Phish
Joy

(JEMP)

Giunto il 2000, dopo un periodo che retrospettivamente era fin troppo facile definire di stanca, i Phish si erano sciolti. O per meglio dire, avevano dato inizio a un "extended hiatus" di durata (ovviamente) non prevista. Erano quindi iniziati i percorsi solisti, e tutto era andato avanti senza vette particolarmente esaltanti fino al (tacitamente atteso) momento della ricostituzione. Pubblicato alla fine del 2002, il rilassato e creativamente brillante Round Room aveva dimostrato quanto quella pausa fosse stata necessaria e salutare. Tutto era sembrato tornare felicemente alla normalità, ma si era ancora alle soglie dell'estate del 2004 quando Trey Anastasio, chitarrista e primo compositore del quartetto, aveva fatto esplodere l'inatteso annuncio: il gruppo si scioglie, e stavolta è per sempre.

Pubblicato a ridosso di quella strana notizia, Undermind era sembrato dire senza margini di ambiguità che all'interno del gruppo qualcosa (o forse molto) non aveva funzionato. Alla produzione, registrazione e missaggio, Tchad Blake era parso andarci giù pesante con echi, riverberi e disposizione spaziale, ma forse il materiale disponibile non gli aveva consentito migliori alternative. Una brutta fine che lasciava l'amaro in bocca.

Si tornava quindi alle carriere soliste, quella di Anastasio (appropriatamente) frenetica sino al giorno in cui giungeva notizia di un suo arresto per detenzione di varie sostanze. Non abbiamo difficoltà ad ammettere che la cosa ci stupì non poco: al di là dell'attitudine "ricreativa" e della normale necessità di entrare in una migliore comunicazione (interiore e reciproca), l'atteggiamento di Anastasio ci era sempre parso improntato a una disciplina (serena, quasi Zen, ma disciplina: si guardi l'atteggiamento rilassato delle dita della mano sinistra sul manico della chitarra in un qualunque video) che faceva a pugni con la riferita "perdita di controllo".

Siamo all'oggi: più o meno un anno fa le prime indiscrezioni degne di nota, poi le conferme, poi l'annuncio, e nel marzo di quest'anno l'atteso ritorno con tre concerti nel familiare Hampton Coliseum ad Hampton, in Virginia. Poi l'annuncio di un nuovo album con la produzione di Steve Lillywhite. E qui i fan hanno letteralmente trattenuto il respiro: non è forse Billy Breathes (1996) universalmente considerato quale il migliore lavoro di studio del quartetto del Vermont?

Intitolato Joy, il nuovo album è stato pubblicato lo scorso otto settembre, e stavolta i Phish hanno deciso di scegliere la strada dell'etichetta autogestita: una mossa a ben vedere logica nell'attuale cornice di disfacimento delle major, e ancor di più per un gruppo che da sempre ha visto il palco quale "luogo naturale" e che perciò ha da sempre un vasto stuolo di fan sfegatati a seguirne le mosse. Quindi poca spinta pubblicitaria, e (logicamente?) non molte recensioni.

Com'è forse comprensibile, buona parte dei colleghi statunitensi ha cercato nei testi e nell'atmosfera complessiva dell'album i segni delle ben note vicende di Anastasio. Sembra però che non molti abbiano notato la circostanza della recente scomparsa (per malattia grave) della sorella di Anastasio, una foto della quale compare nella penultima pagina del libretto del CD. Va a questo punto ricordato che, come d'abitudine da tempo immemore, i testi delle canzoni sono scritti per la quasi totalità da Tom Marshall, vecchio amico di Anastasio. Va da sé che parlare di calendari, bilanci e tempo che passa porta con sé una scelta di atmosfera, ma questo è un aspetto che lasciamo volentieri all'esplorazione del lettore (il libretto riproduce fedelmente tutti i testi).

Allora, quanto somiglia a Billy Breathes? Per niente. O per meglio dire, ci sono un paio di occasioni (l'inizio di Joy, la prima parte di Twenty Years Later) in cui è facilissimo riconoscere gruppo, cantante e suono. Ma qui è piuttosto la funzione narrativa delle parti a "imporre" uno stile di produzione. E il resto? Il resto mostra brillantemente come Steve Lillywhite abbia saputo creare la quadratura del cerchio: un album di studio che suona come un album dal vivo. Sembra troppo facile?

