Roscoe Mitchell
Composition/Improvisation Nos. 1, 2 & 3

(ECM)

"Moderno classico", Roscoe Mitchell è oggi perfetto rappresentante della categoria denominata "avanguardia permanente": una definizione (se non andiamo errati coniata dal critico statunitense Francis Davis in riferimento a Ornette Coleman) che succintamente indica un insieme di innovazioni musicali destinate a non essere mai assorbite dal mainstream.

Nonostante uno status forzatamente marginale Mitchell non si è mai perso d'animo, mantenendo negli anni un altissimo standard qualitativo sia in studio che dal vivo. Pressoché obbligatorio il riferimento alle innovazioni incorporate in Sound (1966), parimenti scontato indicare in Fanfare For The Warriors (1974) il miglior esempio di ciò che rendeva speciale il collettivo denominato Art Ensemble Of Chicago. Ma il presente di Mitchell non sfigura, come ben dimostrano Nine To Get Ready (1999) e Song For My Sister (2002), i due album incisi dal nonetto a "identità variabili" denominato Note Factory, e il recente Turn (2005), per quintetto.

Sono invece le informazioni che cominciano a latitare, da cui il perenne dubbio di essersi persi qualche puntata della storia; e sarebbe davvero bizzarro se il futuro ci riservasse uno scenario discografico "alla Lacy", con un CD fatto in Francia per i francesi, uno in Italia per gli italiani, uno in Giappone per i giapponesi e uno in America per gli americani; un risultato paradossale per un mondo in cui procurarsi un album grazie a Internet è la cosa più facile, ma dove la sovrabbondanza di informazioni disponibili proprio grazie a Internet aumenta enormemente la possibilità di perdersi. Benvenuto, quindi, un album in grado di godere di maggiore visibilità.

Dobbiamo confessare che ci eravamo completamente dimenticati di questo "progetto transatlantico" di cui avevamo avuto notizia qualche anno fa (e qui chi crede nell'esistenza del subconscio potrà iniziare a formulare qualche ipotesi): una collaborazione tra Roscoe Mitchell ed Evan Parker, con appropriato contorno di "musicisti di fiducia". Le note del libretto ci dicono di "specially commissioned pieces": una definizione che unita a "World Premiere" ci fa sempre temere il peggio. Diciamo che le note di copertina ci sono parse stranamente brevi ed elusive, soprattutto in considerazione del fatto che il libretto non è tirchio in quanto a numero di pagine, occupate perlopiù da foto; e anche il ricorso alla Rete - sito dell'etichetta, e della manifestazione appaltante - non ci ha pienamente soddisfatto. (E a ogni modo: si sborsano diciotto euro e poi bisogna anche andare a cercarsi le informazioni in Rete?)

Per questo "Transatlantic Art Ensemble" Mitchell (impegnato al sax soprano) ha portato con sé tutti collaboratori abituali: Tani Tabbal (batteria e percussioni), Jaribu Shahid (contrabbasso), Craig Taborn (pianoforte) e Corey Wilkes (tromba e flicorno); mentre Anders Svanoe (sax alto e baritono) e Nils Bultmann (viola) erano apparsi sul già citato Song For My Sister. Accanto a Evan Parker (sax soprano e tenore) troviamo musicisti il cui nome associamo al suo: Neil Metcalfe (flauto), Philipp Wachsmann (violino), Marcio Mattos (violoncello), Barry Guy (contrabbasso) e Paul Lytton (batteria e percussioni). Dobbiamo confessare la nostra scarsa familiarità con John Rangecroft (clarinetto).

Titolo dell'album Composition/Improvisation Nos. 1, 2 & 3, siamo nel territorio tipicamente mitchelliano della "scored improvisation" (va bene "improvvisazione guidata"?). La cosa buffa? Che a differenza di quanto accaduto in passato (ma non abbiamo mai avuto modo di ascoltare i brani scritti da Mitchell per formazioni classiche) ci siamo accorti che, a tratti, in caso di ascolto "al buio", non avremmo saputo dire chi stavamo ascoltando; mentre in altri momenti avremmo indicato una qualche formazione di Evan Parker. Ma forse è solo una questione di colori strumentali?

L'album (molto lungo, ottanta minuti: troppo) è diviso in otto tracce di lunghezza ampiamente diseguale. Ci hanno lasciati perplessi i tredici minuti di I, che vede protagonisti gli archi, sia in solo che in ensemble. La breve II fa seguire tre minuti di percussioni da un minuto di fiati che compaiono a uno a uno, come luci nel buio: un gesto compositivo tipicamente mitchelliano. La lunga III (diciotto minuti) inizia curiosamente, con un misto di swing e incedere varesiano che avremmo potuto scambiare per un inedito zappiano da 200 Motels o da The Grand Wazoo; segue un lungo momento di Evan Parker solo al tenore, progressivamente avvolto dall'intero ensemble per un insieme bello ed efficace ma già ascoltato in precedenza su altri album di Mitchell.

Tutti abbastanza brevi, IV, V e VI ricorrono allo stesso formato: uno strumento in assolo (il clarinetto per IV, il flauto per V, la tromba per VI) poi affiancato da altre voci; tutti bei momenti, ma tutt'altro che memorabili e con qualcosa di episodico. Funziona molto meglio VII: la formula è la stessa, ma la durata maggiore (nove minuti) e la bella performance del sax baritono producono un mix tra vecchie performance mitchelliane e certi profumi mingusiani che è senz'altro il vertice dell'album.

Non imperdibile ma bello il quarto d'ora di VIII, che non annoia a onta della sua lunghezza; buon pianoforte, bella tromba (anche con sordina), e un buon impiego dell'ensemble. Chiude "così" IX, sei minuti il cui torto principale è forse quello di venire per ultimi.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2007

CloudsandClocks.net | May 15, 2007