Amy X Neuburg
The Secret Language Of Subways

(MinMax Music)

Buffo accorgersi che sono già trascorsi cinque anni dalla pubblicazione di Residue, album che segnava la definitiva maturazione artistica di Amy X Neuburg mentre ne era contemporaneamente il punto più alto in termini di organizzazione del materiale in quella dimensione "solo" successiva allo scioglimento dell'eclettica formazione denominata Amy X Neuburg & Men. E se è vero che "eclettico" potrebbe (da sempre) essere il secondo nome di Amy X Neuburg, Residue sembrava spostare il focus del lavoro artistico in direzione di una maggiore "serietà" dei toni compositivi. Anche se non mancavano quei momenti scherzosi e ironici che avevano costituito per certi versi la quintessenza della dimensione artistica della disciolta formazione (ma che non ne erano certamente "tutta la storia"), qui l'attenzione del compositore si rivolgeva a preoccupazioni che si annunciavano immediatamente come "serie".

Nel corso di un'intervista da noi realizzata a ridosso della pubblicazione dell'album, Amy X Neuburg ci aveva detto: "Il mio prossimo grosso progetto sarà un lavoro teatrale su larga scala (e un CD) di canzoni ispirate da New York per voce ed elettronica più tre violoncellisti. Ci potrebbero volere un paio d'anni prima che questo lavoro venga realizzato". Il CD intitolato The Secret Language Of Subways vede la Neuburg affiancata da The Cello ChiXtet: tre musiciste dalle notevoli capacità esecutive (ovviamente) e dall'ampio retroterra di esperienze che rispondono ai nomi di Jessica Ivry, Elaine Kreston e Elizabeth Vandervennet. Come d'abitudine, la Neuburg si occupa di batteria, percussioni, elettronica, trattamenti e parti vocali. Le note di copertina dell'album ci parlano di un "song cycle" che nella sua dimensione dal vivo vede trattamenti e stratificazioni eseguiti in tempo reale.

Il non poco tempo trascorso negli ascolti ci consente di dire con una certa dose di tranquillità che The Secret Language Of Subways è un lavoro di notevole spessore: complesso ma non "difficile", eclettico ma gestito con mano sicura e logica impeccabile, "post-moderno" quanto basta (nel senso del linguaggio) ma tutt'altro che reticente nell'esprimere un giudizio e nello scegliere da che parte stare. Se i linguaggi adoperati sono molti, e molto diversi, le doti tecniche ed esecutive delle tre violoncelliste non sono certo da meno. Come sempre complessa la narrativa (verbale), che sfugge a facili decifrazioni mentre offre numerosi rimandi e instaura un rapporto ricco e complesso con la musica. Bello il suono registrato, che invita ad alzare senza timore la manopola del volume.

Tutto bene, quindi? Crediamo utile offrire al lettore un piccolo avvertimento: quanto più il linguaggio frequentato e gradito è prevalentemente quello "rock" (e ciò include anche le convenzioni riguardanti i suoni) tanto più diremmo The Secret Language Of Subways album in grado di suscitare problemi di "adattamento". In questo senso indicheremmo senz'altro in Residue l'appropriato punto di partenza per chi non avesse mai ascoltato l'artista.

One Lie si apre con un tono meditativo (e con le prime note vocali a viaggiare curiosamente in parallelo a quelle che su Residue aprivano Finally Black) su suoni d'ambiente, ingresso graduale dei violoncelli, e un tono prima intimo poi progressivamente concitato. The Closing Doors apre con un ostinato di violoncello dal sapore "minimalista", poi un secondo violoncello, e il terzo poi all'unisono con l'entrata di voce; c'è un'atmosfera "filmica", e bruschi cambi di tempo. Difficult apre con una sequenza ipnotica di synth basso, seguito dai violoncelli, e con i suoi stacchi percussivi riporta al periodo dei Men; bella l'aria finale con unisono voce/violoncello. Tongues è una "improvvisazione strutturata" di bella riuscita: inizio "drone" per violoncelli e tastiera, sviluppo "rumoristico", coda mesta. Someone Else's Sleep è per chi scrive la vetta dell'album: anche qui un cadenzato/ostinato percussivo che riporta al periodo dei Men, bello sviluppo melodico (e la parola "Lovers" che sembra uno splice da un brano di Joni Mitchell!), e un "inciso" assolutamente strepitoso dove pare di cogliere qualche traccia dell'amica e collega Emily Bezar; bella chiusa per voce e violoncello all'unisono.

L'album a questo punto si prende (quella che chi scrive definirebbe come) una pausa scherzosa. The Gooseneck è breve e leggera, This Loud apre con un ostinato di pianoforte che diremmo non poco beatlesiano, con un'aria complessiva da colonna sonora di commedia musicale degli anni sessanta.

La seconda parte dell'album è a nostro parere discontinua. Non ci hanno granché convinto Be Careful (in direzione Kurt Weill?) e Dada Exhibit: certamente piacevoli qualora ascoltate solo una volta su un palco ma che diremmo perdere spessore con il succedersi degli ascolti.

Ma ci sono anche tre perle. Body Parts ha un andamento mosso, una strumentazione "rock" e una scansione verbale che diremmo non lontanissima dal rap, con contorno di raffiche di mitra. Hey è un ¾ dal sapore sorprendentemente "folk", e ancor più sorprendentemente offre voce e fraseggio che ci hanno ricordato Ani DiFranco; molto bello l'interludio strumentale dal sapore di giga. Shrapnel è un'ottima chiusa, una gran bella canzone con voci multiple.

A mo' di bis, chiude un rifacimento della vecchia (e purtroppo non molto nota a chi scrive) Back In NYC dei (vecchi) Genesis.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2009

CloudsandClocks.net | Sept. 13, 2009