Emily Bezar
Exchange

(DemiVox Records)

E' assolutamente lecito ipotizzare che il nostro definire Angels' Abacus (2004) come "l'album commerciale di Emily Bezar", al quale solo tempi tristemente mutati avrebbero negato la possibilità di diventare il suo Court And Spark (qui il riferimento era ovviamente all'album di Joni Mitchell che trent'anni prima aveva sancito con tutti gli onori il definitivo ingresso della musicista di origini canadesi nel mainstream statunitense), non dimostrasse in realtà che la grandezza del nostro errore di giudizio. Ma dobbiamo ammettere che, in un senso che non sapremmo neppure ben definire, in qualche modo confuso ci avevamo sperato; pur coscienti di quanto possa essere in salita la strada di chi pubblica un album autogestito e pressoché privo di budget per la promozione, in special modo oggi che la quantità di materiale a portata di orecchio (l'espressione "in vendita" comincia con tutta evidenza a non attagliarsi più alla realtà dei fatti) rende pressoché impossibile la circostanza che "la qualità salga alla superficie".

Pubblicato a cinque anni di distanza da quel Four Walls Bending che in un senso molto elastico potremmo definire il suo "Capolavoro Prog" di grandeur floydiana, Angels' Abacus era apparso abbracciare i "tempi moderni" nel suo abbinare suoni asciutti e financo batterie elettroniche alla "tortuosità espressiva", alla sontuosa tavolozza strumentale e ai modi vocali più tipici della Bezar. Uno spirito più fresco, forse, nel suo fare musica, e sedici brani in poco più di settanta minuti a dire di una nuova concisione.

Sono passati quattro anni, ed ecco Exchange. E' un lavoro che a un primo ascolto ci ha fornito più di un motivo di perplessità, poi - ci fa piacere poter dire - del tutto scomparsa con il progredire degli ascolti. Già a un primo esame del libretto, dieci brani in più di settanta minuti dicono di un ritorno a modalità espressive meno concise, e forse più ambiziose. La dicitura che l'album è stato registrato e missato da Justin Phelps, lo stesso di Four Walls Bending, sembra annunciare un ritorno alle atmosfere "Prog" di quell'album, cosa confermata dall'attacco duro, massiccio, con "gruppo rock" al completo, di Saturn's Return. Tutto l'album ci forniva sulle prime una curiosa sensazione di déjà vu, come se la Bezar avesse deciso di fare un ripasso di modi, stati d'animo, situazioni musicali già apparse sui quattro lavori da lei già incisi.

Ma una frequentazione attenta ha ribaltato i termini della questione. E' vero che in un certo senso Exchange è un passo "di lato", e non il "passo in avanti" (maledette metafore spaziali!) che per più versi era stato Angels' Abacus. Ma accettata la mancanza di sostanziali novità va detto di un controllo sulla forma che raramente abbiamo sentito così completo. Di una tavolozza timbrica - piano acustico, elettrico, synth analogici e digitali, più archi e fiati (veri) - e di una moltitudine di voci perfettamente al servizio delle composizioni. E anche il suono dell'album, che immaginiamo nato e cresciuto in ProTools, abbina limpidezza dei rapporti tra suoni a un calore "analogico".

Come ai vecchi tempi, Exchange necessita del giusto tempo per essere apprezzato. Il lettore è quindi invitato a completare con l'ascolto le veloci impressioni che seguono.

Come già detto, Saturn's Return è l'apertura decisa. "Piano elettrico" (davvero molto espressivo su tutto l'album, e che diremmo sintetico), chitarra su un riff angolare, basso e batteria "inchiodati", pianoforte, una melodia "instabile", gran lavoro in sottofondo sui due canali, con tastiere ed echi vocali. Una sezione B più ariosa, la seconda volta con un insieme che pare frutto di una combinazione di tastiera più violino. Un inciso complesso (o forse due? a 2' 55" e 3' 10" - piace dire che gli incisi sono ancora una caratteristica distintiva della Bezar), e a circa 3' 30", dopo una ripresa della sezione A, un assolo di pianoforte su ritmica "dura" (i Gentle Giant! - e dobbiamo ammettere che un paio di volte sull'album il pensiero è andato davvero allo storico gruppo, nella sua versione "batteria dura"). Citiamo qui Mark Bernfield, batteria, Dan Feiszli, basso, e Michael Ross, chitarra.

