Barry Guy New Orchestra
Oort-Entropy

(Intakt)

Se parliamo di jazz, il rapporto tra singolo e ensemble - unitamente a quello a esso correlato concernente la relazione tra composizione e improvvisazione - ha una storia lunga quanto quella del jazz stesso. Quanto indietro si vuole andare può anche essere una mera questione di comodità argomentativa: Duke Ellington? Count Basie? Fletcher Henderson? Fin troppo facile, poi, ricordare il famoso detto ellingtoniano secondo il quale per cucire la parte giusta per un musicista bisogna prima vederlo giocare a poker. In teoria, fin qui siamo nell'ambito del già largamente storicizzato e acquisito; solo in teoria, però, come l'ascolto delle interpretazioni di Scott Joplin e Jelly Roll Morton fatte dal trio degli Air sull'album Air Lore (1979) aveva reso evidente.

Ornette Coleman che prende l'aereo per New York è l'episodio convenzionalmente indicato quale momento a partire dal quale il jazz d'avanguardia non verrà mai più assimilato nel mainstream. Ma anche qui non è difficile operare dei distinguo e retrodatare tutto, a partire da una formazione orchestrale con un piede nella tradizione e uno nell'avanguardia che faceva benissimo tutt'e due: l'Arkestra di Sun Ra; qui il vastissimo programma di ristampe operato dalla Evidence consente di avere il solo imbarazzo della scelta, da parte nostra diremmo The Magic City (1965) introduzione perfetta. Anche sulle forme di Charles Mingus per ensemble medio-ampio si potrebbe discutere a lungo - e qui il riferimento obbligato (e che qualcuno potrebbe definire fin troppo scontato: ma quanto è realistico dare oggi per scontata la conoscenza di un album pubblicato nell'ormai lontano 1963?) è senz'altro il lavoro che ha per titolo The Black Saint And The Sinner Lady.

Quello economico è ovviamente da sempre uno dei fattori principali che sconsigliano di intraprendere strade logisticamente troppo accidentate. Testimonianze orali, quindi, per la celebratissima Experimental Band di Muhal Richard Abrams, ed esperienze tardive - e per più versi episodiche - per Ornette Coleman e Cecil Taylor. L'atmosfera prevalente in periodo free sembra inoltre sconsigliare un approfondimento delle tematiche compositive, ed è con non poco sospetto che viene vista l'esperienza della Jazz Composer's Orchestra di Michael Mantler, che in Communications (1968) organizza cornici orchestrali per il pianoforte di Taylor. In fondo è lo stesso sospetto nutrito per tanti anni nei confronti di un Anthony Braxton, musicista la cui (estesissima, e oltremodo eterogenea) discografia è forse oggi quella che offre il maggior numero di lavori per ampio organico: un campo che lo stesso Braxton ha definito come Creative Orchestra Music.

Quadro senza dubbio complesso anche in Europa, dove discografie originali e interessanti ma in verità mai troppo nutrite sono state ulteriormente falcidiate da un interesse per forza di cose molto ristretto. Stranamente non molto citata (ma perché?) la Brotherhood Of Breath di Chris McGregor: e qui, di quel poco che si trova si può prendere qualsiasi cosa. Capostipite europea, la tedesca Globe Unity Orchestra di Alexander von Schlippenbach, che in album come Improvisations (1977) e Compositions (1979) ha espresso un'interessante dualità; anche qui può valere la regola di prendere quel che si trova. Arriva (instabilmente) fino all'oggi il cammino dell'olandese Instant Composers Pool Orchestra guidata da Misha Mengelberg, formazione che per chi scrive costituisce il perfetto connubio tra (relativa) accessibilità delle forme e (relativa) imperscrutabilità degli intenti.

