Matmos
Centro Zo, Catania
May 22, 2004

Decisamente inaspettata, ci giunge la notizia che in occasione del tour italiano nel corso del quale - così l'annuncio - presenteranno al pubblico il loro lavoro di più recente pubblicazione, The Civil War, i californiani Matmos faranno tappa nella nostra città. Concerto nel solito posto a due passi da casa. Purtroppo anche le condizioni d'ascolto sono quelle abituali: ora d'inizio (non prima di) mezzanotte e mezza, tutti rigorosamente in piedi. A dispetto di alcune perplessità di ordine prevalentemente ortopedico decidiamo subito che l'appuntamento è di quelli che sarebbe sciocco mancare: fresco di massiva esposizione mediatica in seguito a quella collaborazione con Björk (disco e tour) che - è facile scommessa - ne avrà sicuramente accresciuto il già considerevole "trendy appeal", il duo dovrebbe mostrarci quello che è oggi lo "stato dell'arte" di un'elettronica ricca di significati culturali multistrato (o almeno, così ci è capitato di leggere in qualche entusiastico "servizio di copertina"), laddove il "sottotesto" dei materiali campionati si fa brillantemente strada nell'organizzazione musicale, arricchendola (è il caso di A Chance To Cut Is A Chance To Cure del 2001), mentre un polistilismo di matrice schiettamente postmoderna (potrebbe essere altrimenti?) è detto essere alla base di The Civil War.

Nell'attesa del fatidico giorno, un evento puramente casuale - le immancabili "pulizie di primavera" - ci fa tirare giù dagli scaffali alcune annate della rivista statunitense Keyboard non più sfogliate da tempo. Il numero datato November 1983 ci fornisce l'occasione per rileggere la bella intervista di John Diliberto a Otto Luening (qui definito "Founding Father Of Electronic Music"), con i bei ricordi degli studi fatti con Ferruccio Busoni (e del suo saggio intitolato A New Aesthetic Of Music) e della creazione - unitamente a Vladimir Ussachevsky e a Milton Babbitt - del Columbia-Princeton Electronic Music Center (era il 1959).

Una lettura che ci porta a formulare scomode considerazioni su quale sia oggi il senso dell'espressione "electronic music". Se è fin troppo ovvio asserire che i nomi appena citati avevano sotto gli occhi le complesse norme - e l'enorme respiro progettuale - della musica classica del loro tempo (e lo stesso vale ovviamente per Cage), quali i metri utilizzati da chi di quelle norme ignora perfino la trascorsa esistenza? (Curiosamente, in questi tempi che si vogliono postmoderni l'accademia è chiamata come non mai a fornire "valore aggiunto" ai materiali più disparati.) Tutto ciò proprio mentre, se si assumono certe coordinate tecniche, anche un disco di Avril Lavigne può comodamente essere definito "elettronico". E come la mettiamo con coloro per i quali la parola "elettronico" significa solo "ritmico & danzereccio"? C'è da farsi venire il mal di testa. E il mal di testa quasi ci viene per davvero allorché da sotto il mucchio delle riviste spunta la copertina di Keyboard del marzo 1993: una copertina che in occasione della lunga intervista a Keith Jarrett opera di Robert L. Doerschuck ci pone perentoriamente di fronte alla scritta "Reflections On The Death Of Excellence". Qui conosciamo già l'obiezione: "quella che è morta è solo l'idea di eccellenza che aveva Keith Jarrett, non certo 'l'eccellenza'". Contro-obiezione: siamo proprio sicuri di possedere ancora un metro di eccellenza? O non sarà che abbiamo finito per trasferire dalla "pedagogia accomodante" alla creazione artistica quel metro che recita "il ragazzo si impegna, quindi perché pretendere di più"?

Il concerto si apre con la strana esibizione di tre musicisti impegnati rispettivamente a tastiera/chitarra acustica/batteria, chitarra elettrica/tuba, basso elettrico (i primi due andranno di lì a poco a "rimpolpare" - le virgolette sono d'obbligo - la musica di Martin C. Smith e Drew Daniel, i due titolari della ditta Matmos). Dire che il trio in questione ci ha lasciato perplessi vuol dire ricorrere al proverbiale eufemismo: se la musica non sembra minimamente porsi problemi di coerenza e progettualità, le capacità tecniche dei tre sono persino inferiori a quanto sarebbe necessario per rendere appena accettabile il compitino, che risulta così articolato: un primo pezzo che si vorrebbe "a lento sviluppo" ma che in realtà è inerte; a seguire - vera "missione impossibile" - una velleitaria esposizione estremamente semplificata di certi incastri Fripp/Belew; indi, quello che pare essere il giro armonico della beatlesiana Dear Prudence (senza voci né melodia); e qui il pubblico, fino ad allora alquanto sonnolento, fa segno di destarsi dal torpore: applausi divertiti, e facce sollevate; e quindi i tre ripetono - con immutato gusto, e accresciuta grinta - il giro armonico che ha risollevato le sorti della loro performance. E' comunque il batterista l'elemento che più - letteralmente - impressiona: dal timbro sembra un bambino che percuote una batteria giocattolo. A questo punto dovrebbe esibirsi la formazione "dance electro-glamour" Soft Pink Truth, progetto di Drew Daniel. Per motivi imperscrutabili tocca invece ai Matmos.

A dispetto delle anticipazioni, l'apertura con la cannuccia di paglia tuffata in una vaschetta di vetro piena d'acqua ci immette nelle atmosfere di Lipostudio (And So On...), il primo brano di A Chance To Cut Is A Chance To Cure. Una dimensione successivamente confermata dalla elettronica come sfondo a (crediamo!) una gastroscopia. Risulta subito evidente come la musica del gruppo tenda a risolvere le possibili irregolarità nel più comune dei 4/4, mentre la dimensione visiva fornita dai filmati, con il suo distogliere l'attenzione, rende più difficile percepire la sostanziale banalità di timbri e sviluppi, cosa oltremodo evidente in un brano dove le immagini mostrano una mano che interagisce con una "cordiera metallica" (no, non è il "valzer viennese" di For Felix (And All The Rats)). Sconcertante l'esibizione del batterista, le cui timbriche sono senz'altro più banali e impersonali di quelle registrate sul laptop che ha il compito di emettere la gran parte della musica e i video (la presenza di un batterista sembra mirare unicamente allo scopo di "ingannare la mente per il tramite dell'occhio"). La seconda parte dello spettacolo vira sui climi elettronico-popolari di The Civil War, laddove qualche strumento acustico suonato alla bell'e meglio da Martin C. Smith cerca di caratterizzare le sonorità in modo meno monocorde. Qui è fin troppo evidente che è la dimensione compositiva a mancare del tutto, da cui un risultato molto vicino alla genericità esotica di certi documentari. Ci viene in mente la ben diversa maturità dei Biota (per tacere delle risorse timbriche messe in campo dal misconosciuto gruppo statunitense) in un album come Tumble (1989). Ma non c'è più sordo di chi non vuole sentire.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2004

CloudsandClocks.net | June 4, 2004