Sei anni
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di Beppe Colli
Nov. 26, 2008



E così, nonostante i venti gelidi che soffiano da ogni direzione, Clouds and Clocks è riuscito a raggiungere abbastanza serenamente la boa del sesto compleanno. Resta da vedere se ce ne sarà un settimo, e non perché nel frattempo siano venuti meno lo spirito intellettuale, il gusto e la voglia di fare; piuttosto, è proprio ciò che siamo soliti chiamare la cornice, lo scenario, la trama dei fatti, ad apparire oggi degradato, forse oltre ogni possibilità di ragionevole speranza. Per non dire della sempre crescente povertà di linguaggio e della conseguente difficoltà da parte di molti a intendere un discorso articolato.

Il lettore si prepari quindi a un'analisi "brutale".


Forse nessuna parola fu pronunciata con la stessa frequenza della parola "crisi" durante la... crisi seguita al primo shock petrolifero del 1973-74. Una circostanza la cui gestione fu resa ancora più complessa dalla cessata adesione degli Stati Uniti agli accordi di Bretton Woods e dalla conseguente rinuncia alla parità dollaro-oro avvenute sotto la presidenza Nixon (era il 15 agosto del 1971), la guerra del Vietnam essendo allora in pieno svolgimento. Fu una crisi che, complice il secondo shock petrolifero del 1979, durò molto a lungo. Tanto a lungo che la parola "crisi" divenne di uso così comune, e nei contesti più vari, da diventare di fatto impronunciabile (non mancarono ovviamente articoli intitolati La crisi del concetto di crisi). E per lungo tempo l'unica accezione della parola che non suscitasse ilarità fu in riferimento al bell'album di Ornette Coleman (che purtroppo ci risulta essere da tempo fuori catalogo) intitolato Crisis.

La notizia che la quasi totalità delle testate giornalistiche statunitensi, siano esse di tipo cartaceo o (ce lo saremmo mai aspettato?) "immateriali" come la Rete, sta procedendo a una nuova tornata di licenziamenti si ripete da tempo a intervalli tanto regolari da non suscitare ormai più nulla che non sia la noia (eccezion fatta per i licenziati). Ma la notizia degli ultimi licenziamenti (la vicenda è ancora in corso mentre scriviamo) ha suscitato una certa dose di incredulità, proprio perché essi seguono molto da vicino la tornata più recente. Mettendo insieme testate decisamente eterogenee per tipologia e stato delle finanze, diremo che il settimanale statunitense di attualità Time si preparava a chiudere i suoi uffici di Londra; che lo storico quindicinale statunitense Rolling Stone si apprestava ad apportare dei tagli (pare nel solo settore impiegatizio-amministrativo); mentre il celebre "alternative weekly" newyorkese Village Voice procedeva a nuovi tagli dopo quelli tanto discussi di meno di un anno fa (il lettore ricorderà senz'altro il licenziamento del Decano dei Critici Musicali Statunitensi, Robert Christgau).

Ovvi i motivi: perenne calo del numero dei lettori, diminuzione delle entrate pubblicitarie (parte delle quali migra in direzione della Rete), aumento del costo della carta, e dei trasporti (conta la tendenza di lungo termine, che renderebbe illusorio il calo attuale del prezzo del greggio). Va qui ricordata la gelata dei consumi causati dalla presente recessione, e il conseguente calo di spesa pubblicitaria da parte delle aziende. "Ma più che riflettere lo stato di cose attuale" ci scrivono in assoluta concordia amici statunitensi da noi interpellati "i licenziamenti in atto testimoniano della sfiducia che le cose possano cambiare (in meglio) nel prossimo futuro".

Ma se questo è vero dei quotidiani e dei settimanali e dei mensili di tipo "generalista", è interessante il caso dei giornali musicali per come ci è stato presentato: quale un sottocaso, laddove il calo è un effetto collaterale della diminuzione delle vendite di CD (qui qualcuno aggiunge: della diminuzione del tipo "forte" di interesse di cui il calo delle vendite di CD è sintomo o conseguenza).