Eccezion fatta per alcuni (brillanti) momenti in stile "jam", Bryce Goggin aveva mostrato su Round Room quattro musicisti in una stanza intenti a riprendere confidenza l'uno con l'altro. La scelta di Lillywhite (che immaginiamo preceduta da un buon numero di giorni di prove) è stata invece quella di mostrare un gruppo che si rivolge compatto all'ascoltatore. Il suono è asciutto, la strumentazione quella base con pochissime sovraincisioni: alcune parti vocali, il pianoforte doppiato dall'organo e poco più. Il risultato finale mostra un concerto "ideale" dove i piani variano spesso (ma con grande naturalezza) allo scopo di assecondare al meglio composizione ed esecuzione. E qui possiamo dire senza tema di smentite che l'album è eccellente. Ma ribadiamo: il suono va ascoltato come un tutto.

Le parti batteristiche di Jon Fishman si confermano stimolanti e inventive; ascoltando l'album ci è capitato di pensare a quanto spesso diamo per scontate la sua bravura e la sua (enorme) versatilità. L'apporto bassistico di Mike Gordon ci è parso più carico e grintoso che nel recente passato, e fantasioso al suo (ottimo) solito. Bello il lavoro di Page McConnell a pianoforte (il suo strumento principale su quest'album) e organo (diremmo un Hammond B 3 con vibrante Leslie); il lavoro del piano (spesso a sinistra, intenso contrappunto agli assolo di Anastasio, posti logicamente sulla destra) è sulle prime poco appariscente: invitiamo il lettore a un quantum supplementare di attenzione. Anastasio suona bene al suo solito: belle ritmiche, assolo espressivi e dagli stili multiformi.

Joy è suddiviso in dieci brani per un totale di cinquantatre minuti. Fatta eccezione per I Been Around (un breve divertissement dal sapore blues firmato McConnell) e per Time Turns Elastic (una composizione completamente scritta di oltre tredici minuti già eseguita da ensemble orchestrali) tutti i brani si aggirano intorno ai cinque minuti.

L'agrodolce Backwards Down The Number Line apre con un sapore fortemente bluegrass. Logico ricordarsi dei Greateful Dead, in primis ascoltando l'assolo di chitarra di Anastasio decisamente in stile Jerry Garcia.

Stealing Time From The Faulty Plan è un teso rock-blues psichedelico contraddistinto da grande uso di echi e riverberi con un particolarissimo lavoro sulla sibilante di "space" che viene fatta viaggiare tra i due canali dello stereo. Assolo di chitarra appropriatamente teso e nervoso che per suono e fraseggio ci ha ricordato non poco il Frank Zappa di Shut Up...

Joy parte come una semplice e suggestiva ballata acustica che si arricchisce strada facendo. Piccolo e garbato assolo di chitarra, bellissimo inciso non poco beatlesiano.

Firmata da Gordon, la briosa Sugar Shack è un reggae/calypso di efficacissima esecuzione. Clavinet e un pizzico di synth fanno qui una breve apparizione.

Ocelot ha un bellissimo levare swing, un ottimo sviluppo melodico, una esecuzione accurata, e una citazione (letterale) dei Beatles in chiusura.

Kill Devil Falls è un rock che ci ricordato non poco la Chalk Dust Torture già apparsa su A Picture Of Nectar, in special modo la parte strumentale finale.

Light è una vera perla psichedelica. Inizio suggestivo, sviluppo che a nostro avviso deve non poco ai Jefferson Airplane di Volunteers con Nicky Hopkins al piano. Una bella canzone che viene fuori alla distanza.

I Been Around è il breve e scherzoso blues di cui s'è già detto.

I recensori americani non sono stati teneri con Time Turns Elastic, la cui lunga parte strumentale centrale è stata detta ricordare ora i Genesis ora gli Emerson, Lake & Phish (!). Da parte nostra la diremmo un'esecuzione millimetrica di un brano decisamente difficile. Le parti cantate sono molto belle e godono di un appropriato apporto strumentale (il finale ci ha ricordato non poco il classicismo degli Who di Quadrophenia). Per quanto riguarda il lungo inserto centrale sappiamo da tempo che la scrittura orchestrale di Anastasio è dichiaratamente melodica e meno "avant-garde" della sua scrittura rock, ma non diremmo che ciò basti a qualificarla così poveramente.

Si chiude. Twenty Years Later parte come se il narratore tentasse una summa di molte cose per poi svilupparsi in un emozionante collettivo vocale sostenuto da una parte strumentale decisamente intensa. Gran bell'inciso, ed eccellente assolo di Anastasio con i classici salti di corda e armonici al limite del feedback. Sarebbe la chiusa perfetta (ancorché prevedibile), ma dopo una pausa infinitesimale parte un riff sghembo, poi batteria incalzante, piatti in phasing, chitarra con tremolo, voci tutte dietro, per un'aria decisamente onirica dalle tinte scure che sembra quasi ribaltare il senso del brano, mentre tra la nebbia pare di scorgere... Jimi Hendrix?

Beppe Colli


© Beppe Colli 2009

CloudsandClocks.net | Sept. 20, 2009