Regina Spektor
What We Saw From The Cheap Seats

(Sire)

Come il lettore potrà vedere da sé tra un momento, il cammino che ci ha portato a scrivere questa recensione di What We Saw From The Cheap Seats - il nuovo album di Regina Spektor pubblicato all'incirca un paio di mesi fa - è discretamente bizzarro, già a partire dall'inizio.

Sfogliavamo non sapremmo più dire quale rivista musicale - si era a metà dello scorso decennio - quando l'occhio ci cadde sulla copertina di un CD di recente uscita la cui iconografia trovammo non poco repellente (e se anche avessimo saputo che titolo e immagine erano in qualche modo collegati all'opera di Milan Kundera il nostro giudizio al riguardo non sarebbe in alcun modo cambiato).




Ligio al dovere di rendere appetibile un nome nuovo da lanciare, il recensore si sforzava di tratteggiare un ritratto di ragazza russa emigrata nel Bronx mettendone in risalto le qualità - rabbia e miseria, appartenenza al movimento "anti-folk" (?), spirito iconoclasta e un titolo come Chemo Limo - che nelle intenzioni dello scrivente avrebbero dovuto rendere plausibile il gancio già pronto: accomunare l'esordio di Soviet Kitsch a Horses di Patti Smith. Ma dato che avevamo acquistato una copia import ancor fresca di stampa di Horses quando l'edizione italiana era ancora da venire, girammo pagina e chiudemmo per sempre il capitolo Regina Spektor.

Forse perché conduciamo una vita ritirata, negli anni a venire non ci si presentò alcuna occasione di aggiornare la vicenda. Ci pare di ricordare qualche recensione che lamentava l'avvenuta commercializzazione della Spektor, con prodotti "leccati" e ruffiani lontani dalla secchezza "punk" dei tre album delle origini (apprendevamo quindi che Soviet Kitsch non era stato un vero esordio, solo quello per cui qualcuno aveva telefonato in redazione). Non ci aiutò trovare la Spektor su un album di Ben Folds, dato che il pezzo in questione era il più brutto dell'album più debole del musicista.

Anni dopo, nel corso di una visita esplorativa in un punto vendita di una nota catena, scorgemmo in offerta speciale un combo (CD + DVD-V) del nuovo album della Spektor, Live In London.




E dato che è nostra ferma convinzione che la molla principale per l'affinamento delle proprie capacità critiche è quella che implica il rischio concreto di gettare soldi al vento (esperienza molto più dolorosa di sprecare il proprio tempo scaricando gratis roba dalla Rete per poi dire "non mi piace" e buttarla via) acquistammo il tutto. Questa la ratio: dal vivo si vedrà se è brava, e ovviamente in un concerto destinato a essere filmato non suonerà quello che ritiene essere il peggio del proprio repertorio. (Elementare, Watson!)

Giunti a casa, letto che la regia del video era di Adria Petty (forse qualcuno tra i lettori ne conoscerà il padre, che di nome fa Tom), inserito il DVD-V nell'apposito slot, dopo due pezzi abbiamo sbarrato gli occhi e abbiamo pensato: "Ma com'è che questa è così brava e noi non la conosciamo?". Diciamo quindi subito, prima che la discussione ci porti lontano, che a nostro parere Live In London è l'album della Spektor da cui partire, per i molti motivi di cui si dirà tra un istante (musica prodotta e missata da David Kahne, il CD può benissimo servire in auto o in quei lunghi viaggi in autobus o in metropolitana).

Suono chiaro e regia "musicale" con tagli appropriatissimi, il video mostra quel tanto del "lavoro di sartoria" che rende possibile capire da dove nasce quel bel vestito senza però guastare il piacere di ammirarlo. La Spektor è al pianoforte (ma è una cosa bizzarra di colore rossastro, con corde, di piccola taglia ma dal suono molto corposo e ricco di armonici: che sarà mai?), e ovviamente alla voce, con alle spalle un quartetto d'archi a metà strada tra la musica classica e gli arrangiamenti di George Martin per i Beatles, e un buon batterista, Dave Heilman, bravo sia nel tenere il tempo che nel lavoro di coloritura; riflettiamo su quanto potenzialmente distruttivo sia il lavoro del batterista in una musica che ha sempre la sua base in un groove pianistico - e si veda come la Spektor dà l'attacco alla batteria all'inizio di Fidelity, assicurandosi che "uno" sia dove dev'essere prima di iniziare a cantare il brano (il cui testo, sia detto per inciso, accosteremmo al famoso detto ellingtoniano "Music Is My Mistress").

