Bill Bruford: The Autobiography
By Bill Bruford

Jawbone Press 2009, $19.95/£14.95, pp352

Se ben ricordiamo, era la prima settimana del 2010. Ce ne stavamo tranquilli a sfogliare il numero più recente del mensile statunitense Down Beat (December, 2009) quando la nostra attenzione è stata attirata da questo titolo: "Bill Bruford Announces Retirement, Releases Autobiography". Il pezzo, di Robert Kaye, apriva dicendo che "Ai primi del 2009 Bill Bruford ha annunciato il suo ritiro ufficiale dai concerti e dallo studio di registrazione. L'annuncio ufficiale del batterista è apparso contemporaneamente alla pubblicazione del suo primo libro, intitolato Bill Bruford: The Autobiography." Per quanto riguarda le motivazioni del gesto l'articolo sceglieva di rimanere sul vago: "Le ragioni alla base del ritiro di Bruford sono trattate esaustivamente nel libro".

Davvero bizzarro. E' ovviamente possibile che la logica del pezzo sia stata sacrificata per motivi di spazio, ma all'atto pratico riteniamo impossibile che quella smilza paginetta dal tono burocratico sia riuscita a persuadere più di qualche lettore della drammaticità dell'accaduto. Non ci è di certo riuscita con chi scrive. E dopo aver rivolto un veloce pensiero al lavoro batteristico di Bruford, da noi ammirato soprattutto ai tempi ormai molto lontani dei King Crimson "inglesi", abbiamo voltato pagina e non ci abbiamo pensato più.

Fino al giorno in cui un caro amico ci ha inviato il link a un pezzo intitolato "Bill Bruford: The Autobiography - A comment by Dave Stewart". E questa sì che è una notizia: non solo Stewart è, ovviamente, il tastierista e compositore di gruppi quali Hatfield And The North, National Health e Stewart & Gaskin. E' anche il musicista che ha condiviso con Bruford palchi e sale d'incisione, da una prima versione dei National Health ai molteplici episodi di Bruford, il quartetto elettrico di cui il batterista era leader. Recensione lunga e approfondita, motivi d'interesse plurimi, stimolante problematicità delle situazioni... Questa sì che è una bella recensione! Detto fatto: tiriamo fuori la carta di credito, ci colleghiamo e ordiniamo il libro.

Il libro non delude. Innanzitutto è ben scritto, con una prosa scorrevole che è evidentemente frutto di uno sforzo inteso a dire le cose come vanno dette. Linguaggio rifinito, proprio come ci aspetteremmo da Bruford. La narrazione si muove su piani paralleli, con la cronologia che va avanti e indietro e il ragionare che affronta la musica, il suonare, l'organizzazione del lavoro del musicista, gli aspetti economici, manager pubblico e media, il lavoro critico, gli aspetti delle relazioni interpersonali all'interno dei gruppi e così via.

Chi ha confidenza con la storia ne troverà qui i vari capitoli: gli inizi, l'avventura con gli Yes, i trionfi di Fragile e Close To The Edge, il salto nel buio con i King Crimson, le session e l'apporto batteristico ai Genesis live, il gruppo Bruford, e poi il quartetto dalla breve vita denominato UK, poi di nuovo i King Crimson, e di nuovo gli Yes e di nuovo i King Crimson, poi la scelta in favore del jazz, gli Earthworks, e infine le drum clinics. Ovviamente non mancano aneddoti e descrizioni che hanno come protagonisti nomi ben noti quali Robert Fripp, Adrian Belew, Allan Holdsworth, Tony Levin, John Wetton, Jeff Berlin, Jon Anderson, Phil Collins, Chris Squire e via dicendo. E se non diremmo che queste figure vengano qui illuminate in un modo rivelatore di aspetti nascosti, pure i fatti completano le storie da un punto di vista diverso da quello che siamo soliti leggere.

