The Microscopic Septet
Lobster Leaps In

(Cuneiform)

E' già trascorso un ventennio da quando la bizzarra formazione statunitense di "para-jazz" denominata Microscopic Septet diede alle stampe il suo quarto e ultimo album. Beauty Based On Science (The Visit) fu per certi versi l'apice della carriera (e qui diremmo che mai parola fu meno appropriata) di un gruppo decisamente originale e senz'altro poco compreso. Com'è noto, il vero scioglimento avvenne solo qualche anno più tardi, quando i sette dovettero ammettere a malincuore che le cose non sarebbero più cambiate (se non in peggio). Mettiamo per un momento da parte l'aspetto monetario (non è solo sul palco che si costruiscono le carriere); quel che è per certi versi curioso, considerato che la musica dei Microscopic Septet non è affatto difficile, è che né il pubblico né la critica furono a ben vedere prodighi di calore e di apprezzamento nei loro confronti. Il che potrebbe portare a discutere di cose scomode quali "logica sottile" e similia.

Diremmo che la ristampa in formato CD dell'intero catalogo (con aggiunte) avvenuta due anni fa (si tratta dei due volumi di History Of The Micros denominati rispettivamente Seven Men In Neckties e Surrealistic Swing) non ha propiziato una rivalutazione, o un fresco apprezzamento, della musica del gruppo. Né a dire il vero ce lo saremmo aspettato, dato che le caratteristiche - di questa musica da un lato, e del sistema dei media dall'altro - che contribuivano a rendere questo gruppo una "non entità" sono ancora vive e operanti.

Era stata proprio questa nostra "non aspettazione" a renderci sulle prime misterioso l'atteggiamento che ci era sembrato di cogliere nelle parole pronunciate due anni fa da Phillip Johnston nel corso dell'intervista da noi effettuata in occasione di quelle ristampe. Ci parve allora di capire che per Johnston quello dei Microscopic Septet era un capitolo mai veramente chiuso, una sorta di "unfinished business" che il compositore e band-leader sentiva ancora vicino, e non solo in senso sentimentale. Ragion per cui fummo contenti di apprendere di qualche concerto e di un nuovo CD contenente materiale "vintage" (da un punto di vista compositivo) ma di fresca esecuzione.

Contentezza non esente, com'è ovvio, da timore. E per tutta una serie di motivi. Innanzitutto, è vero che è sempre possibile dire che la musica scritta da Johnston (e dal pianista Joel Forrester, l'altro compositore principale del gruppo), non essendo mai stata davvero "nuova", non può mai essere davvero "vecchia"; ma in realtà una maniera di "con-porre" è tipica di un tempo e di un luogo. Poi, perché quella del Microscopic Septet è una musica costruttivamente complessa fatta di strati e contrappunti; logico, quindi, che una assidua frequentazione reciproca (e del materiale) è assolutamente necessaria perché tutto funzioni a dovere - e ciò sarebbe stato possibile con solo una manciata di concerti alle spalle? (Per non parlare di cose quali "l'orologio biologico" che rallenta, e con esso i tempi, e così via.)

Se è vero che la cosa non ci ha fatto piacere, non possiamo dire di essere rimasti sorpresi quando ci siamo accorti che Lobster Leaps In non era come ci saremmo augurato che fosse. Gli ingredienti c'erano tutti: belle composizioni, ottime performance strumentali, varietà, senso della misura... Eppure c'era qualcosa che non andava, come se stavolta il gruppo avesse deciso di semplificare il proprio atteggiamento strumentale procedendo in direzione di un assetto "solista più ritmi" che a ben vedere contraddiceva quella che era stata la sua estetica distintiva (ma quella decisione sarebbe stata coerente con un minore affiatamento). E dato che nessuna esigenza "esterna" ci imponeva di far di fretta, sì che la recensione apparisse in contemporanea alla pubblicazione dell'album, abbiamo deciso di continuare ad ascoltarlo.

Così facendo ci siamo trovati sempre più spesso a operare dei confronti diretti tra Lobster Leaps In e il suo antecedente più prossimo, Beauty Based On Science (The Visit). E qui, fatto curioso, ci siamo accorti che ogni volta che ascoltavamo l'album più vecchio abbassavamo il volume e diminuivamo gli acuti. Mentre il contrario avveniva con Lobster Leaps In. Il che ha fatto sorgere più di una perplessità.

E così, dopo un mese e mezzo di ascolti a buon volume e con acuti "generosi", siamo pervenuti alla seguente conclusione: Lobster Leaps In è davvero un buon album. Non "un capolavoro" o quello che avrebbe potuto essere con un centinaio di concerti (è troppo aggiungere "ben retribuiti"?) alla spalle. Ma un album dove il suono registrato "nasconde" buona parte di quelle preziosità di arrangiamento che rendono il tutto degno di essere indagato. Qui l'ascoltatore è chiamato a un piccolo sforzo di indagine in più, come forse con i nuovi prodotti non usa più. Ma diremmo che ne valga la pena.

