Jasun Martz
The Pillory/The Battle

(Under The Asphalt)

Siamo rimasti discretamente sorpresi, qualche settimana fa, nel trovare nella nostra buca delle lettere un "oggetto misterioso": un pacchetto proveniente da New York, da un mittente a noi sconosciuto, contenente un doppio CD e una ricca rassegna stampa che sul frontespizio portava le scritte "115 musicians!", "2 1/2 hours of music!" e "200 million years into the future...". Artista titolare: Jasun Martz, coadiuvato dalla Intercontinental Philarmonic Orchestra e dal Royal Intercontinental Choir. Le note di accompagnamento al CD dicevano di una ricca e certo non comune biografia nella quale saltava subito agli occhi una collaborazione con... Frank Zappa! Strano che, da fan accaniti quali riteniamo di essere, non ce ne ricordassimo. Una lettura attenta rivelava che il ruolo ricoperto da Martz era stato quello di programmatore del gigantesco sintetizzatore modulare della Emu Systems che Zappa portava in giro nel 1977 e che era suonato da Eddie Jobson. E' proprio quella l'occasione da cui scaturisce la partecipazione di Jobson e di Ruth Underwood all'album di Martz intitolato The Pillory: Mellotron + Orchestra, per dirla in breve, e una miscela di stili che ha trovato numerosi estimatori tutte e tre (!) le volte in cui l'album è stato stampato: 1978, 1981 e 1994.

Tipico del più classico "originale americano" il retroterra di Martz: batterista quindicenne, poi polistrumentista, programmatore di sintetizzatore, millemestieri, scultore e pittore - un'attività, quest'ultima, che ci è parso di capire sia attualmente quella principale. Progressive e musica classica moderna e contemporanea, elettronica non esclusa, sembrano essere le principali aree di riferimento della concezione musicale di Martz, cui è però tutt'altro che estranea una visione "pittorica" che a tratti ci ha riportato alla mente i Mnemonists di Horde. Certo è che questo The Pillory/The Battle è un lavoro di difficile classificazione; il che diremmo essere tutt'altro che un male, considerato che la maggior parte della musica oggi prodotta sembra innanzitutto preoccuparsi di fugare ogni possibile ambiguità sì da trovare agevolmente il proprio pubblico di riferimento. L'unica cosa che il disco chiede all'ascoltatore è una certa pazienza nel seguire svolgimenti che certo non procedono a passo spedito; Martz sembra decisamente prediligere l'affresco su tela ampia: con i suoi 5'40" il brano # 5 è di gran lunga il più breve; mentre il # 7, che occupa per intero il secondo CD, dura la bellezza di 74'.

Se ben capiamo, parte dei musicisti ha registrato nello studio di Marz; altri, da tutto il mondo, hanno spedito in vari modi i file delle loro esecuzioni; Martz ha poi assemblato il tutto in digitale. Un procedere che, a ben considerare, oggi non è certo rivoluzionario, ma che sembra ben adattarsi alla natura "episodica" di molta di questa musica (l'unico brano dotato di un feel ritmico molto deciso - quasi uno zappiano King Kong riletto in chiave prog con solo di violino e di tastiere - vede la maggior parte degli strumenti suonati dallo stesso Martz).

Si potrebbe forse sostenere che l'album è più stimolante che riuscito. La cosa curiosa è che, mentre il numero di cose che accadono è senz'altro elevato, nei momenti più convenzionalmente "musicali" sembra mancare una certa "necessità" del procedere. Se le parti forse definibili come "paesaggi sonori" - l'attacco del primo brano, la prima mezz'ora del settimo - sono senz'altro molto riuscite, non altrettanto ci sembra di poter dire di quelle maggiormente orchestrali; ed è certo che il momento "minimale" - per numero dei componenti, se non per filosofia compositiva - che va dai 29' ai 42' del secondo CD sembra necessitare di una particolare predisposizione da parte dell'ascoltatore.

Il concetto che è detto essere alla base del lavoro, e che spiega perché i sette brani si chiamano tutti Battle, non ci è parso di molta utilità; poco male, dato che la musica si regge bene lo stesso. Con i suoi 22' di durata, Battle 1 naviga agevolmente fra soundscapes, cori e Mellotron, mentre la successiva - e orchestrale - Battle 2 non sempre convince. Battle 3 è il quasi-progressive di cui sopra che sfocia senza soluzione di continuità in quella Battle 4 che si chiude con un bell'episodio percussivo. Al Mellotron e all'organo a canne di Battle 5 e ai bei climi "astratti" della convincente Battle 6 è affidata la chiusura del CD. Il lunghissimo brano del CD 2 ci è parso forse la cosa migliore dell'album, sol che si abbia la (pazienza è parola poco appropriata, diciamo quindi) giusta propensione all'ascolto. Ascolto che diremmo dovrà essere di necessità tutt'altro che "new age", dato il carattere sovente teso e nervoso di questa musica. Una cadenza di violino e voce femminile, a circa 67', porta a conclusione un lavoro originale, senz'altro meritevole di essere ascoltato.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2005

CloudsandClocks.net | June 5, 2005