti sono oggi in grado di capirlo da soli - è che dietro quelle tre settimane ci sono decenni. Anni passati a studiare uno strumento, a padroneggiarlo da un punto di vista tecnico, a trovare e inventare tecniche esecutive, a sviluppare un linguaggio compositivo personale, a creare un "suono di gruppo" originale e riconoscibile. Quante entità collettive diremmo rispondere oggi a un simile identikit?


Da quanto detto segue che interrogarsi sullo "stato della musica" traendo conclusioni negative non implica necessariamente negare l'esistenza di cose nuove e valide - né la questione "stato della musica" si identifica con le condizioni economiche che rendono crescente lo sbilancio derivante dallo "scenario digitale".

Epperò quelle condizioni pesano, e sembrano indicare situazioni senza ritorno. Come ci è stato fatto notare di recente, oggi nessuno trova strano pagare dieci euro per una birra, mentre pagare dieci euro per un CD sembra alla gran parte di noi un'idea assurda. Ci sono poi le conseguenze ultime del multitasking, con il pubblico dei localini allegramente assiepato per strada a bere e conversare amabilmente mentre all'interno un gruppo è intento a suonare in una sala vuota.

Ci fu un tempo in cui astuti commentatori sostenevano che i musicisti si sarebbero dovuti mantenere facendo concerti e vendendo magliette, ché il CD non costituiva più una possibile fonte di guadagno. E in effetti per gente come i Rolling Stones è proprio così che è andata. E gli altri? E quando il pubblico diventa così poco numeroso - e soprattutto, così aleatorio in quanto a presenze - da rendere poco sensato per un gruppo l'acquisto di carburante per un concerto da fare in un raggio d'azione che va oltre i 150 km.? "Ci sono Internet e lo streaming". Per vendere cosa?

La questione è stata massimamente devastante per il jazz, laddove vendite scarse trovavano un tempo il giusto complemento nei celeberrimi "concerti europei" regolarmente sovvenzionati con soldi pubblici. Ma ora che le sovvenzioni scarseggiano, il pubblico dei concerti scompare e i CD non si vendono più? Notiamo un ricorso crescente a formule di finanziamento diffuso quali Kickstarter, e ben venga la possibilità di realizzare lavori finanziati in tal modo. Poi, fatto il CD...?


Il discorso che stiamo facendo ha quale presupposto una cosa che qui diamo per vera: la crescente diminuzione della qualità di gran parte della musica.

A voler prestar fede a quello che si legge in giro il panorama musicale odierno sembrerebbe invece essere un regno di strepitosa creatività. Va da sé che un giornale che dichiarasse che le cose vanno disastrosamente male e che la maggior parte delle uscite di cui dà conto (quelle effettivamente trattate, non quelle che si dicono già eliminate ancor prima della partenza) andrebbe classificata alla voce "molto al di sotto della sufficienza" dovrebbe inevitabilmente chiudere bottega causa rivolta di inserzionisti inferociti.

In questi casi il trucco è quello di limitare l'orizzonte all'oggi. "Il meglio dell'oggi" non è nozione che leghi troppo le mani. La cosa è tra l'altro consonante con l'impiego di personale giovane e dalle conoscenze limitate, oltre che di vaga retribuzione, che trova naturale non fare paragoni con quello che non conosce. Quanto agli adulti, possono sempre "fare finta".

La questione collegata è quella dei criteri di qualità. "Pesare" qualcosa vuol dire metterla a confronto con un metro, ma se il metro è una funzione quale "il trastullo del fanciullo" allora qualunque musica si dimostri idonea a fare passare il tempo andrà benone. Qui il metro è puramente soggettivo, al pari dei gusti in fatto di cibo o delle tinte scelte per la tappezzeria di casa.

C'è però un aspetto della questione "gusti" che è serio e che va trattato a parte.


Anche il fatto di apprezzare qualcosa paragonandola ad altro e facendo dei riferimenti alla sua "costruzione" può essere trattato come qualcosa che "in ultima analisi" è anch'essa una "questione di gusto".

Ed è ovvio che una simile "preferenza" non è inquadrabile in uno schema mezzi-fini come l'assunzione di un dato farmaco quale il modo più idoneo per fare cessare un malanno.

Però discutere pubblicamente una "preferenza" facendo ricorso ad argomentazioni razionali è cosa ben diversa dal dichiarare una preferenza come aspetto del gusto situato oltre ogni possibilità di discussione.

La fruizione odierna tende invece a porsi in maniera crescente in una dimensione di puro consumo irriflesso il cui esito non può che essere quello di un'atrofia delle facoltà critiche - qualcosa che l'onnipresenza di piattaforme che richiedono solo giudizi quali "mi piace"/"non mi piace" non tende certo a scoraggiare.


Pur consapevoli di correre il rischio di schiantare un lettore ormai esausto, in chiusura di discorso ci corre l'obbligo di accennare a un ulteriore motivo di insoddisfazione riguardo a quanto da noi ascoltato.

Già fatto riferimento alle nozioni di profondità e novità quali ingredienti indispensabili al nostro pieno gradimento, dobbiamo adesso tirare in ballo una qualità a prima vista paradossale: quella di scala.

Ahimé, da veri boomer anche noi crediamo che l'unico successo che vale davvero la pena di conseguire è quello su scala "beatlesiana" o quasi. Laddove la bontà delle idee - una qualità preesistente - "vale doppio" su scala di massa.

E' indubbiamente una distorsione della ragione - e sarà interessante leggere su questi temi Robert Christgau se, come pare stia avvenendo, "The Dean of the American Rock Critics" scriverà quel libro che il mutare delle condizioni editoriali del suo paese pare in grado di consentirgli di scrivere.

Sono questioni che possono sembrare astratte - qui forse è d'aiuto ripensare ai "tre piani" di Robert Fripp: la sperimentazione solitaria dei Frippetronics, la dimensione dignitosa ma non in grado di cambiare il mondo della League Of Gentlemen e la "massima divisione" dei King Crimson.

Ed è certo paradossale sentire la mancanza di un gruppo di "massima divisione" quando sembra chiaro che ormai non possiamo più permetterci neppure il lusso di avere un settore di "sperimentazione per pochi" in buona salute, se non addirittura fiorente.


Mai come adesso, ognuno è invitato a fare la sua parte.


© Beppe Colli 2014

CloudsandClocks.net | Jan. 1, 2014