This Heat
This Heat

(This Is)

Stavamo sfogliando il nuovo numero di Mojo (#148, March), appena arrivato, quando la nostra attenzione è stata attirata dalla recensione del nuovo libro di Barney Hoskyns, Hotel California: Singer-Songwriters And Cocaine Cowboys In The LA Canyons, 1967-1976. Cominciamo a leggere: "Essenzialmente è la storia della controcultura che lentamente si tramuta in una cultura commerciale (...)"; qui ci scappa subito un sorriso: questi inglesi amano sempre fare giochi di parole (spesso a spese del contenuto) - una tendenza certo non scoraggiata dalla crescente brevità odierna delle recensioni; decidiamo di dare subito un'occhiata alla chiusa, che è facile prevedere sarà senz'altro di quelle "a effetto"; ed eccola qui: "Chiaramente, la palla demolitrice del punk non giunse un momento troppo presto". Qui il nostro primo pensiero è: "Però, circola roba davvero forte in UK!". Il secondo: "Ma che cavolo scrive questo?". Proviamo immediatamente a fare un veloce elenco di stili che hanno messo chiodi sulla bara del genere citato (ammesso e non concesso che il "California Sound" sia mai esistito per davvero): la disco music, su tutto i Bee Gees e la Saturday Night Fever; lo "smooth jazz" di Aja degli Steely Dan; la (cosiddetta) "English New Wave", cioè a dire: Elvis Costello, i Police e i Dire Straits; la (cosiddetta) "US New Wave" nelle sue varie accezioni: Tom Petty And The Heartbreakers, The Cars e (il finto punk di) The Knack; infine, quella MTV che seppellì tutti i non presentabili per motivi estetico/anagrafici e offrì una seconda chance a un già celebre "californiano onorario" quale Don Henley. Allora?

Ben diversa la situazione nel Regno Unito. Qui ci scapperebbe da dire che "il punk provocò...". Ma dato che un po' di chiarezza non guasta mai, mettiamola così: "I settimanali britannici, per gusto e necessità editoriali da sempre trendisti e modaioli, individuarono in una musica elementare e sartorialmente stracciona il nuovo trend adolescenziale, dopo il Glam Rock di qualche anno prima". Qui è facile far notare che, al di là delle balle a buon mercato, mai gli artisti maggiormente presi di mira - Pink Floyd, Rolling Stones, Paul McCartney, Elton John e via dicendo - ebbero commercialmente a soffrire; e che quelli che soffrirono - The Who e Led Zeppelin - soffrirono per lutto. "Ma forse il punk non fece/non poté fare abbastanza", è di solito l'obiezione. Qui due cose possono essere dette: la prima è che il periodo punk, dapprima visto come un tentativo di resuscitare il rock e poi (nato l'hip-hop) come il suo ultimo rantolo, può essere agevolmente inquadrato in quella tendenza di lungo periodo che vede il consumatore sempre più interessato a quel che viene (artisticamente) prodotto dai suoi simili - in senso letterale: gente che non possiede alcuna abilità tecnica particolare e che non ha idee (il prodotto di questa tendenza più prossimo all'oggi è quello dei "reality show"). La seconda è che il trend riportava la musica inglese al pop prima dei Beatles - per dirla in breve, dallo strumento al personaggio; è quindi solo logico che mentre i "dinosauri" continuavano imperterriti la loro agiata esistenza moltissimi musicisti inglesi "poveri e sperimentali" venivano uccisi dal "fuoco amico". E quando la copertura di Strutturalismo + Derrida si combinò con i dischi fatti a macchina (su tutte il Fairlight a 8bit di Trevor Horn) fu davvero la fine.

Fu alla fine degli anni settanta che ci accorgemmo di un fatto curioso: che il denaro a disposizione per comprare dischi era più dei dischi da comprare; la circostanza davvero buffa era che i soldi in questione non erano di certo aumentati, e che in passato il problema era semmai stato l'opposto! Qualche fregatura di troppo ci diede modo di riflettere sui vari modi in cui il concetto di qualità poteva essere declinato da giornalisti "non eccessivamente obiettivi". Fu in quel periodo che ci imbattemmo in un LP di un gruppo chiamato This Heat. Titolo: Deceit. Copertina non poco aggressiva, Deceit (1981) era frutto del lavoro di tre musicisti. Riconoscemmo un nome: quello di Charles Hayward.

