Soft Heap
Al Dente

(Reel Recordings)

Fu grosso modo a metà degli anni settanta che quell'insieme di "correnti parallele" mai veramente "commerciali" che per motivi di comodità siamo soliti porre sotto il nome collettivo di "New English Jazz" giunse al capolinea. Un triste destino che superando d'un balzo le non poche differenze stilistiche esistenti rese quei gruppi compagni di dolore di formazioni di "Progressive Signorile" quali gli Hatfield And The North. Di lì a poco gli uni e gli altri sarebbero rimasti vittima del "fuoco amico" del Punk, o per meglio dire di quella stampa modaiola Made in UK che, preso come "uomo di paglia" il Prog inteso come vuoto gigantismo, assecondò cinicamente i complessi di inferiorità di un pubblico desideroso di brividi a buon mercato.

Pur in una cornice di "aspettazioni decrescenti" non furono pochi quelli che accolsero con simpatia l'apparire di una nuova sigla che se da un lato strizzava l'occhio al passato - Soft - dall'altro rimescolava le carte - Head, ovverosia le iniziali dei componenti. E se i nomi di Hugh Hopper ed Elton Dean rimandavano al gruppo tanto amato, quelli del pianista elettrico Alan Gowen e del batterista Dave Sheen sembravano promettere una nuova freschezza, se non un nuovo linguaggio.

Uscito nel 1978 per la Ogun, Rogue Element era riuscito a tradurre l'esperienza dal vivo in un piacevole ascolto casalingo con l'ausilio di un buon missaggio e di un sapiente editaggio. Se l'iniziale Seven For Lee di Dean si candidava immediatamente a piccolo classico di un periodo (se dignitoso ma minore o minore ma dignitoso è faccenda che ognuno dovrà decidere da sé), la lunga C.R.R.C. di Gowen mostrava il quartetto muoversi secondo nuove coordinate.

Causa "attenzione selettiva" da parte della stampa non sappiamo come sia stato accolto l'album successivo a nome Soft Heap, laddove la P era quella di una vecchia conoscenza, il batterista Pip Pyle. Chi scrive rimase molto deluso, e fu proprio dopo quell'acquisto infelice che incominciammo a porci qualche domanda in più. Niente sembrava funzionare in quel disco, da un suono di studio soffocato e anonimo a un quartetto sfocato e incerto sul da farsi. Gowen appariva mediocre, Hopper e Dean stanchi, e certo non è questo il primo disco che proporremmo a chi non abbia mai ascoltato Pip Pyle, qui davvero irriconoscibile.

E' con una buona dose di ambivalenza che abbiamo quindi accolto la pubblicazione di questo Al Dente dei Soft Heap, che già a partire dalla copertina a carattere culinario cita quell'album a noi sgradito. Ed è stato con una buona dose di sorpresa che ci siamo accorti del lento formarsi di un parere favorevole. Con due avvertenze importanti.

Come facilmente riscontrabile in Rete, l'etichetta Reel Recordings ci tiene a pubblicare documenti live dal suono caldo e quanto più possibile perfetto. Cosa che potrebbe senz'altro risultare sconcertante per quanti, ascoltato Al Dente, sarebbero tentati di definirlo al più come un bootleg mid-fi. Il che è vero. Ma dato che in questo caso la fonte è una bobina registrata in stereo su nastro a bassa velocità (3 & 3/4) occorre mettere il tutto nel giusto contesto e considerare il CD come una preziosa scoperta che di certo non ferirà le orecchie. Fatta l'abitudine, e ponendo la giusta dose d'attenzione (ma forse oggi chiediamo troppo), diventa facile notare preziosismi quali il lavoro di cassa di Pyle o la naturalezza con cui le corde del basso rispondono alla forza del tocco hopperiano, ovvio segno di una compressione tenuta a bada.

La seconda avvertenza riguarda il fatto che in realtà Al Dente potrebbe suonare meglio di come ci è parso: essendo il nostro CD player abituale ancora affidato alle cure del nostro laboratorio tecnico di fiducia, per valutare Al Dente abbiamo usato una cosa così, con gli LP cui si è fatto riferimento riprodotti tramite il nostro insieme piatto/testina abituale.

Al Dente riproduce un concerto effettuato nel londinese Phoenix Club il 22 novembre del 1978. Sei i brani, settanta minuti la durata. Stimolante riflettere sul carattere di questa formazione. Alan Gowen è pianista elettrico molto diverso da Mike Ratledge, proverbialmente poco loquace in accompagnamento. A differenza di Ratledge, dietro Gowen si intravede una lunga frequentazione del "comping" jazzistico ortodosso, con sostituzione degli accordi e parallelismi melodici nei confronti del solista. Pip Pyle è qui quasi una versione più "robusta & muscolosa" di Phil Howard - e chissà quale sarebbe stato il destino dei Soft Machine se nel gruppo fosse entrato un Pyle così invece di un John Marshall.

Fara è la bella ballad bluesy - un "sensitive theme" mid-tempo quasi à la Sonny Rollins - che già conosciamo, con sax alto dell'autore, scansione elegante sui piatti e buon accompagnamento di basso e piano; quest'ultimo - enunciata la struttura - cammina poi in parallelo al sassofono. Buon solo di Gowen a 7' ca., con bel contrappunto di Pyle.

Sleeping House è un inedito di Gowen. Tempo medium-fast, Hopper mobile al basso, assolo di saxello tipicamente "acidulo". A 7' ca. bel passaggio all'unisono di saxello e basso, poi assolo di piano con una ritmica quasi Hopper/Howard. A 11' ca. bell'unisono basso/batteria, cambio di tempo e begli accenti basso/cassa. Dopo quasi un quarto d'ora, finale non poco Soft Machine.

C.R.R.C. è lento e ciclico, lirico, con i tamburi di Pyle decisamente "neri". Bel solo di piano a 10', su ostinato e crescendo basso/batteria. A 12' ca. un taglio conduce a...

Circle Line: classico tema "contorto" di Hopper per un brano dove il basso ha parti melodiche all'unisono con sax e piano. Assolo di piano, poi un'eccellente parte basso/batteria - piatto, cassa, crash e rimshot. Tema sax/basso, e chiusa a 6'.

Lenta e lirica, la Remain So di Gowen ha un'aria quasi da standard. Assolo di sax su tema, accompagnamento classico, il piano che va in assolo a 9'30 ca., tema e chiusa a 17'.

Chiude la nota aria melodica del brano di Elton Dean qui denominato One For Lee. Ottimi assolo di piano e sassofono, ottimo Pyle, chiusa.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2008

CloudsandClocks.net | June 26, 2008