Looper & John Tilbury
Centro Zo, Catania
Apr. 24, 2006

Si era in gennaio, ed eravamo intenti a scrutare il programma della rassegna di spettacoli organizzata dalla Provincia di Catania denominata Etnafest quando - pur fra tante ricchezze - ci è balzato agli occhi il nome di un musicista che non avevamo mai avuto modo di vedere dal vivo: John Tilbury. Stimato oltre ogni dire, a suo modo una celebrità, il pianista fa parte di quella ristretta schiera di musicisti davvero in grado di arricchire una situazione musicale in una molteplicità di contesti: celebrato interprete di John Cage, Cornelius Cardew e Morton Feldman, dal 1980 Tilbury è parte integrante del molto influente collettivo dedito all'improvvisazione denominato AMM. Il concerto vedrà Tilbury unirsi a Looper - e qui siamo davvero al buio. Mentre l'assonanza di quel nome con la parola loop ci fa propendere (temere?) per la presenza di un laptoppista, la notizia che la musica verrà accompagnata (o fungerà da accompagnamento?) da un video ci fa temere il peggio. Però - ragioniamo - calma: Tilbury è persona oltremodo degna di stima. Decidiamo quindi di fidarci del suo giudizio e del suo buon gusto e procediamo all'acquisto del biglietto: otto euro. Per la circostanza che il tutto avverrà nel famoso "parallelepipedo del rimbombo" - la sala del Centro Zo, che coproduce l'evento - decidiamo di incrociare le dita.

Ci va bene. Innanzitutto (lo anticipiamo) il suono sarà eccellente (ma allora si può!). Poi, Looper si rivela essere un trio formato da ottimi musicisti: il percussionista norvegese Ingar Zach, il violoncellista greco Nikos Veliotis (autore anche della parte video) e il sassofonista svedese Martin Küchen (e qui, una volta conosciuti i nomi dei singoli, la Rete si dimostra un ottimo aiuto). Su un piccolo palco, da sinistra: un piano a coda, un rullante molto ampio e sottile, un violoncello, un sassofono e dei marchingegni di cui sul momento non riusciamo a stabilire l'esatta natura. Della parte video è presto detto: una serie di immagini sovrapposte di (intenzionalmente) problematica intelligibilità; sono immagini di natura religiosa tratte dalla Rete - da cui il titolo del programma: Mass; ma il risultato finale ci vede perplessi; e non ci aiutano le note del programma di sala, in puro stile "Arte".

Date le premesse, dire "piano preparato", "esplorazione del suono", "microfoni a contatto" è solo ovvio. Si comincia in (quasi) completo silenzio, con Tilbury intento a mettere degli oggetti sulla cordiera del pianoforte. Parte Ingar Zach, che con un archetto tira fuori dei suoni insospettati dal legno del suo rullante; l'esplorazione del "particellare" - della grana del suono - è ovviamente la "materia prima" della musica, con il violoncello a produrre suoni di difficile decidibilità, il pianoforte con echi e glissati, il sassofono con dei "soffiati" e delle "messe in vibrazione" (anche di quello che ci è parso essere un foglio di stagnola). La musica fluisce con un buon grado di libertà, ma per nulla arbitraria. Anzi, in più di un punto ci è parso di cogliere dei brandelli tematici - in particolare, una frase del sassofono poi ripetuta dal pianoforte - che parevano davvero essere scritti. Silenzio (nella musica), tanto. Un'ora che è passata via senza nemmeno darlo a vedere, e in cui è stato bello affidarsi a dei veri virtuosi dotati di logica impeccabile. Ovvio il dispiacere per gli assenti, che hanno perso la possibilità di cogliere nel suo farsi una musica improvvisata di superiore qualità di pensiero, tanto lontana da quel "tutto va bene" che per molti (anche per qualche musicista che la suona!) è tuttora sinonimo di "improvvisazione".

Sarebbe bello poter dire che il concerto è stato davvero così. E non è che non lo sia stato: lo è stato, in un senso "ideale". Cioè a dire, è quello che è successo per la parte riguardante la musica. C'è però un fattore che mai come stavolta è entrato - prepotentemente e a gamba tesa - in gioco: il pubblico.

Dati i nomi non propriamente celebri, non siamo certo stupiti nel vedere che la pianta al botteghino presenta dei vuoti, né che c'è chi sta procedendo ad acquistare il biglietto proprio a ridosso dell'inizio del concerto. Si spengono le luci. Però arriva ancora gente. E poi dell'altra ancora (dopo uno scambio di battute con la maschera che risponde "sì, sì"). Pazienza. Tilbury appare imperturbabile. Pochi minuti di musica, e la quantità di colpi di tosse ci fa temere per un attimo l'avvenuto arrivo dell'aviaria. Poi ha inizio l'esodo: prima due, poi altri due abbandonano la leggendaria "tribuna estraibile con scale di legno". La concentrazione, ammettiamolo, ne soffre. Poi va via dell'altra gente. Ed è lo stillicidio l'elemento che più sorprende: se è fin troppo ovvio che la musica è quella, perché attendere "per vedere se cambia"? I musicisti continuano a suonare. Va via un gruppo consistente, con effetto del tipo "la mandria va in città". Altri rimangono e parlottano e ridacchiano tra loro - si coglie chiaramente l'espressione "otto euro!" - tanto da indurre chi scrive a pronunciare un garbato ma deciso "silenzio!". Decidono di andar via. E a questo punto uno di loro, a voce tanto alta da essere chiaramente udibile nonostante la musica, fa "Malati di mente!". Dagli spalti parte un prevedibile "vaffanculo!". Non certo tipo da darsi per vinto, il signore in questione si gira e urla: "Malati di mente!".

Rimasti in pochi, aumentano le possibilità di sentire la musica. Notiamo con un certo stupore che dalla sala attigua - quella sala che ospita il bar e il ristorante in cui è stato spesso consigliato di non fare troppo baccano dato che nella sala attigua c'era teatro - arriva un brusio che neppure nel pittoresco mercatino rionale.

Si giunge alla fine del concerto. E qui l'applauso di chi è rimasto è sonoro e liberatorio, quasi a voler ricompensare i quattro musicisti per quella che dev'essere stata una ben strana esperienza.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2006

CloudsandClocks.net | May 5, 2006