Avevamo incontrato per la prima volta Charles Hayward per via di una sua "partecipazione speciale" a Diamond Head (1975), esordio solista di Phil Manzanera, allora chitarrista dei Roxy Music. Manzanera vi aveva inserito un cammeo del suo vecchio quartetto, i Quiet Sun: il gruppo da cui proveniva il bassista Bill MacCormick, poi membro dei Matching Mole di Robert Wyatt. Sfruttando lo studio già prenotato per Diamond Head (è concesso rivolgere un veloce pensiero dolce-amaro a un'epoca in cui era ancora possibile trattare con tiepida sufficienza un album come quello?) Manzanera incise un altro album, Mainstream, con il vecchio quartetto; Hayward veniva fuori come un ottimo batterista (uno degli ultimi venuti fuori dall'Inghilterra?), e la "ballata inglese" da lui scritta e cantata, Rongwrong, divenne a suo modo un piccolo classico (fu poi cantata da Brian Eno e inserita nell'album dal vivo testimone della fuggevole esperienza 801).

Album insieme spigoloso e lirico, ricco di canzoni dove non era certo difficile scorgere il passato - qualcosa di Wyatt, e poi Eno, soprattutto quello vocalmente più corale di Taking Tiger Mountain (By Strategy) - ma dove l'attenzione per il suono e il lavoro di studio dicevano di estetica e intendimenti "moderni". Album "politico", tra l'altro, con i testi scritti "a mano" in copertina. Un bel trio: accanto a Hayward (impegnato a tastiere, chitarra, basso e nastri oltre che a batteria e voce) c'erano Charles Bullen (voce, chitarra, clarinetto, batteria e nastri) e Gareth Williams (voce, basso, tastiere e nastri). Massima fantasia, nessun virtuosismo, Deceit era destinato a rimanere il nostro album preferito della formazione, le cui gesta successive ci videro sempre ascoltatori attenti; e se Live In Krefeld 1980 disse (bene) del gruppo dal vivo, e se il dispiacere per il successivo scioglimento fu alleviato dalla formazione che per certi versi ne continuava l'estetica, gli ottimi Camberwell Now (tutto quello che il gruppo ha prodotto è disponibile su All's Well), per chi scrive rimaneva un buco: quello del primo album omonimo pubblicato per la prima volta nel 1979 e che riuscimmo ad ascoltare solo un decennio più tardi, quando fu ristampato in vinile.

Com'è ovvio, ci volle molto tempo perché riuscissimo ad ascoltare This Heat (conosciuto anche come "blue and yellow" per via dei colori della copertina) come l'ottimo album che è e non come il primo episodio di una storia di cui conoscevamo già le puntate successive. E oggi? Dopo la breve Testcard, Horizontal Hold potrebbe sembrare quasi un'anticipazione di certi clamori chitarristici indie-rock made in USA di circa vent'anni dopo; mentre è ovvio che nel brano intitolato 24 Track Loop si respira un'aria molto Faust; ma se il nome dei Faust può essere tirato in ballo per ciò che riguarda l'album tutto, è solo in un senso "metodologico", per via del rapporto tra le canzoni e il lavoro di studio, "rumoristico" e no, non certo per delle somiglianze di "stile". Musica tesa e nervosa, laddove Not Waving e Twilight Furniture erano le gemme della ex prima facciata, mentre tutta la seconda costituisce un affresco da cui forse si potrebbe isolare The Fall Of Saigon.

E visto che si tratta di un anniversario (il trentennale della fondazione del gruppo) oltre alle ristampe dei singoli album c'è anche l'immancabile cofanetto con tutto, più il libro e gli inediti. A questo punto la domanda che viene sempre in mente in casi come questo è: e se qualcuno dovesse comprare questo disco per curiosità, dovrà poi ricomprarlo come parte del cofanetto? Un foglietto contenuto nel CD ci dice di no e ci spiega il come.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2006

CloudsandClocks.net | Feb. 13, 2006