Una volta in Rete (anche nel solo caso di una "presenza accessoria"), i giornali hanno sentito forte la tentazione dell'estratto audio (e video) e del Podcast. Parrebbe quasi di essere tornati ai tempi della radio. Qui i pareri sono fatalmente destinati a essere difformi. Se però da una parte il file audio pare costituire una chance alla quale è difficile rinunciare per artisti, gruppi, etichette e distributori "tagliati fuori dal circuito della distribuzione che conta" (che diremmo oggi essere quello delle notizie, e non più quello della distribuzione fisica di beni), rimane forte la sensazione che - laddove venga usato quale "differenziale qualificante" - l'uso dei file (di musica e video) non può non contribuire a segare il ramo sul quale ogni giornale è seduto: quello verbale.

A vedere quegli annunci colorati sui giornali cartacei (ma da quello che ci capita di vedere in Rete, anche lì la situazione non è molto diversa) che magnificano la grande quantità di album recensiti viene da chiedersi a che tipo di lettore essi si rivolgano. Quale sia il lettore che sceglierebbe il giornale A piuttosto che quello B dato che il primo recensisce 250 CD e il secondo "solo" 200. Laddove è chiaro che è già molto se la recensione tipica (dell'uno e dell'altro) offrirà quattro frasette descrittive in senso generalista (il tempo, come ognuno sa, essendo prezioso). Qui verrebbe da chiedere: ma non sarebbe meglio un giornale con quattro o cinque cose approfondite (ma per davvero, non un lavoro "compilativo" da fonti scelte) piuttosto che uno con duecento pensierini buttati giù alla bell'e meglio? In realtà l'alternativa è solo teorica.

Il perché è presto detto: se pensiamo agli anni Sessanta, e al numero limitato di critici e riviste allora operanti, è subito evidente il forte meccanismo di taglio e selezione all'opera. (E non è che gli artisti in attività fossero in numero esiguo, com'è provato dalla gran quantità di mezze calzette che negli ultimi decenni ci si è affannati a vendere quali "giganti sconosciuti" a un pubblico ignaro.) Ma sul singolo oggetto l'ascoltatore tipico effettuava allora un forte investimento in termini di tempo e attenzione. (Recentemente l'avvocato Bob Lefsetz ricordava sul suo blog che negli anni Sessanta una collezione di musica Rock di tutto rispetto era costituita da cinquanta album.)

(E' ovvio che polemizzare con questo tipo di avvenimenti è come litigare con la nebbia e la grandine, ma a nostro parere un processo di selezione e filtraggio, pur discutibile, è sempre preferibile a nessun processo di selezione e filtraggio. Ma è un discorso lungo.)

La prospettiva odierna è assolutamente opposta. E' ovvio che esiste una massa enorme di roba che va pubblicizzata tramite una presentazione non anonima. Questa roba "cerca" il proprio approdo al minor costo possibile, che in un'epoca di possibilità di successo formalmente simili a quelle della lotteria, ma con premi decisamente esigui per gli eventuali vincitori, coincide con i pochi minuti necessari a scrivere una "recensione" dopo avere consultato la "press release" gentilmente acclusa. Le pagine vanno riempite "comunque". Il che crediamo spieghi sufficientemente bene un fenomeno altrimenti di difficile spiegazione: il fatto che recensioni (ma anche articoli e "interviste") di infima qualità vadano "in pagina" invece di essere gettate dentro il cestino.


Ci pare di poter dire che il 2008 non è stato un anno avaro per la buona musica. E se per quanto riguarda la musica che più esce dal seminato di solito basta scavare con un po' di pazienza per trovare qualcosa di buono, diremmo che è da tempo che la musica mainstream non se la passa tanto bene. Unitamente a della buona musica, alcune delle migliori uscite mainstream di quest'anno ci hanno però portato in dono l'amara scoperta del livello davvero infimo al quale oggi si situa una gran quantità di recensioni.

