Mike Keneally
Scambot 1

(Exowax)

E così, dopo un'attesa di anni, ecco finalmente Scambot, o per meglio dire il Volume 1 di quella che al momento in cui scriviamo viene detta essere una trilogia. E oggi, quando una lunga serie di ascolti ci ha ormai convinto al di là di ogni ragionevole dubbio dell'altissima qualità del lavoro, è il momento di ammettere che molte erano le nostre paure a proposito di Scambot, e che le nostre aspettazioni risultavano colorate quasi in ugual misura da speranza e da ansietà.

Il perché è presto detto. Annunciato come qualcosa di molto simile a un "concept album" o a una "rock opera", Scambot prometteva una lunga/lunghissima durata (un doppio album poi divenuto un triplo), una storia che si articolava in una fitta trama con dialoghi e personaggi, una parte grafica raccolta in un libro che si indovinava di notevoli dimensioni e una gestazione senza alcuna scadenza prefissata: tutti fattori che a nostro avviso costituivano le perfette precondizioni di un disastro (anche se ci accorgevamo di immaginare tacitamente Scambot come maggiormente somigliante a Joe's Garage che a Tommy).

Ma Keneally è riuscito a sorprenderci ancora una volta. Come illustrato nel corso di alcune interviste effettuate a ridosso della pubblicazione dell'album (e coerentemente con quello che immaginiamo essere stato un approccio altamente fluido alla materia), la musica, la storia (e i personaggi) e la parte grafica si sono influenzati a vicenda in tutti i momenti della creazione.

Quale il risultato "pratico"? Un album di lunga ma non lunghissima durata, un libretto che contiene una storia, una ricca parte grafica, i testi delle canzoni (ma l'album è in larga parte strumentale), vicende e personaggi che il fruitore è chiamato più a "immaginare" che a "vedere". E speriamo che Keneally non se la prenda a male se diciamo che l'album risulta all'atto pratico del tutto "autosufficiente" in quanto a resa emotiva, e perfettamente in grado di prescindere dal libretto.

E il risultato "in musica"? Qui, posto che ogni ascoltatore avrà senz'altro le sue preferenze in materia, non abbiamo timore di dire che Scambot 1 ci ha entusiasmato come da tempo non ci accadeva con i lavori di Keneally. Nota la nostra predilezione per Sluggo!, diremo che Scambot 1 può senz'altro esservi accostato, quanto meno (i due album essendo alquanto diversi) in termini di grande varietà delle situazioni musicali e sonore presenti.

E proprio notare quanto l'album suoni unitario nonostante la forte eterogeneità di climi musicali e formazioni strumentali può essere un buon punto di partenza per una veloce descrizione. Qui il Keneally produttore, ben coadiuvato da Scott Chatfield quale produttore esecutivo, è riuscito a dare coerenza a materiale registrato in studi e con tecnici diversi nel corso di un decennio. Impossibile non citare il "chief engineer" Mike Harris, il cui lavoro può senz'altro essere additato quale esempio pratico a quanti (giustamente) lamentano la mancanza di profondità e di altezza in tanti album incisi oggi (qui un buon esempio sono alcune parti vocali spazialmente estese "in altezza" e che pare quasi di poter toccare).

Se non sono poche le occasioni nelle quali Keneally suona tutti gli strumenti (più di una volta ci è capitato di rimanere stupiti leggendo sul libretto che il basso e la batteria erano suonati da lui), non mancano bei nomi: Evan Francis a sax, flauto e clarinetto (una presenza, e dei colori strumentali, che ci farebbe piacere ascoltare più spesso sugli album di Keneally); l'usuale "quartetto rock" con Rick Musallam, Bryan Beller e Joe Travers; lo straripante batterista Marco Minnemann, che ha spesso sovrainciso su materiale preesistente; il contrabbasso di Beller; e un folto drappello di musicisti olandesi a fare una gran bella figura.

Scambot 1 è vario ma coerente. Presente, come logico, tutta la tavolozza musicale e timbrica di Keneally, l'influenza di Zappa è una presenza sempre più implicita; e laddove il debito pare più evidente - si veda l'assolo chitarristico di We Are The Quiet Children - diremmo ciò maggiormente dovuto alle scansioni poliritmiche di Minnemann, qui decisamente memore del lavoro di Chad Wackerman. L'orchestrazione e la varietà di un brano come Gita mostrano il Keneally compositore ormai definitivamente in grado di padroneggiare con sicurezza un linguaggio complesso. E se non possono mancare gli amati "accenti inglesi" (i Beatles/XTC su Hallmark, l'inserto vocale Gentle Giant su Life's Too Small) sorprende non poco l'improvvisa apparizione di "very wonderful Northettes" sul brano finale, DaDunDa (e qui, per la serie "questo nome non mi è nuovo", il libretto dice trattarsi di Jesse Keneally in sovraincisione).

L'album parte con un buffo inserto televisivo (Big Screen Boboli), passa a uno strumentale che dice molto in pochissimo tempo (Ophunji's Theme), approda a una preziosa ballad con notevole apporto pianistico e bellissimo inciso (Hallmark), offre una composizione timbricamente ricca (quasi un pezzo da Hot Rats arrangianto per King Kong) dove musicisti olandesi (tromba, trombone, violino, sassofoni, chitarre, percussioni e tastiere) si muovono con destrezza (Chee); seguono una canzone per quartetto rock che comprende il solo Keneally (Tomorrow), una mutevole composizione in due parti (Cat Bran Sammich) separate da un brano la cui melodia ci ha non poco ricordato Michael Mantler (You Named Me), un brano ponte (Saturate), un breve intermezzo (M) e una ballata chitarristica acustica che si ricorda con vero piacere (Cold Hands). Undici brani per trenta minuti.

Ed è qui che l'album decolla davvero, con i sette brani restanti a prendere trentotto minuti. Nata come pura improvvisazione per chitarra e batteria, We Are The Quiet Children è stata successivamente orchestrata fino ad assumere una veste decisamente complessa, e lo stesso vale per Foam, che porta l'insieme a una logica conclusione. Dopo il breve intermezzo di The Brink, Life's Too Small apre con una bella melodia per voci multiple arricchite da echi e riverberi; dopo un intenso assolo di chitarra elettrica incorniciato dagli armonici di due chitarre acustiche giunge a una seconda parte che tratta della coscienza e della memoria la cui polifonia vocale giunge direttamente dal songbook dei Gentle Giant, e perviene a una terza parte vocale e strumentale che sarebbe eufemismo definire "decisamente intensa". Forse il brano più insolito, Behind The Door è scarna e meditabonda, quasi una riflessione a mezza bocca; toccante il finale, che lasciamo all'esplorazione dell'ascoltatore. Nata come composizione per quartetto d'archi, Gita è il complesso e vario lavoro di cui s'è già detto. Ricca di chitarre acustiche e parti vocali multiple di Keneally cui si aggiungono le Northettes di cui sopra, DaDunDa porta l'album a una più rilassata conclusione.

(C'è anche una versione limitata con un CD aggiunto che diremmo indispensabile per gli aficionados keneallyani. Tutto materiale interessante: vere "musical extravaganza", alcuni demo e alternate mix, una ballata acustica non da poco intitolata Broken Chair, la lunga The 3rd Eye che vale numerosi ascolti, e i Credits finali a incorporare un omaggio zappiano decisamente sottile.)

Beppe Colli


© Beppe Colli 2009

CloudsandClocks.net | Dec. 12, 2009