Gorge Trio
Centro Zo, Catania
Feb. 14, 2003

Nonostante molti sforzi non riusciamo proprio a ricordare il nome di chi ha coniato la definizione di "post-rock". A occhio lo diremmo un critico inglese: se i cugini d'oltreoceano risultano infatti al loro meglio quando inventano quei termini semplici ma suggestivi in grado di far così bella figura in una titolazione svelta ("punk", "grunge") quelli della Perfida Albione amano sovente tratteggiare intere cosmogonie. E "post-rock" è indubbiamente un bell'esempio: a un tempo mappa, descrizione, giudizio di valore, criptica interrogazione di viscere di animali, sapiente interpretazione del volo degli uccelli, con in più quella spruzzata di post-moderno (toh!) che consente di spiccare il volo verso territori meno usuali. Insomma, tutto tranne interrogarsi criticamente sulla musica in quanto tale.

Si noti la ben diversa valenza che avrebbe il termine nella frase "la techno è il post-rock" - pochissimo cartesiana, ma decisamente più accettabile. Come, a ben vedere, è perfettamente accessibile il senso di "alternative country" (anche "alt.country") - laddove il country sia fatto uguale a Shania Twain e alle Dixie Chicks. In verità il termine "post-rock" ha sovente portato con sé una spiacevole immagine: quella di chi "supera" il rock "odierno" - dove quest'ultimo è fatto uguale a "quello che conosco io", molto spesso in forma di fattoide. Cosa che sarebbe già preoccupante qualora la "conoscenza selettiva" si accompagnasse a una giovane età anagrafica, il che spesso non è. (Diamo qui per scontato il fattore "memoria volatile".)

Stante la misera valenza commerciale della vicenda va da sé che la battaglia è stata combattuta su giornali dalla bassissima tiratura, e (quindi) in special modo sul suolo italico. In una cornice dove qualunque sassofono starnazzante ha meritato l'appellativo di "ayleriano" e dove l'apparire di qualsivoglia trombetta ha consentito di spendere l'attributo di "davisiano". E' storia di ieri, ma che appare già lontanissima. Pronta per essere recuperata, beninteso, non appena verrà il momento delle ristampe - e, con esse, della nostalgia per "un esperimento coraggioso che non fu compreso".

Identità ameboide, maggiore mestiere (e una migliore collezione di vinile?) unite a quella sicurezza economica che consente una più lucida pianificazione delle mosse fanno sì che i Tortoise siano ancora un nome che è possibile coniugare al presente. Visto in concerto un paio di mesi fa, il gruppo ha riconfermato in chi scrive la vecchia impressione di produrre "musica difficile per chi soffre di deficit attenzionale": un primo minuto di disvelamento delle coordinate, e poi via con il pilota automatico. Con quel pluristilismo che rifugge l'approfondimento ma che consente varietà e quello scambiarsi gli strumenti che per un "occhio che vuole la sua parte" funge da sostituto della coreografia.

Decisamente peggio è andata al settore "chitarristico". Chi si ricorda più dei June of 44, il cui Four Great Points stava (citiamo a memoria) "rivoluzionando la musica di questo fine millennio"? O dei Don Caballero e del "math rock"? L'unica novità in proposito è una lettura "colta" della vicenda: il saggio di Theo Cateforis intitolato How Alternative Turned Progressive - The Strange Case of Math Rock comprendente la trascrizione e l'analisi metrica del brano dei Don Caballero Stupid Puma e incluso nel volume intitolato Progressive Rock Reconsidered curato da Kevin Holm-Hudson (Routledge, 2002).

In una notte buia e tempestosa un manipolo di coraggiosi si è quindi presentato al concerto dei Gorge Trio, facenti spalla ai Deerhoof. Ragazzi volenterosi e che diremmo (giustamente) consci dei propri limiti, i tre erano già passati da queste parti alcuni anni fa come tre quarti dei Colossamite, trovandosi di fronte un pubblico entusiasta e ululante (vociferous?) di ben altre dimensioni - e stavolta anche molti dei "soliti sospetti" mancano all'appello. Per di più, motivi imperscrutabili fanno sì che il gruppo cominci a suonare alle 00:25, quando - stremati dalla lunga attesa - i presenti necessiterebbero di ben altro (i Ruins?) per ridestarsi. L'esibizione è invece sottotono: undici ore di viaggio da Roma non sono certamente poche - ma stranamente il più lucido è Chad Popple, batterista del gruppo che funge anche da autista! I due chitarristi - Ed Rodriguez e John Dieterich - sembrano un po' a disagio nell'eseguire quelle parti a incastro che tanto necessitano di pulizia per poter funzionare. Ma il difetto è indubbiamente "nel manico": ormai quelle parti chitarristiche (sì, sono quelle obbligatorie del genere) le conosciamo tutti a memoria; e poco può un piccolo vibrafono (posizionato al posto del rullante!) usato in funzione contrappuntistica alla chitarre, del tutto insufficiente a ribaltare le sorti del concerto. Concerto di breve durata, tra l'altro, che gli stessi protagonisti sembrano poco interessati a portare avanti e abbastanza indifferenti nel concludere.

Abbiamo citato i Ruins: giusto qualche mese fa il duo giapponese aveva offerto un concerto decisamente impressionante per potenza e precisione inanellando strutture "progressive", parti batteristiche "orchestrali" e chitarre para-frippiane. Che il "post-rock chitarristico" sia da retrodatare?

(E i Deerhoof? Lo confessiamo: stremati dall'attesa e dalle dure condizioni ambientali abbiamo desistito. Offriamo il commento di un amico solitamente attendibile: "al confronto i Melt Banana sono dei giganti".)

Beppe Colli


© Beppe Colli 2003

CloudsandClocks.net | Feb. 17, 2003