Art Ensemble Of Chicago
Tribute To Lester

(ECM)

Motivi essenzialmente geografici hanno fatto sì che una sera del 1984 sia stata l'unica occasione in cui ci è stato possibile assistere a un concerto dell'Art Ensemble Of Chicago nella formazione che diremmo senz'altro quella "classica": il quintetto. Gran bel concerto, tra l'altro: visibilmente concentrato e per certi versi al massimo della forma, il gruppo aveva suonato davanti a milleduecento persone in un bel teatro dall'ottima acustica (anche i geni provano piacere a suonare davanti a un pubblico numeroso, competente, curioso, partecipe ed entusiasta - ingenuamente pensavamo dovesse continuare per sempre così...). I classici costumi colorati, e un enorme e luccicante arsenale percussivo e fiatistico che costituiva elemento scenico di per sé.

Per chi scrive il momento culminante della serata era stato il lungo assolo di Roscoe Mitchell su Uncle, ma tutto l'impianto aveva reso benissimo, con l'apporto di ciascuno a coesistere pacificamente in un tutto miracolosamente armonico - e che stili compositivi a ben considerare tanto eterogenei quali quelli di Mitchell, Jarman e Bowie potessero completarsi così bene aveva sempre avuto un che di miracoloso. (Chi volesse farsi un'idea, anche se forse un po' approssimativa - il concerto era stato decisamente più coinvolgente e grintoso - può fare riferimento al doppio Urban Bushmen, registrato nel 1980 e pubblicato due anni dopo: un disco il cui repertorio il quintetto aveva in quell'occasione integrato con materiali da The Third Decade, registrato in quello stesso anno e pubblicato l'anno successivo.)

E' innegabile che a quel tempo il collettivo aveva cessato di essere il luogo dove i cinque facevano confluire le concezioni più personali e avanzate - già allora gli album che avremmo consigliato a chi avesse voluto farsi davvero un'idea del perché l'Art Ensemble era stato un gruppo tanto innovativo e importante sarebbero stati People In Sorrow (1969) - quale ampio affresco di grandiosa originalità - e Fanfare For The Warriors (1973) - quale ideale (e benissimo registrata) rassegna delle singole componenti - piuttosto che i pur sempre pregevoli ma non indispensabili album che il gruppo incideva a quel tempo per la tedesca ECM.

Fu di lì a poco che cominciammo gradualmente a perdere interesse per la produzione del gruppo, con gli album incisi per la DIW che sembravano mancare di vera urgenza e convinzione. The Alternate Express (1989) fu l'ultimo che acquistammo - non male, ma: troppo poco, troppo tardi? Continuammo invece a seguire da vicino la produzione di Roscoe Mitchell, che ci sembrava impersonare degnamente quello spirito di ricerca che era stato una delle caratteristiche del collettivo.

L'abbandono (per motivi personali) di Joseph Jarman, giusto dieci anni fa, privò il gruppo di uno dei sassofoni - e di un contraltare stilistico a Mitchell. E fu con grande sorpresa che quando nel 1999 ci fu data l'occasione di vedere la formazione in quartetto ci trovammo di fronte a un gruppo privo della tromba di Lester Bowie ("E' malato", ci disse tristemente in quell'occasione Mitchell) e con l'aggiunta dell'ospite Ari Brown al sassofono e (soprattutto) al pianoforte. Superata la sorpresa, ci trovammo ad assistere a un ottimo concerto - ma cosa era rimasto dell'Art Ensemble? Posto che la ritmica Favors/Moye è da sempre una delle più versatili e personali del jazz, l'impronta stilistica determinante era senz'altro quella di Mitchell - suo il repertorio - sì che il gruppo avrebbe potuto benissimo chiamarsi The Roscoe Mitchell Trio.

Il che ci porta dritti a questo Tribute To Lester. Scomparso Bowie nel 1999, il trio ha realizzato questo tributo che - registrato due anni fa - viene pubblicato solo adesso, mentre cronache più recenti ci dicono del ritorno - prima concertistico, poi anche discografico - di Jarman.

Intendiamoci: Tribute To Lester è un ottimo album, del tutto privo di ogni quoziente strappalacrime che sarebbe stato forse lecito aspettarsi o sospettare. Ma se è un buon disco - e diamo qui per scontato che i tre suonano benissimo, e che il disco è ben registrato - lo è essenzialmente per la regia di Mitchell.

L'album prova a mettere insieme - e con successo - alcune delle linee stilistiche portanti del collettivo: gli intermezzi percussivi, le arie quasi classiche, il blues, il melodismo ora scanzonato ora lirico, la ricerca, i parossismi sassofonistici. Quello che lo rende un'operazione coronata da successo è senz'altro il controllo, per cui il CD suona più come una suite che come una giustapposizione di momenti. Evidente non appena si sia presa confidenza con il materiale - che, detto tra parentesi, non è affatto di difficile assimilazione - l'andamento ad arco del lavoro, aperto e chiuso da due momenti essenzialmente percussivi: l'incipit di Sangaredi, così dotato di propulsione, e la chiusa dai rintocchi funebri della concentrata (e bellissima) He Speaks To Me Often In Dreams.

La mitchelliana Suite For Lester inanella in pochi minuti tre episodi di grande bellezza: un meditativo per sax soprano, un movimento à la Bach suonato al flauto, una chiusa più mossa al sax basso. Il gruppo rivisita poi un tema bowiano - Zero - in modo coinvolgente ed efficace. Uno dei temi blues più famosi del gruppo, Tutankhamun (chi ricorda la versioni per solo contrabbasso e quella per solo sax basso?), viene riletto in trio. As Clear As The Sun scarta prepotentemente verso l'oggi, in direzione di quelle nenie dal forte sapore nordafricano suonate al soprano in respirazione circolare che Mitchell ultimamente sembra prediligere. Conclude benissimo, come s'è detto, He Speak To Me Often In Dreams, che fornisce al disco una chiusa appropriata e sorprendentemente non retorica.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2003

CloudsandClocks.net | Oct. 23, 2003