Anything They Say ha a tratti le movenze della bossa jazzata, con bella ritmica, sintetizzatori, accelerazione e "stop" a 1' 57", un inciso incalzante fatto due volte a 3' 15", con "tromba" del synth e contrappunto del basso, un inciso a 4' 15", di nuovo il "piano elettrico" in evidenza, e un coda maestosa con sintetizzatori.

In un senso molto lato, Lament ci ha ricordato la Joni Mitchell di The Hissing Of Summer Lawns, con voci meditabonde con accompagnamento di pianoforte, contrappunto cangiante di sax soprano, alto e tenore (il musicista è Phillip Greenlief), bei suoni di tastiere, e movimento sui due canali.

Il singolo di successo? That Dynamite. "Minimoog", piano incalzante, basso e batteria "di spinta", medium tempo. Rallentamento, poi andatura sciolta. Inciso a 3' 50 con piano e sintetizzatore, coda strumentale.

Heavy Air è una ballad jazzata-ritmata-quasi Fusion, tempo complesso, contrabbasso, batteria a tenere il tempo sul ride, sax alto, tromba (Chris Grady), di nuovo il "piano elettrico". Aleggia in questo brano un'aria quasi da "New English Jazz", ribadita durante l'assolo di pianoforte, qui sostenuto dai fiati. Una coda "sussurrata", chiusa morbida, quasi bossa.

Strange Man ha voce e "piano elettrico con echoplex", una bella ritmica, cassa grossa e un ritmo a tratti quasi techno, con rullante metallico effettato e una bella combinazione "orchestrale": sintetizzatore melodico a sinistra, "vibrafono" a destra. Bell'inciso a 2' 56", riparte la struttura, e di nuovo la parte "techno", con assolo di pianoforte (di nuovo i Gentle Giant!). In chiusura (siamo quasi a dieci minuti), una miscela di voci maschili ci ha riportato alla mente il coro di monaci di un brano di Walter Becker, Surf And/Or Die, da 11 Tracks Of Whack.

Glory Or Crazy è una ballad pianistica, batteria con le spazzole, basso, melodia classica, chitarra dai toni lunghi, sintetizzatore orchestrale, violini (veri - è Alan Lin), e una melodia molto accattivante. (E' ovviamente la facciata B del singolo!) Inciso con violoncello (è Beth Vandervennet), piano e violini, e una chiusa delicata, con gli archi.

Definiremmo "molto davisiano" l'attacco dei fiati su Climb, brano con pianoforte, batteria jazzata, contrabbasso, tromba, trombone (Jen Baker), sax tenore. Bel solo di sax alto con contrappunto di tromba e trombone (tutti gli arrangiamenti dell'album sono opera della stessa Bezar); c'è anche un assolo di piano con sfondo di fiati, e poi un unisono tromba-linee vocali corali, e assolo di sax alto. Bizzarro!

Il brano più lungo, e che per certi versi ci riporta all'esordio di Grandmother's Tea Leaves, Winter Moon ci è parso costituire in un qualche senso la "risoluzione" dell'album. Tappeto di synth, pianoforte, batteria con le spazzole, contrabbasso suonato con l'arco, poi un'introduzione, quasi un "rubato", con violino. Ed è un brano che lasciamo volentieri all'esplorazione del lettore, con le sue sezioni multiple, il violino dall'eco "raggelato", gli echi vocali multipli in stereo, e la coda improvvisata di violino su un tappeto di synth.

La vera parola "fine" giunge con Exchange, chiusa a mo' di summa per piano e voce che (forse per mancanza di fantasia) accosteremmo al brano conclusivo di Blue (di nuovo la Mitchell!), The Last Time I Saw Richard.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2008

CloudsandClocks.net | Sept. 4, 2008