Faust
Centro Zo, Catania
Dec. 8, 2005

Del tutto inutile oggi attardarsi a illustrare la decisiva e polivalente importanza del "marchio". Sufficiente qualche esempio. Sia Mick Jagger che Dave Gilmour hanno dovuto accettare - immaginiamo molto "obtorto collo" - l'assoluta impossibilità commerciale di una carriera solista che potesse rivaleggiare con quella dei rispettivi gruppi di provenienza; con una differenza non da poco, però: che nel caso del primo, notissimo in tutto il mondo (almeno fino a qualche tempo fa), il pubblico non ha mai accettato la parte al posto del tutto; mentre del secondo, eccezion fatta per l'esigua fetta dei fan sfegatati, è lecito dire che anche l'identità fosse un elemento opaco. Esistono tanti altri esempi, del primo e del secondo caso: pensiamo agli Who e poi a tutta la categoria dei (cosiddetti) "gruppi senza faccia" - un buon esempio erano i Supertramp. Si possono citare i casi in cui un'entità apparentemente forte ma infine nebulosa ("ex batterista dei Nirvana") funge da trampolino di lancio per lidi senz'altro più remunerativi ("dinamico frontman dei Foo Fighters"). Capita anche che il marchio fissi per sempre una personalità e una dimensione ("ex Stooges", "ex Velvet Underground"), ma a volte il gioco vale la candela; e a decidere se - e quanto - una risorsa diventa un handicap molto spesso è solo il botteghino. Bello esaminare il ventaglio di pareri possibili dal punto di vista del consumatore; qui non di rado il musicista si lagna, e spesso non a torto; ma si sarebbe mai scomodato lo spettabile pubblico pagante in assenza di quel vecchio e glorioso marchio?

Gruppo la cui fama fu negli anni settanta discretamente selettiva ma non inesistente, i Faust hanno visto il proprio marchio d'identità diventare merce (relativamente) pregiata; e fermo restando che l'assenza di elementi di primaria importanza (per una volta ricordiamolo: in un gruppo che è più della somma delle parti, pressoché tutti) non poteva che alterare il risultato, i superstiti hanno deciso di tentare la sorte. Mancanti: sassofonista e uomo dei loop, Gunther Wüsthoff; chitarrista, pianista e cantante, Rudolf Sosna; batterista, Arnulf Meifurt; tecnico del suono, Kurt Graupner. Presenti: organista, Joachim Irmler; batterista, Werner "Zappi" Diermaier; bassista, chitarrista acustico e cantante, Jean-Hervé Peron. Le azioni risalgono soprattutto al momento in cui il gruppo riceve l'appoggio di un altro marchio "in voga tra gli intenditori": quello di Jim O' Rourke, non ancora andato a portare quarti di nobiltà agli stanchi Sonic Youth. Qui i pareri sono fatalmente destinati a divergere: c'è chi considera album quali Rien, Ravvivando e You Know Faust di ottima qualità; altri (decisamente sgomenti per il fatto che i Faust vengano accostati a gente come Aphex Twin) esprimono garbatamente il loro dissenso; il che ovviamente serve a poco: l'esperienza "mistica" di un marchio è assolutamente a prova di fatto.

Giungono così i Faust. La formazione non è però quella che ci attenderemmo come da copertina di Wire di un paio di anni fa (Irmler e Diermaier + due figuranti) bensì Diermaier, Peron e due figuranti: Olivier Manchion a basso, voce, chitarra acustica e melodica e Amaury Cambuzat alla chitarra elettrica e alle tastiere, ambedue Ulan Bator (a scelta: una garanzia o un ulteriore motivo di preoccupazione). Per qualche giorno il nostro telefono squilla decisamente più del consueto: sono i mai troppo celebrati "reduci" desiderosi di saperne di più; nulla riesce a raffreddare il loro entusiasmo quanto l'apprendere le condizioni (per noi abituali) in cui la cosa si svolgerà: rigorosamente in piedi, decisamente al freddo, con fine del concerto prevista nei dintorni dell'una del mattino. Si sottoporranno al martirio?

Giunge il gran giorno, e presenze che diremmo nell'ordine dei duecento. Pubblico abbastanza sul giovanile, assenti molte facce note, forse per la concomitanza di un lungo ponte. Sul palco chitarre acustiche, elettriche e bassi; una batteria; un synth recente (Roland) e uno meno (Kurzweil); anche molta ferraglia e un'impastatrice. Primo pezzo: It's A Bit Of Pain, la chiusura di Faust IV. L'insieme non manca di dignità, Peron canta, ma subito la situazione vira verso un rumorismo decisamente banalizzante ben poco in carattere con lo spirito originale del pezzo. Siamo dalle parti di un "gruppo omaggio"/cover band, dignitoso ma nulla più (anche se, dati i termini di paragone che oggi è facile vedere sui palchi, ci pare che per qualcuno dei presenti valga l'impressione di stare ascoltando qualcosa di inaudito). Lo stesso vale tanto per i pezzi più noti eseguiti - The Sad Skinhead, It's A Rainy Day, Sunshine Girl, e quella prima canzone di Faust Tapes (e qui Diermaier sbaglia clamorosamente il famoso attacco batteristico) - che per le riproposizioni delle cose più tarde. L'affiatamento c'è, e soprattutto Cambuzat riesce a creare dei tappeti sonori alla chitarra elettrica (diremmo con un digital delay Memory Man della Electro Harmonix e con un pedale che funge da modulatore ad anello) e alle tastiere (Whoosh! e Kraaa! con il Roland, ostinati pianistici con il Kurzweil); ma il tutto sa molto di maniera, e certo non aiutano le catene sbattute sull'impastatrice, i sassolini fatti cadere sugli elmetti militari, la polvere nell'aria, l'asse da stiro (usato per davvero), un sassofono tenore (scarsamente udibile, ma diremmo fosse un arpeggio ostinato) del luogo unitosi per l'occasione e un gruppo di ragazze nerovestite che su un brano fanno "AAAAAAHHHHH!!!!!". Certo, nessuno dei Faust è mai stato un virtuoso dello strumento, e anche ai vecchi tempi le poche esibizioni avevano detto di un gruppo essenzialmente di studio; ma allora era la cifra stilistica complessiva, estremamente originale, e il sapiente miscuglio degli elementi, a destare entusiasmo; mentre qui è forte la sensazione di sapere già tutto, e di averlo già sentito - meglio - in precedenza. Le poche esplorazioni "cosmiche" potrebbero essere tratte da un disco di uno di quei tanti presunti epigoni statunitensi.

In conclusione? Dieci euro indubbiamente ben spesi.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2005

CloudsandClocks.net | Dec. 21, 2005


P. S. 23/12/05:
Questa recensione era stata appena pubblicata quando alcuni amici ci hanno comunicato che a loro parere l'ultima frase della recensione ("In conclusione? Dieci euro indubbiamente ben spesi.") non appariva coerente con l'argomentazione che l'aveva preceduta. Beh, è evidente che almeno per questa volta il nostro senso dello humour ha lasciato a desiderare.

Dato che (per ragioni troppo complesse per essere discusse qui) abbiamo deciso fin dall'inizio di adottare a Clouds and Clocks una condotta editoriale da "carta stampata" (cioè a dire, nessun contenuto scritto viene mai modificato), abbiamo scelto di aggiungere questo P. S. allo scopo di allertare il lettore del fatto che l'ultimo rigo della recensione va inteso come una battuta. Fermo restando - tenute in debito conto le tendenze masochiste di chi scrive - che spendere dieci euro per andare a "vedere" un bluff può ben essere considerato un saggio uso del proprio denaro.