Play Station 6
#1

(Evil Rabbit Records)

Tra i "generi" musicali che frequentiamo, quello convenzionalmente denominato "musica improvvisata" è forse quello a proposito del quale più spesso ci interroghiamo. Da un lato la (vastissima) pluralità di approcci, l'(ormai)altissima qualità media di quanto viene pubblicato, la (relativa) facilità di fruizione dovuta al più favorevole rapporto segnale/rumore del CD rispetto al vinile, il sedimentare di "linguaggi" (sia personali che condivisi) di ancor fresca bellezza la rendono una cosa di cui è piacevole occuparsi. Dall'altro, a onta di chiassosi (ed effimeri) exploit legati a elementi di moda (e qui diremmo il laptop un buon esempio recente), tutto il "genere" rimane appannaggio di un pubblico poco numeroso (di tanto in tanto arriviamo perfino a dubitare del fatto che gli ascoltatori siano in numero maggiore dei suonatori); mentre l'aumento incontrollato delle musiche che, sconfitte dal mercato, cercano dignità (e fondi!) in rassegne che godono di finanziamenti pubblici pone gli improvvisatori in una posizione di indubbio svantaggio nei confronti di coloro i quali, pur poveri, hanno però un nome maggiormente spendibile.

Sono pensieri che si riaffacciano alla mente soprattutto quando ci capita di ascoltare un album come quello del sestetto denominato Play Station 6. Musicisti di una certa notorietà (ci arriviamo tra un attimo) per un approccio alla musica che diremmo di agevole definizione: non si indaga qui sulla "particellarità", la "grana", del suono; ma si combinano approcci strumentali per un qualcosa che è inedito, pur se non "inedito". Detto della provenienza geografica (cinque olandesi, un tedesco) e della strumentazione (fiati, archi e percussioni) crediamo non sia impossibile per il lettore iniziare a formarsi un'immagine mentale. L'album è stato registrato da Stefan Deistler a Colonia e missato e masterizzato da Frank Van Der Weij ad Amsterdam: suona limpido, trae giovamento da un po' di volume in più sull'amplificatore.

I musicisti per noi meno noti sono Achim Kaufmann, al piano, anche preparato, e Meinrad Kneer, al contrabbasso. Tra i padri fondatori dell'improvvisazione europea, Paul Lovens ha perfezionato il suo approccio in una gamma di situazioni che va da formazioni ampie come la Globe Unity Orchestra a duetti con l'altro percussionista Paul Lytton. Conosciuta negli anni ottanta nei gruppi di Maarten Altena, rivista nella Instant Composers Pool Orchestra di Misha Mengelberg, diremmo la violinista Maartje ten Hoorn ormai decisamente nota (segnaliamo il suo bel CD per quartetto d'archi intitolato Sparkles). Una volta "nomi giovani", oggi affermate realtà che non necessitano di presentazione, completano il sestetto il clarinettista e sassofonista (tenore) Tobias Delius e il cornettista Eric Boeren: i due elementi che più spesso fanno qui trapelare intenzioni "jazz".

(Sia concessa una parentesi personale: anche se conosciamo Boeren dai tempi in cui militava nella formazione di Altena, nonostante notevoli sforzi non siamo mai riusciti a procurarci una copia degli album nei quali è leader, recensiti favorevolmente su Down Beat e ospitati sulla Penguin Guide To Jazz On CD. Pare che subito dopo la stampa i 4/5 dei CD vengano inviati a un distributore negli Stati Uniti, il rimanente a negozi di Londra. E noi?)

Le sei individualità si sposano alla perfezione. Il jazz viene fuori di tanto in tanto - in apertura di CD, la breve Somorrostro ci ha riportato alla mente il tema dell'ornettiano Free Jazz; jazz, e irruente, il sax tenore sostenuto da piano e contrabbasso di Man With Scythe; e così la lunga Bravas, che a partire da 4' ha un andamento quasi Free. Non sorprendentemente, aleggia spesso una "pronuncia" classica, cui si appoggia sapientemente, con bel contrasto, la gustosa cornetta sordinata di Boeren.

Molto belli sono Glorie Van Holland, per certi versi un buon riassunto dell'album; Misty; la lunga Unprepared; Alone, con bella apertura del solo contrabbasso e buon lavoro di sax tenore; la cogitabonda Outside Inside; Majo's Retreat, con percussioni "africane" e bel clarinetto "cool": per chi scrive il vertice dell'album, per certi versi accostabile a certe pagine del miglior Anthony Davis. Ma è tutto l'album a essere bello e - date le coordinate di cui s'è detto - decisamente accessibile.

La copertina ci dice che tutti i brani sono frutto di "live improvisations, no overdubs, no edits", e non abbiamo motivo di dubitarne. Ma tutti i brani, a onta dell'evidente "imprevedibilità", presentano un aspetto compiuto che è davvero prodigioso. (E che dire di The Black Box? Aprono violino e clarinetto più ritmica, ma poi - a 1'15" - c'è uno stacco, e poi un inserirsi di piano, e piatti, che lascia piacevolmente perplessi.)

Beppe Colli


© Beppe Colli 2007

CloudsandClocks.net | Apr. 1, 2007