Ben Folds Five
The Sound Of The Life Of The Mind

(ImaVeePee Records/Sony)

Saremo sinceri: crediamo proprio che nessuno sia rimasto più sorpreso di noi nell'apprendere dell'avvenuta ricostituzione dei Ben Folds Five, con nuovo album già inciso e immancabile tour a seguire. E non abbiamo alcuna difficoltà ad ammettere che la notizia ci era parsa contraddire il senso di un cammino - quello di Ben Folds, artista solista - per come esso si era sviluppato durante lo scorso decennio, con la molto lodata collaborazione con lo scrittore Nick Hornby denominata Lonely Avenue a costituire l'apice di un percorso, e un nuovo punto di partenza. Ammetteremo che il nostro ritratto è un po' troppo roseo, la verità essendo che - a dispetto di critiche estremamente favorevoli e di una raffinatezza e completezza in senso compositivo ed esecutivo che diremmo oggi con pochi eguali - Lonely Avenue non aveva venduto granché. C'era poi il vociare di quelli che, considerando il cammino di Folds dopo lo scioglimento del trio niente più di una nota a piè di pagina, ne reclamavano a gran voce la ricostituzione - per poterne poi dichiarare il tradimento dello spirito originario? Da parte nostra - ancora fresco il contratto di Folds con la Nonesuch - speravamo invece in una seconda puntata della riuscitissima collaborazione con Hornby.

Non saremo certo noi a negare quelle qualità - intelligenti e comunicative a un tempo - che hanno reso i Ben Folds Five uno spumeggiante anacronismo nel panorama musicale statunitense degli anni novanta. Riascoltati oggi, i tre album di studio incisi dalla formazione - l'esordio Ben Folds Five (1995), il platino Whatever And Ever Amen (1997), con il successo di Brick, e il molto pensato The Unauthorized Biography Of Reinhold Messner (1999) - non ci sembrano aver perso in freschezza e personalità. E certo questo era un gruppo che non puntava le sue carte solo su quanto fatto in studio, una bella e grintosa caratura strumentale essendo una delle caratteristiche che rendevano i concerti del trio qualcosa di poco comune.

Ma sarebbe assurdo non tenere in debito conto l'ampliamento di orizzonti del lavoro di Folds, come ben testimoniato - ci limitiamo qui all'essenziale - da album quali Rockin' The Suburbs (2001), Songs For Silverman (2005), Way To Normal (2008) e il già citato Lonely Avenue (2010). Il tutto ben riassunto in quella versione tripla di The Best Imitation Of Myself: A Retrospective (2011) che aveva accostato cose celebri, rarità, demo e brani dal vivo sia del Folds solista che del trio.

L'ascolto di quella tripla raccolta rendeva evidente quanto della crescita strumentale (pensiamo solo agli anni di concerti dove il piano non aveva più usufruito del sostegno della sezione ritmica) e compositiva di Folds fosse avvenuta al di fuori della dimensione (la gabbia?) del trio. E riflettiamo su quanto l'operare di un solista/compositore in grado di scegliere liberamente la veste esecutiva che meglio valorizzerà un brano differisca dal comportamento del componente di un gruppo costretto a cercare quelle risorse all'interno del gruppo stesso e ad abbandonare al loro destino quelle composizioni cui non è possibile rendere giustizia.

E come per ogni gruppo degno di questo nome anche i Ben Folds Five erano contraddistinti da un suono, laddove la batteria versatile di Darren Jessee e il basso sovente distorto di Robert Sledge, e i loro inconfondibili cori, si univano al pianoforte e alla voce del compositore principale. Un modo senz'altro piacevole di riflettere sulla cosa è quello di paragonare il groove del trio come visibile nel DVD-V intitolato The Complete Sessions At West 54th, contenente esibizioni filmate a cavallo tra il secondo e il terzo album, e quel Live At My Space che vedeva le tastiere di Folds affiancate dalla sezione ritmica formata dal batterista Lindsay Jamieson e dal bassista Jared Reynolds. Mentre un doveroso apprezzamento non può non andare alla formazione dalla strumentazione allargata che appare su Lonely Avenue, come ben dimostrato dai brani dal vivo registrati lo scorso anno presenti nella già citata raccolta.

