Robert Wyatt
Cuckooland

(Hannibal)

Impossibile non salutare con gioia l'annuncio della pubblicazione di un nuovo album di Robert Wyatt: crediamo siano davvero pochi gli artisti in grado di assommare in sé altissima qualità musicale, grande coraggio dinnanzi a dolorose avversità personali, spiccata umanità nei confronti della sorte degli umili e dei non privilegiati, coraggiose e non sempre popolari prese di posizione politiche. Impossibile, insomma, non sentirlo come "uno di famiglia" pur non conoscendolo se non attraverso la musica e le interviste.

Bello anche poter constatare che l'ammirazione e la stima nei suoi confronti diventano sempre più qualità condivise. Certo, se è ai media che si fa riferimento, si potrebbe osservare un po' cinicamente che l'attenzione mediatica e la conseguente "riscoperta" hanno fatto un salto di attenzione non da poco (se non un "salto di qualità") quando alla più piccina Rough Trade si è sostituita la ben più potente Rykodisc, etichetta senz'altro maggiormente in grado di stilare una classifica delle priorità. Ma trattandosi di Wyatt, perché lamentarsi?

Curioso comunque constatare che un disco di Wyatt sembra a volte essere diventato - insieme a quelli di Sting e di David Sylvian (e sarebbe stimolante poter indagare corrispondenze e sovrapposizioni dalla parte degli acquirenti) - una sorta di "bene rifugio" per non pochi che, con il trascorrere degli anni, e complice il demenziale prezzo dei CD, vedono in Wyatt un artista che non tradirà - perché mai ha tradito - quelle aspettative di rigore e di assoluta non commercializzazione del proprio lavoro: la dignità (e l'amore per la musica) al primo posto. E anche se i cosiddetti "fattori personali" non dovrebbero avere molto peso nella formulazione di un giudizio (ma c'è chi lo nega, e chi sostiene addirittura tutto l'opposto - la critica come biografia) crediamo che qualcuno abbia accolto l'apparizione di Shleep (1997) con un sollievo per una "mancata scomparsa" che potrebbe (diciamo: "potrebbe") aver fatto velo sulle reali qualità del disco, inducendo forse a sottovalutare pecche che pur se non gravissime erano certo in grado di destare più di qualche perplessità (la "parzialità" mediatica essendo qui esclusa).

Messi da parte per qualche istante gusti personali e quegli invisibili paraocchi (e sappiamo che stiamo chiedendo moltissimo al nostro paziente lettore) c'è il caso di quale metro adoperare. Esistono persone degnissime che per ragioni essenzialmente anagrafiche conoscono soltanto Shleep. Il loro giudizio estetico sarà senz'altro più "leggero" - proprio perché non appesantito dal fardello di una lunga frequentazione e memoria - anche se ovviamente questo stesso motivo lo renderà meno consapevole. D'altra parte, avere ben presente nella memoria ogni nota contenuta nei suoi album espone al terribile rischio di giudicare tutto alle luce delle vette del passato, su tutte quel Rock Bottom (1974) che è per molti e differenti versi capitolo irripetibile. E d'altronde si potrebbe discutere a lungo se il metro da applicare ha da essere diacronico o non piuttosto sincronico - "cosa è uscito di meglio quest'anno?" e similia.

Lungo preambolo per un disco che è anch'esso molto lungo: siamo sui 75 minuti, l'equivalente di un doppio album dei bei tempi andati; un disco nel quale sulle prime non è affatto semplice orientarsi e che però anche dopo ripetuti ascolti ha mantenuto per chi scrive un che di stranamente irrisolto, una mancanza di cifra stilistica unitaria ("ma è davvero sempre necessaria?" - una buona domanda), se non forse per alcune caratteristiche timbriche/di produzione di cui si dirà tra poco. Certo, neppure Ruth Is Stranger Than Richard (1975) era un album unitario, ma lì le vicissitudini di budget devono avere avuto una non piccola parte nel determinare il risultato finale (e però ascoltare Gary Windo, Fred Frith e Bill MacCormick non è la stessa cosa di ascoltare Paul Weller, Karen Mantler o Annie Whitehead) ma qui il lavoro pare essere stato alquanto rilassato.

Questioni di budget possono benissimo essere state alla base del suono spoglio ed essenziale di album quali Old Rottenhat (1985) e Dondestan (1991). Ma lì il terso melodismo wyattiano aveva fatto tesoro di quella scarna nudità, esibendola. Certo, proprio quella nudità che faceva contare ogni singolo respiro - ripagando ampiamente l'attenzione indivisa - penalizzava senza dubbio alcuno i "thrill seekers" e quelli dell'attenzione ondivaga. Tutto il contrario dovrebbe avvenire nel caso di quest'album, laddove quelle che per l'ascolto esclusivo sono lunghezza eccessiva e tempi morti (e complice una certa elefantiasi timbrica, in special modo nell'impiego delle tastiere, voci campionate incluse) potrebbero invece risultare determinanti nel mettere a proprio agio gli ascoltatori più distratti. (Ma crediamo che i 7'55" di Forest siano davvero troppi.)

Se le tastiere costituiscono l'aspetto timbrico più discutibile (è dai "tempi eroici" del Minimoog che non ci capitava di ascoltare inviluppi sul filtro come quelli presenti su Tom Hay's Fox e Brian The Fox), ottime notizie vengono dal fronte strumenti a fiato: Wyatt amplia splendidamente l'impiego della tromba già iniziato su Shleep, cui accosta una efficacissima cornetta; belli sassofoni e clarinetti di Gilad Atzmon, come pure il trombone della Whitehead; la voce di Wyatt è sempre molto coinvolgente, di quella sensibilissima musicalità che ben conosciamo pur nel fisiologico mutare dovuto all'età.

Già su Shleep gli accreditamenti concernenti gli autori dicevano di una vena compositiva non esattamente torrenziale, con conseguenze non positive ai fini della coerenza dell'insieme. Il problema pare esacerbato su questo album, cosa che rende ancora più misteriosa la decisione di privilegiare la lunga durata - bisogna arrivare a Lullaby For Hamza, il brano numero otto che chiude la prima parte del CD, per trovare una canzone degna di andare dritto dritto in un'ideale antologia del nostro. Un problema paradossalmente evidenziato dalla presenza di alcune cover - vedi la sensibile e garbata Raining In My Heart, per piano, e la Insensatez di Antonio Carlos Jobim eseguita con grande sensibilità ed efficacia insieme a Karen Mantler, con un grande clarinetto di Gilad Atzmon. Lasciano perplessi i contributi della Mantler (a proposito: ottima la sua armonica), e non per un'insufficiente caratura, ma per un risultare decisamente fuori contesto - vedi Beware e Life Is Sheep, mentre Mister E sembra quasi un frammento dialogico da Silence, l'album scritto da Michael Mantler dove Wyatt cantava accanto a Carla Bley.

Oltre alla già citata Lullaby For Hamza non mancano certo i brani originali di grande bellezza: Just A Bit, Old Europe, Cuckoo Madame, Trickle Down, Foreign Accents, mentre chiude bene il rifacimento strumentale di La Ahada Yalam. Ma rimane sempre quel senso complessivo di incompiutezza/indeterminatezza.

Cambieremo idea fra qualche mese?

Beppe Colli


© Beppe Colli 2003

CloudsandClocks.net | Oct. 7, 2003