Con l'eccezione del primo brano - una composizione di Wayne Horvitz con la quale il gruppo apriva spesso i concerti - qui il repertorio è equamente diviso tra Phillip Johnston e Joel Forrester. Sperando che il lettore perdoni l'eccesso di semplificazione, diremmo i brani del primo più brevi e maggiormente inclini a un contrappunto "stretto", con quelli del secondo a dare maggiore spazio agli assolo. Dal Dixieland a Ellington, da Monk a Carla Bley, qui c'è molto della storia del jazz "che conta". Non sapremmo dire se per caso o in riconoscimento di un affiatamento giocoforza minore, ci è parso notare un maggiore ricorso che in passato al "mid-tempo". E anche l'ombra di Charles Mingus ci è sembrata affiorare più spesso di un tempo.

Ottimi i fiati: il preferito da chi scrive è senz'altro Dave Sewelson, versatile e pungente baritono, ma non sono da meno Mike Hashim al tenore (al posto dell'abituale Paul Shapiro), Don Davis all'alto e Johnston al soprano. Belli e versatili come sempre i tre strumenti "ritmici", con il pianoforte di Forrester, il contrabbasso di Dave Hofstra e la batteria di Richard Dworkin talvolta un po' sacrificati per i motivi sonori di cui s'è già detto ma in grado di ben figurare comunque, specialmente quando la situazione si fa numericamente più raccolta.

La concisa Night Train Express di Horvitz apre il CD: swing, scattante, con bei contrappunti e ottimi assolo (nell'ordine: soprano, alto, tenore, baritono e pianoforte).

Diremmo la lunga Disconcerto For Donnie, di Forrester, soprattutto un veicolo per il sax alto di Don Davis. Bella apertura sax alto/pianoforte, entrano poi uno scanzonato calypso, e un tema sbarazzino con belle armonizzazioni. Una variazione "drammatica" a 5' ca., cui fa seguito una chiusa efficace.

Lobster Leaps In è un tema scattante di Johnston, tra il poliziesco e il cartoon, suonato coralmente dall'ensemble. In veloce successione, assolo di sax alto, tenore, e baritono (quest'ultimo con bel contrappunto degli altri fiati, sulle prime non facilmente avvertibile).

Got Lucky è un altro bel tema di Johnston dall'articolazione complessa. C'è un bel momento in trio - pianoforte, contrabbasso, batteria - poi qualcosa di swing/mariachi. Si segnala un buon assolo di sax soprano quasi "Dixieland", con sottofondo dell'ensemble e gustoso contrappunto del baritono.

Lies è un altro tema di Forrester. Introduzione affidata a sax tenore e tamburi, pianoforte, poi si apre in un tema dalla melodie e dall'orchestrazione che diremmo "mingusiane". Ottimi gli intermezzi di piano e gli assolo di soprano, pianoforte e baritono.

Life's Other Mystery di Johnston è swingante e non poco R&B, con un tema affidato al sax tenore; segue un cambio di registro e atmosfera affidato a contrabbasso, batteria e sax baritono, cui fa seguito un assolo disinibito di tenore. Coda del tutto inattesa in ¾ a partire da 5' 30" ca., agrodolce, a chiudere.

Almost Right di Johnston è concisa, con tema non poco "mingusiano" (mancano solo le trombe sordinate), bell'uscita di solo piano più ritmi, e un buon solo di sax baritono contrappuntato dai fiati.

La lunga Money Money Money di Forrester ci è parsa l'unico momento debole dell'album in ragione di una lunghezza forse ottimale su un palco ma qui eccessiva. Ottimo inizio (quasi un qualcosa di Mingus con Dennis Charles a tenere il tempo sul piatto), e ottime parti di contrabbasso e sax baritono. A partire da 3' c'è un bel momento sornione che però dura troppo.

Lt. Cassawary di Forrester è un altro tema jazzato con buona apertura affidata ai fiati, assolo di pianoforte più ritmi, uno "scontro" di sax alto e tenore, un solo di sax baritono, poi un lungo assolo di soprano dalle movenze non poco lacyane. Tema e chiusa.

Twilight Time Zone di Johnston è un brano danzante, scanzonato, multitematico, con bella orchestrazione e un buon assolo di sax tenore seguito da uno di soprano. Unisono millimetrico dei fiati, poi il sax soprano a portare alla chiusa.

The Big Squeeze di Forrester è per certi versi il brano preferito da chi scrive, e un'ottima chiusa per l'intero album. Belle frasi melodiche a passare tra i fiati, mid-tempo, contrappunto del soprano. A 3' ca. spunta uno swingante 4/4 con i fiati a procedere in parallelo. Sax soprano, poi da 5' 04" un arpeggio ciclico del piano con il sax baritono e il soprano un po' "free" (in senso mingusiano) e una bella scansione di piatto in mid-tempo. Mossa dalla cadenza "swing" a partire da 8', chiusa e fine.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2008

CloudsandClocks.net | Dec. 7, 2008