Un'avvertenza doverosa che Bruford mette in fine di volume (è a pag. 343) e che il lettore farà bene a tenere in mente al fine di evitare che aspettative irrealistiche si ritrovino a essere deluse: "Ci sono lettori di questo libro di memorie che probabilmente stanno lamentando l'assenza di un esame pezzo per pezzo di tutti i miei lavori registrati - quale piatto è stato suonato dove e quando, chi ha prodotto quale pezzo, e perché la versione giapponese conteneva tre editaggi in meno della versione standard europea? Non sono in grado di ricordare la maggior parte di queste cose - i dettagli a quel livello mi riempiono di noia. Il quadro complessivo è l'unica cosa che ora è in grado di interessarmi." (Ovviamente il lettore che è giunto fino a pag. 343 avrà già capito che il tono sotteso all'impostazione del libro non avrebbe mai consentito un approccio di quel tipo...)

Ma se dicessimo che questo libro risulterà gradito e di molto interesse per chi ha amato almeno qualcuno dei nomi cui si è appena fatto riferimento diremmo una cosa che è ovviamente vera ma anche estremamente limitativa, data la ricchezza del contenuto. (L'unico aspetto del volume che diremmo debole è un tentativo di teorizzazione "macro" che si rifà al lavoro di nomi quali Simon Frith e Richard Middleton, dal banale profumo di "Accademia". E qui le fertili osservazioni di prima mano di Bruford, frutto della sua lunga pratica "sul campo", non ci sembrano beneficiare di tanto deboli stampelle. A ogni modo si tratta solo di un paio di pagine ogni tanto, e la narrazione non ne risente.)

Il primo gruppo di lettori che troverà questo libro di enorme interesse è composto da coloro i quali per motivi di età (diciamo quelli fino ai quaranta-e-qualcosa, con possibili eccezioni verso l'alto) troveranno qui un vero e proprio "libro di storia" in grado di illuminare il cammino che va dal rock "post Beatles" all'oggi, ma narrato da una prospettiva "interna" alla professione - il che fa tutta la differenza. Un buon esempio è la trattazione del lavoro di chi suona all'interno di quella cornice in Rete che modifica in modo drammatico il rapporto musicista-pubblico (si vedano le pagg. 247-250). Mentre non mancano momenti che vedono affiorare un embrione di economia politica quale possibile spiegazione della irrilevanza degli oggetti (già il Bob Dylan intervistato da Paul Zollo aveva tracciato un cammino parallelo) come è agevole vedere in questo passo: "E' difficile sfuggire all'implicazione che c'è già abbastanza musica nella società occidentale, e la società occidentale tende a far notare al musicista attraverso il mercato - a volte in modo piuttosto brutale, dato che lo stupido musicista tende a non capirlo - che essa non ha che farsene di altra nuova musica, che è già strapiena con la musica che ha già."

Il secondo gruppo di lettori è composto da coloro i quali sono interessati alla logica (interna, e situazionale) propria della creazione artistica. E questa è una cosa più complessa che necessita di qualche rigo in più.

Ci eravamo chiesti, al tempo del pezzetto su Down Beat, quali potessero essere queste ragioni di cui si diceva nel libro, e dato che Bruford è nato nel 1949 e che di mestiere fa il batterista avevamo subito pensato a motivi di salute (non necessariamente gravi, ma per un batterista ossa e muscoli sono molto più importanti che per chi fa altri mestieri). Da quanto si apprende dalla lettura del volume la realtà è a un tempo più rassicurante (la salute è OK) e drammatica. C'è più di una parte di verità del tipo non banale nel motto reso celebre da Pete Townshend che recita "Hope I die before I get old", ma qui con tutta evidenza entrano in ballo fattori caratteriali e situazionali che nel tempo hanno reso più ampio il divario tra "abitare l'arte" e "vivere il processo dall'esterno" fino a rendere lo stesso processo impossibile, e di questo la narrativa del volume è cronaca in grado di stroncare più di un lettore, e non perché essa sia caricata e sopra le righe (semmai è vero il contrario) ma proprio perché essa mostra il fatto nei suoi termini più quotidiani e immediati.

A ognuno di noi (e, ovviamente, a lui) decidere se morire nel sonno a Las Vegas dopo una striscia di coca in compagnia di una prostituta sarebbe stata una fine migliore.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2010

CloudsandClocks.net | Apr. 5, 2010