Una riunione dei Ben Folds Five in effetti c'era già stata, anche se del tipo "una volta e basta": nel settembre del 2008 il trio aveva infatti partecipato alla serie di MySpace denominata Front To Back eseguendo per intero l'ultimo album inciso, The Unauthorized Biography Of Reinhold Messner. Ma dobbiamo ammettere di non aver attribuito la giusta importanza ai tre brani inediti incisi per l'occasione inclusi su The Best Imitation Of Myself: A Retrospective, da noi considerati solo come un modo per incoraggiarne l'acquisto da parte dei fan storici. Con l'eccezione del brano di Folds, non si trattava certo di roba memorabile, con Tell Me What I Did di Sledge a costituire poco più di un divertissement e la Stumblin' Home Winter Blues di Jessee a farsi ascoltare con simpatia. Posta in chiusura del primo CD, la House di Folds era invece una pagina altamente drammatica, con il sintetizzatore a echeggiare quella veste orchestrale che così appropriatamente Paul Buckmaster aveva donato a Lonely Avenue.

E siamo all'oggi. Avendo deciso di riunirsi, i tre hanno fatto ricorso a una sottoscrizione tra i fan tramite PledgeMusic (i nomi dei donatori appaiono come "Vice Presidents Of Promotion" nel libretto che accompagna il CD). Stampato su etichetta personale distribuita dalla Sony, The Sound Of The Life Of The Mind è stato pubblicato il 18 settembre. E mentre cercavamo di decifrare i testi dei brani - non riportati sul CD! - abbiamo dato un'occhiata alle recensioni statunitensi che abbiamo avuto modo di leggere in Rete. Ci sentiamo di dire che "entusiasmo" non è il sentimento provato dalla gran parte dei recensori. Come prevedibile, la gioia di poter riascoltare il vecchio trio è temperata dalla delusione per un lavoro tutt'altro che memorabile. Da parte nostra crediamo che la fretta di consegnare un testo in contemporanea alla data d'uscita abbia avuto una non piccola parte in questa sottovalutazione: niente affatto difficile, l'album condivide con Gaucho degli Steely Dan (al quale non somiglia affatto) la peculiarità di "uscire" con gli ascolti. E che una certa fretta abbia contraddistinto le reazioni di alcuni colleghi è dimostrato anche da sorprendenti fraintendimenti testuali (come si può considerare "rivolto alla ragazza del cuore" un brano la cui prima parola è "Dad"?). Come da noi largamente previsto, all'album è stato anche rimproverato un "eccesso di maturità".

Produzione di Joe Pisapia e di Folds, registrazione e missaggio opera del fido Joe Costa, registrazione (diremmo in analogico, in ogni caso i risultati sono eccellenti) avvenuta nello studio di Folds e nello studio House Of Blues, ambedue a Nashville, masterizzazione (ottima) di Stephen Marcussen al Marcussen Mastering, Hollywood, California. C'è anche il vinile (da noi mai visto né sentito). Curiosamente, i dieci brani sembrano funzionare meglio quando visti sulle due facciate di un LP: se i primi brani riportano immediatamente a quelle caratteristiche che non pochi considerano quelle che contraddistinguono il trio, la fantasia si allarga con i brani successivi; e lo stesso avviene cambiando facciata - su CD, proseguendo nell'ascolto.

Anticipando il giudizio finale, diremo che il trio è riuscito nell'intento di riproporre quella che era stata la miscela originaria senza però far finta che il tempo non sia passato. Folds ci è parso aver scelto i brani che meglio si attagliano a strumentazione e personalità del trio (in due brani compare un quartetto d'archi). Ma le sorprese non mancano.

Erase Me è tesa e frammentata, con una resa sonora cangiante a rispecchiare il pezzo. Cori in evidenza, a volte con tinte minacciose, e un finale strumentalmente agile (con uno "splice" che sembra - immaginiamo volutamente - fatto male).

Michael Prytor, Five Years Later ci immerge immediatamente in un'atmosfera vocale alla Beach Boys. L'emergere del basso elettrico ci fa volgere il pensiero ai Beatles, e in generale a una parte "muscolare" della British Invasion, tra gli Small Faces e i Kinks (curiosamente, un piano echizzato "stretto" sembra rimandare al Nicky Hopkins della celeberrima introduzione a Death Of A Clown).

Unico brano composto da Darren Jessee, Sky High vede la presenza di "voci celestiali" che rimandano alla I'm Not In Love dei 10cc. E' un'asciutta ballad di bella essenzialità, con il rullante con cordiera e il contrabbasso suonato con l'arco.

The Sound Of The Life Of The Mind vede un testo di Nick Hornby, piuttosto coraggioso, dati i tempi (è l'elogio di una ragazza che studia). Bel "lancio" del ritornello, ottimo "call and response" vocale, e un ottimo inciso dove il basso ricopre il ruolo di un violoncello.

Stupore iniziale per On Being Frank, il cui attacco vocale riporta alla mente Frank Sinatra, come da storia: quella (immaginaria) narrata dal suo tour manager. Archi arrangiati da Paul Buckmaster, e una interpretazione da parte di Ben Folds che ricorda non poco lo Scott Walker orchestrale nel suo periodo classico.

