Jazz And Its Discontents: A Francis Davis Reader
By Francis Davis

DaCapo 2004, $20, pp336

Jazz And Its Discontents: A Francis Davis Reader è il titolo della nuova raccolta di articoli e recensioni dovuti alla penna di Francis Davis, uno dei più apprezzati e autorevoli critici musicali dell'odierno panorama statunitense. Il volume presenta in massima parte scritti già apparsi nelle precedenti raccolte di Davis intitolate In The Moment (1986), Outcats (1990) e Bebop And Nothingness (1996), ormai fuori catalogo. A essi si aggiungono alcuni testi che vengono qui pubblicati in volume per la prima volta: innanzitutto le decisamente "vintage" Bonus Tracks, la migliore delle quali diremmo essere un ritratto di Jim Hall risalente al luglio del 1983; inoltre, alcuni scritti piuttosto recenti che compaiono a conclusione del libro nella sezione intitolata Mixed Media e il cui argomento di "secondo livello" - "a sort of war trilogy", per usare le parole dell'autore - dovrebbe risultare perfettamente in grado di interessare anche il lettore che avesse poca confidenza con (o nutrisse un'assoluta indifferenza per) Bob Hope e il film intitolato The Best Years Of Our Lives. Restano fuori dalla panoramica di Jazz And Its Discontents sia Like Young (2001), il più recente volume miscellaneo di Davis, che The History Of The Blues e Afterglow: A Last Conversation With Pauline Kael, tutti ancora in stampa.

Come per ogni "Best" che si rispetti, anche Jazz And Its Discontents è in grado di provocare discussioni su quanto è stato incluso e quanto, invece, manca all'appello. Ma - la scelta degli articoli essendo opera dello stesso Davis - diremmo il panorama offerto significativamente completo, e la logica sottostante senz'altro condivisibile.

I quattro scritti posti in apertura, tutti tratti da In The Moment - An Improviser Prepares, dedicato a Sonny Rollins; No Success Like Failure: Ornette Coleman's Permanent Revolution; Leading Lady, su Abbey Lincoln; e Anthony Davis's New Music - sono perfettamente in grado di fungere da summa del volume e di tutto un modo di intendere il lavoro del critico: parte profilo, parte intervista, mai privi del tasso di approfondimento necessario a interessare chi già appassionato (e a rivelare la personale visione estetica di chi scrive) eppure ben in grado di fungere da introduzione per chi si accostasse alla materia per la prima volta. Tipico di Davis il modo sapiente in cui riesce ad allargare il discorso senza nemmeno darlo a vedere - e senza che il lettore si trovi spaesato o non in grado di riprendere il filo del ragionamento; stimolante il modo in cui considerazioni "a largo raggio" vengono esplicitate in modo pertinente, senza mai nulla di gratuito - vedi quale buon esempio la parte introduttiva di Black Like Him, su Bobby Short.

Chiamati a elencare lestamente gli scritti a nostro avviso più stimolanti (in un panorama comunque ricchissimo, e in grado di soddisfare gusti decisamente eterogenei) non potremmo non citare quelli su Rollins, Coleman e Davis di cui s'è appena detto; il ritratto di Ellington - e lo scritto intitolato Ellington's Decade, che analizza il rapporto tra il musicista e la moderna avanguardia; lo scritto su Herbie Nichols; gli articoli su Ran Blake e Borah Bergman; il profilo della compianta Susanna McCorkle; tutti da Outcats. Gli scritti su Lester Young, Art Blakey, John Zorn, Don Byron, Charles Gayle e Roswell Rudd tratti da Bebop And Nothingness. Impossibile non citare la sezione intitolata Recurring Characters, che offre ritratti multipli di Miles Davis, Sun Ra e Wynton Marsalis. Black Faces, Black Masks, lo scritto sul rap. E, dalla sezione Mixed Media, il miscellaneo At The Movies, con descrizioni ragionate dei film 'Round Midnight, Bird e Let's Get Lost.

E' pacificamente ovvio che il destinatario di questo volume è in primo luogo chi è già appassionato di jazz. Qui le prospettive non sono certo brillanti. Scrive Davis a pag. xiii della sua introduzione al volume, intitolata Only Myself To Blame: "Venticinque anni fa, quando ho cominciato a scrivere di jazz, questa musica dal punto di vista artistico era in discreta forma; il problema era la sua mancanza di visibilità. Ma Gary Giddins scriveva di David Murray e di Bireli Lagrene per Vanity Fair, Ornette Coleman o Sun Ra potevano essere gli ospiti musicali di Saturday Night Live ed era possibile vendere a un giornale come Esquire quanto meno l'idea di un pezzo su Sonny Rollins. Nulla di tutto ciò è verosimile che accada oggi. Sento la gente lamentarsi del fatto che il pubblico del jazz diventa sempre più vecchio, ma non avviene lo stesso per il pubblico di qualsiasi cosa sia interessante e un po' fuori dell'ordinario, arte e cinema compresi?"

Questo, indubbiamente, il punto cruciale della cosa. E se da un lato conosciamo non pochi pronti a sostenere esattamente il contrario - cioè a dire, pronti a descrivere uno scenario che vede gli adulti ormai intombati a casa in pantofole e sordi a qualunque stimolo sia fuori dell'ordinario, con i giovani a tenere eroicamente in vita ogni forma di arte&cultura davvero "cutting edge" - sembra indubbio che qualora si tenga in debito conto la funzione del linguaggio nel descrivere - e "costruire" - gli oggetti culturali, il discrimine è senz'altro "culturale", e innanzitutto alfabetico. Qui le dinamiche correnti - che sono sì "tendenze", ma quanto è verosimile siano reversibili? - sembrano lasciare ben poche speranze, con la "sensazione" ferma al livello del brivido e mai in grado di ascendere alla prova del verbalizzabile.

In fine di introduzione, Francis Davis ci rimanda a una nuova raccolta, tra qualche anno. Tocchiamo ferro.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2004

CloudsandClocks.net | April 23, 2004