Con alla spalle una formidabile preparazione classica e una conoscenza della musica "pop" e "rock" pochissimo sistematica e necessariamente ex post, se non altro per motivi anagrafici (a proposito: nata a Mosca nel 1980, emigrata a nove anni grazie alla Perestroika, e tutte quelle notizie una volta esclusivo appannaggio di chi riceveva i comunicati stampa - "allieva di quel prodigio del piano che è stata Sonia Vargas" - e che ora è possibile trovare facilmente su Wikipedia, quindi facchiù), la Spektor presenta delle evidenti influenze, ma cerchiamo di non essere troppo pigri nel gioco delle somiglianze. Si prenda quale esempio la tesa Après Moi: con minimi aggiustamenti - non pare già di ascoltare il lento rimbombo dei timpani di Guy Evans e il soffiare del sax soprano di David Jackson? - potrebbe essere un brano di un album di Peter Hammill di metà anni settanta; e pare quasi di poter vedere Hammill che solleva in aria il pugno. E' chiaro che escluderemmo senz'altro una frequentazione hammilliana da parte della Spektor, ma tra Hammill e Joni Mitchell questo brano risulta molto più vicino al primo che alla seconda.

Quel che qui intendiamo dire è che ci pare ancora preoccupantemente viva quell'abitudine che accomuna le somiglianze per sesso. Passati da "girl with guitar" a "girl with piano" - con adesso il "boy with laptop" - il pericolo è sempre quello di concepire un'estetica come "femminile", da cui quei paragoni che tirano in ballo non il piano, ma altre donne - e Ben Folds, dove lo mettiamo? Si dovrà invece riflettere sul fatto che lo studio del piano amplia la tavolozza armonica a disposizione e fa prendere confidenza con le soluzioni già trovate da chi ha poggiato le mani sui tasti prima di noi. (Me capiste?)

Il repertorio che la Spektor presenta in questo concerto è a dir poco strepitoso per qualità e varietà. Solido anche nei momenti volutamente più leggeri - da pezzi con chitarra sferragliante quali Bobbing For Apples e That Time a un gioioso hoedown di marca country quale Love, You're A Whore alla Silly Eye-Color Generalizations eseguita a cappella -, offre i salti d'ottava della Joni Mitchell di Court And Spark su Hotel Song, ricordi di commedia musicale su Sailor Song, la ritmicità contagiosa di brani quali On The Radio, Folding Chair, The Calculation, Us, Fidelity, la perfetta bizzarria di Dance Anthem Of The 80s, i misteri policromi di Laughing With, Blue Lips, Wallet, Man Of A Thousand Faces, Samson. E la lista potrebbe continuare. Quel che ci preme qui sottolineare è che la Spektor fa tutto bene, senza mai operare "tentativi". (Anche generosa nelle citazioni, quella che ha maggiormente sorpreso chi scrive essendo l'impianto vocale in perfetto stile Swingle Singers che appare in Two Birds, su Far.)

Lasciamo all'ascoltatore l'apprezzamento della Spektor cantante. Precisa, senza sbavature, ma lontanissima da ogni freddezza interpretativa, la Spektor fa sembrare semplice quello che canta grazie a mezzi tecnici notevolissimi e all'annegamento della precisione nell'emotività. Si ascolti la naturalezza con cui nella seconda parte di Laughing With le note lunghe vengono seguite da gruppetti di note brevi eseguite strette (una spaziatura cara anche al Frank Zappa melodico di certi assolo di chitarra o di alcune esposizioni tematiche alla marimba).

A questo punto ci pare giusto avvisare il lettore che sta per essergli chiesto un sovrappiù di attenzione. Trattasi di questione complessa (e va da sé che quella che stiamo per offrirgli non è niente più di un'interpretazione), che proveremo a introdurre così.