Pubblicato nel 1972, e fortunatamente ristampato in formato CD, Ode è l'ambizioso atto di nascita della London Jazz Composers' Orchestra guidata da Barry Guy. Eccellente contrabbassista perfettamente a proprio agio nei più disparati contesti strumentali, dal solo all'orchestra, musicista il cui retroterra spazia dal jazz alla musica classica - musica barocca e classica contemporanea incluse - Guy si prefigge di fornire una cornice compositiva di senso compiuto in grado di valorizzare i musicisti nelle loro individualità concrete, facendo quindi tesoro di quelle originali capacità individuali che scaturiscono dalla pratica improvvisativa. La fase più vicina a noi ha inizio con la composizione intitolata Polyhymnia (1987), che insieme ai contributi braxtoniani dell'anno successivo forma l'album intitolato Zurich Concerts. Seppur non nutritissimo (intuitive le difficoltà cui va incontro una formazione ampia e dal carattere stilisticamente tanto composito), il catalogo dell'Orchestra dice di un'ottima qualità e - sorprendentemente - di una non ardua reperibilità. Se è senz'altro difficile indicare un album quale "migliore", non abbiamo difficoltà a confessare la nostra predilezione per Portraits (1994), che a un'alta intelligenza di organizzazione strutturale e a un contributo dei solisti di altissima qualità unisce una piacevolezza d'ascolto davvero non comune.

Spiace doverlo ammettere, ma evidentemente a un certo punto dobbiamo aver data per scontata l'esistenza della London Jazz Composers' Orchestra, preferendo invece concentrare la nostra attenzione sull'attività di Barry Guy in gruppi dal piccolo organico, su tutti il trio comprendente la pianista Marilyn Crispell e il percussionista Paul Lytton; due gli album finora prodotti dal trio, ambedue splendidi: Odyssey (2002) e Ithaca (2004). Ci è quindi del tutto sfuggita, quattro anni fa, la notizia della pubblicazione di Inscape-Tableaux, esordio discografico della Barry Guy New Orchestra. La nuova formazione presentava un organico oltremodo ridotto (dieci elementi, leader incluso, per motivi facilmente immaginabili) e in buona parte rinnovato, anche se molti dei musicisti coinvolti non erano certamente nuovi a collaborazioni con Guy: non mancavano Evan Parker e Paul Lytton, ma c'erano anche gli svedesi Mats Gustafsson e Raymond Strid e il pianoforte della Crispell. Ovvie le difficoltà compositive insite nell'avere un trombone dove prima ce n'erano stati tre, non minori le sfide offerte dal dovere integrare un collettivo molto diverso.

Oort-Entropy presenta la stessa formazione dell'album precedente, con una sola, importante eccezione: Agustí Fernández (già apprezzato nell'Electro-Acoustic Ensemble di Evan Parker) siede al piano al posto della Crispell (ora, pare, assai restia a viaggiare). Le buone note di copertina di Greg Buium ci allertano sul fatto che la lunga composizione divisa in tre parti che occupa il CD recepisce temi già presenti su Ithaca. Per partire dalle conclusioni, diremmo che Guy è riuscito a creare un'entità perfettamente in grado di brillare di luce propria e di non far rimpiangere il più ampio ensemble che l'ha preceduta; diremmo anche che Oort-Entropy non ci è parso all'altezza delle vette raggiunte dalla precedente formazione.

Le voci strumentali non mancano, ovviamente, di personalità. Detto di Parker, ci hanno favorevolmente impressionato Fernández, ora lirico, ora percussivo; Hans Koch, al clarinetto basso; Johannes Bauer - che non ascoltavamo da un bel po' di tempo - al trombone; poi la tromba e il flicorno di Herb Robertson e la tuba di Per Åke Holmlander; ovviamente ottima la sezione percussiva (Lytton e Strid). La prima parte è decisamente concitata, con un bell'inserto calmo, quasi ellingtoniano, a 8' 32"; c'è un bell'episodio trombone/piano a partire da 11' 25"; e un bellissimo momento "sussurrato con armonici" per piano e contrabbasso a 15' 32". La seconda parte, più raccolta e meditativa, è a nostro avviso quella meglio riuscita, tutta da gustare fino alla chiusa con il contrabbasso suonato con l'archetto a produrre armonici. La terza parte si regge soprattutto sul classico soprano in respirazione circolare di Evan Parker, con bello stacco di piano arpeggiato, tuba, clarinetto basso e percussioni a circa 8'.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2005

CloudsandClocks.net | Nov. 2, 2005