Si gira facciata.

Draw A Crowd è una canzone rock/funky che diremmo tipica del trio. Forse il momento compositivamente più debole dell'album, è senz'altro in grado di funzionare in concerto.

L'incedere pianistico serrato di Do It Anyway ci ha ricordato il Mose Allison di Parchman Farm/New Parchman. Grintosa e tesa.

Hold That Thought ha una melodia che all'inizio ci ha richiamato alla mente il Tom Petty di Wildflowers, complice un bel rullante con cordiera molto Steve Ferrone. In realtà l'esecuzione di questa limpida melodia dal sapore "country" si è progressivamente rivelata come affine ai Phish - e anche la voce di Folds ci è parsa qui stranamente simile a quella di Trey Anastasio. Bell'organo Hammond con Leslie - c'è un momento in cui pare di vedere la tromba del Leslie ruotare - e una bella frase di piano e basso all'unisono, anche questa non lontanissima dai Phish.

Away When You Were Here è forse il momento più atipico, che più "country" non si può, già a partire da un classico "luogo" narrativo: l'inanellarsi delle generazioni - e qui si possono agevolmente richiamare alla mente la Still Fighting It dal primo solo di Folds e quella Tomorrow Never Comes che giunse sul finire dei Creedence Clearwater Revival. E a pensarci bene non occorrono più di un paio di contorsioni mentali per poter ascoltare il brano interpretato dal John Fogerty dei giorni migliori ("inciso" escluso, ché queste sono modulazioni composte al piano). Archi arrangiati da Folds.

Chiude Thank You For Breaking My Heart, con rubato in ¾ e melodia che ricorda il doo-wop a cavallo tra i cinquanta e i sessanta, la Laura Nyro di It's Gonna Take A Miracle e il Philadelphia Sound filtrato dal primo Todd Rundgren. Piatti e contrabbasso di grande appropriatezza. Piano finale quasi monkiano.

La recensione finisce qui.

Come già detto, una scorsa alle recensioni apparse negli Stati Uniti ci ha detto di un procedere poco attento in misura che diremmo senz'altro superiore a quanto oggi tipico per l'ambiente di riferimento.

A colpirci in modo particolare è stata una recensione apparsa su Pitchfork a firma Stephen M. Deusner in data September 20, 2012. E non per la severa valutazione (3.5/10) quanto per la miseria del contenuto. Siamo stati indecisi se farne menzione, soprattutto perché ultimamente in Italia la qualità di quanto pubblicato è così bassa che temiamo che, in maniera opposta alle nostre intenzioni, una recensione come quella di cui qui si dice possa finire per funzionare da fattore consolatorio, suggerendo la paradossale conclusione che "se un giornale come Pitchfork è capace di scrivere simili cazzate allora dopotutto noi non siamo poi messi così male".

Quello che stupisce è il livore e il veleno sparsi a piene mani contro album e musicisti, uno sparacchiare ad alzo zero dove non si salvano né la copertina ("infognata negli anni novanta": ???), né il tono narrativo ("Nelle nuove canzoni predilige la prospettiva dei pigri, dei trascurati, dei non inseriti, degli esclusi, e non perché si identifica con loro ma perché essi costituiscono bersagli migliori", un'asserzione che l'ascolto dell'album rende impossibile) né il tono vocale, e si prendono cantonate dettate dalla furia cieca frutto del puro livore: "Il brano che dà il titolo all'album è il suo rifacimento di Fame: Mentre tutti gli altri ragazzi sono fuori a divertirsi mischiando "cherry cola e Scotch," una ragazza resta a scuola e studia: "It's noisy out there, it rocks like a mother," lui canta, e potrebbe essere commovente se Folds non sembrasse preferire lo stare fuori a fare baldoria". Solo che il testo non dice: "It's noisy out there" ma "It's noisy up there", laddove "up there" designa - come da titolo! - Il suono della vita della mente: quella della ragazza, e dei prodotti mentali che altre menti hanno inventato.

Ma Folds deve avere qualcosa che eccita l'ostilità di un tipo particolare di mente mediocre. Ne fa fede la recensione di The Unauthorized Biography of Reinhold Messner apparsa su Pitchfork in data April 27, 1999 a firma Brent DiCrescenzo (valutazione 3.3/10). Una recensione che inizia con "Da quando mi sono trasferito a Chicago non faccio che imbattermi in gente famosa" per poi proseguire con "Ho ho! Non ho certo bisogno del conforto di Albini per essere convinto ad assalire il nuovo lavoro di Ben Folds, ma è stato bello accorgermi che c'era qualcun altro al mio fianco."

Ci aspettano tempi durissimi.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2012

CloudsandClocks.net | Sept. 28, 2012