Sul finire del concerto, nel buio quasi completo, la Spektor inizia a eseguire uno dei suoi brani più famosi, Samson, per interrompersi bruscamente e poi scusarsi dicendo (con la voce con cui parla, che è molto diversa da quella con cui canta): "Sorry. It scared me.", per poi aggiungere, a mo' di spiegazione, "I'm easily spooked." Riteniamo non sia comune per un'artista essere spaventata da una sua creazione, ma dobbiamo dire che guardando questo concerto è facile vedere che la Spektor attribuisce alle cose dette (che ovviamente sta per "cantate", con inclusione di strumenti e orchestrazioni) una "consistenza" percepibile. E qui, prendendo la cosa molto alla lontana, ci è parso di percepire in non pochi articoli e recensioni da noi letti in Rete allo scopo di indagare la considerazione mediatica in cui è tenuta la Spektor (trattasi ovviamente dei colleghi degli Stati Uniti, ché l'Italia è esclusa in partenza per ovvi motivi - e bene ha fatto per una volta D a tradurre un pezzo apparso sul New York Times) più di una perplessità - che in qualche caso ci è parsa sfiorare il dileggio - riguardo certi modi della Spektor.

Diciamo allora che la concezione narrativa della Spektor è di tipo "obiettivo" (due sole parole basteranno: Eleanor Rigby). E che quindi le sue canzoni sono più vicine a romanzi, o storie, che alla scrittura "confessionale" alla quale i tempi ci hanno abituato. Continuando nell'azzardo, diremmo il mondo (narrativo!) della Spektor in qualche modo pre-moderno (per chi ama la precisione: in senso weberiano). E' un mondo in cui le cose hanno ancora un'anima, e la morte un senso. Invitiamo il lettore ad ascoltare Wallet (pezzo tra l'altro melodicamente avvincente): chi altri avrebbe potuto scrivere un testo così? Forse Ray Davis dei Kinks nel periodo Something Else/Village Green (e sono passati quasi cinquan'anni). C'è, ovviamente, un umanesimo di base. Ma, altrettanto ovviamente, quello non è (solo) un portafoglio.

Uno sguardo veloce alla discografia passata. Soviet Kitsch (2004) è embrionale, con la Spektor comprensibilmente insicura sul da farsi. Ci sono però già Ode To Divorce, Us e Sailor Song.




In copertina ritratto da vampiro in vacanza, Begin To Hope (2006) è album di grande successo. Ci sono molti bei pezzi poi riproposti in concerto, una bizzarria come Edit (a noi sembra il ritratto non molto lusinghiero di un produttore), e un paio di blues molto lodati (Lady, Summer In The City) ma che a parere di chi scrive dimostrano che la Spektor e il Blues non sono necessariamente una coppia ad alto grado di compatibilità. C'è anche un batterista atroce - Shawn Pelton, mai incontrato né prima né dopo - che suona con l'espressività di una drum machine da piano bar. L'album mostra una Spektor vocalmente molto cresciuta, ma ancora non abbastanza.




Far (2009) è l'album del botto commerciale. Contiene una buona parte dei brani presenti sul live di cui s'è detto, e altro ancora di buona fattura: Human Of The Year, Two Birds, Genius Next Door, One More Time With Feeling. La Spektor è enormemente cresciuta vocalmente, e la voce "siede" tra gli strumenti con maggiore naturalezza. Fa un po' ridere leggere quanti al tempo hanno espresso sonoro disappunto per quest'album "leccato", auspicando un ritorno ai climi secchi di Soviet Kitsch. Esiste una categoria di persone alla quale leggere tra i produttori il nome di Jeff Lynne provoca le convulsioni indipendentemente dai risultati, ma tant'è (se solo pubblicassero i CD senza accreditamenti...). Mike Elizondo produce quatto pezzi, e saggiamente si porta dietro un batterista che risponde al nome di Matt Chambelain (da noi per la prima volta apprezzato sull'album di esordio di Fiona Apple, Tidal).

E siamo all'oggi. What We Saw From The Cheap Seats sembra avere suscitato più di qualche perplessità tra i nostri colleghi d'oltreoceano, e qui cercheremo di offrire qualche elemento al dibattito. (Lasciamo da parte il fatto che non tutti i pezzi contenuti sull'album sono nuovi, una circostanza tutt'altro che inedita per la Spektor che qualcuno ha scoperto solo oggi.)

Il modo che ci sembra più corretto di inquadrare il nuovo album è quello di contrapporlo a Far. Laddove Far godeva di una cifra unitaria che gli dava una fisionomia globalmente coerente nonostante esso fosse frutto del lavoro di quattro produttori e delle loro diverse equipe, What We Saw From The Cheap Seats offre una varietà interna che diremmo senza precedenti su un album della Spektor, e ciò sebbene esso sia opera del lavoro di un solo produttore, Mike Elizondo (la Spektor co-produce). L'onestà intellettuale ci obbliga a mettere in chiaro che Elizondo non è il nostro produttore preferito, quindi potremmo essere colpevoli di eccesso di compensazione a suo favore. E certo mentiremmo se dicessimo di aver trovato di nostro gusto il modo in cui, qualche anno fa, Elizondo ha prodotto Extraordinary Machine di Fiona Apple.

Elizondo è però uomo competente, oltre che bassista di discreta levatura. Non nuoce di certo la circostanza che abbia deciso di portarsi dietro due bravi batteristi come Aaron Sterling e Jay Bellerose. La strumentazione è misurata, con qualche tocco extra in alcuni brani e la Spektor a occuparsi (bene) di pianoforte e tastiere varie. Se vediamo giusto, qui l'intenzione è quella di valorizzare ogni brano di per sé, rendendolo potenziale singolo di successo in grado di essere apprezzato indipendentemente dal resto dall'album. E certo il mosso calypso - un limbo? - intitolato Don't Leave Me (Ne Me Quitte Pas), da noi ascoltato al supermercato pochi giorni fa, faceva davvero un figurone. Ma arrangiamenti scarni implicano (d'accordo, non di necessità) suoni "grossi", e in questo senso l'album non fa eccezione. Ma va anche detto che - a parte noi stessi - non conosciamo nessuno che ci espliciti questo tipo di critiche, quindi diremmo il punto non terribilmente importante per il gradimento della più parte delle persone (e sia dato merito a Elizondo: paragonato a questo, la maggior parte degli album che ci capita di ascoltare non dovrebbe neanche uscire) (però paragonato al nuovo album di Fiona Apple questo suona come un pezzo di plastica).

Paradossi. How è forse la più bella interpretazione "classica" offerta dalla Spektor su album, qualcosa che ci riporta alla mente Percy Sledge e Otis Redding - e, forse più appropriatamente, la Aretha Franklin prodotta da Arif Mardin. Si ascolti il modo in cui viene cantato quello che qui è il verso chiave - "You are a guest here now" - e la sapiente pausa che segue. Domanda. E se questo pezzo andasse primo in classifica e diventasse parte del repertorio di American Idol, che penseremmo? Nel senso di: in quanto tempo non ne potremmo più? D'accordo, dopo quarantacinque anni ascoltiamo ancora con piacere Penny Lane, però...

Small Town Moon è una bella apertura, con un "inserto" strumentale che ci ricorda non poco Fiona Apple. Oh Marcello è un brano divertente di grande intelligenza - e qual è l'episodio di La Dolce Vita che rimane più in mente? Oh Marcello, appunto, qui con contorno di musiche laziali, la Madonna e i killer, e un uso di "Don't Let Me Be Misunderstood" che ci pare auto-evidente ("I'm just a soul whose intentions are good" (...) "Understood?").

Don't Leave Me (Ne Me Quitte Pas) è il calypso di cui s'è detto, con bella sezione fiati. Firewood è la vetta dell'album, una meditazione sulla morte che abita una appropriata metafora.

Patron Saint è un bel brano che forse soffre per essere schiacciato tra Firewood e How, altro brano di cui s'è già detto.

All The Rowboats è strumentalmente mossa e con un argomento che diremmo poco comune (forse, ai tempi, i Gentle Giant...).

Non dispiace la drammaticità di Ballad Of A Politician, ma è Open che è un'altra vetta dell'album, un misterioso quadro raggelato che lasciamo all'interpretazione del lettore.

The Party è un brano di qualità eccellente che non ha certo bisogno di spiegazioni. Si noti come la Spektor canti la prima e l'ultima strofe utilizzando una voce molto vicina a quella del parlato. E' questa la vera chiusa.

La breve Jessica fornisce all'album un'appropriata risoluzione.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2012

CloudsandClocks.net | July 28, 2012