Potrà sembrare la scoperta dell'acqua calda. Ma il fatto è che di solito i materiali più "selettivi" godono di un numero di recensioni davvero esiguo. Dal che consegue che una recensione mediocre può indicare l'infortunio di un singolo recensore, più che un comportamento abituale e diffuso. Per contro, effettuare una ricerca (tramite un motore come Google o un "aggregatore" come Metacritic) a proposito di un titolo che ha avuto un gran numero di recensioni fornisce una base di indagine di ampiezza tale da rendere le conclusioni decisamente più probanti.


A proposito dell'accoglienza riservata al recente album di Ani DiFranco, Red Letter Year, si potrebbe dire: meno male che la DiFranco ha un nuovo compagno e una figlia nata da poco, così almeno le recensioni hanno avuto qualcosa di cui parlare! Detto di una a tratti imbarazzante somiglianza tra il foglio d'accompagnamento a corredo dell'album e alcuni elaborati apparsi sulla stampa, è incredibile quanto poco (o per meglio dire, nulla) sia stato notato il riallineamento ritmico delle canzoni presenti sul nuovo CD.

Non è andata meglio al recente Way To Normal di Ben Folds: detto anche qui di una somiglianza un po' troppo stretta tra il foglio d'accompagnamento e non poche recensioni, sconcerta vedere che il suono di quello che è stato definito uno dei CD peggiori (in termini di compressione) da quando esiste il formato sia passato sotto silenzio. D'accordo per la mancata percezione di riferimenti e citazioni, anche letterali (persino di Crosby, Stills, Nash & Young!). Ma sul suono non c'era proprio nulla da dire? Mentre è bastato consultare un forum di fan e il parere di un tecnico su un blog per trovare conferma e conforto.

(Detto tra parentesi: vediamo come se la caveranno i ragazzi ora che il 2009 si annuncia come "l'anno dei Beatles", quando tutti gli album dello storico gruppo verranno ristampati con una nuova masterizzazione, e anche - per la prima volta in assoluto - in mono! Chissà su quale "piattaforma" verranno effettuati i confronti tra le diverse edizioni...)

La rozzezza e la cialtroneria che è possibile vedere in giro sono ormai praticamente senza limiti. Ci sono perfino recensioni nelle quali il "critico" di turno aggiusta i fatti della storia del rock secondo le sue conoscenze, decisamente "selettive". E non è difficile cogliere un po' dappertutto un tono isterico, il combinato disposto di un'esigenza imperiosa di far vendere e di una assoluta mancanza di fiducia che oggi sia possibile convincere qualcuno a comprare.

Il nostro esempio preferito di cialtroneria per l'anno 2008 è una recensione di Harps And Angels, il recente album di Randy Newman. Di solito musicisti ormai tanto di nicchia vengono recensiti poco, e quindi prevalentemente da gente che sa di cosa sta parlando. Non è, però, una regola ferrea. E' andata bene al Walter Becker di Circus Money, album autoprodotto e quasi autodistribuito, da cui un numero davvero esiguo di recensioni (e anche qui, c'è sempre il foglio d'accompagnamento). Ma l'album di Randy Newman era su Nonesuch, da cui logicamente un numero di recensioni maggiore.

E dato che di Randy Newman conosciamo le idee, e il ricorso alla figura del "narratore inaffidabile", dovrebbe conseguire una cautela automatica nel valutare un suo brano intitolato A Few Words In Defense Of Our Country. Cautela che è mancata al "recensore" che ha definito il brano "patriottico, delirante", dimostrando così di non aver capito un. Scoraggia a quel punto sentire pareri come "guarda che non è neppure tra i peggiori", o "ma non ti ricordi di...?", oppure "ma tanto quelle recensioni non le legge più nessuno". Ed è a questo che siamo arrivati, a riporre tutte le nostre speranze nel fatto che una cosa non venga notata? E se chi legge - fosse anche uno solo - si trovasse a credere grazie a quella recensione che Randy Newman è una specie di "falco di destra"?


E il pubblico? Dolenti note. Per accennare velocemente a un argomento molto serio, crediamo che questa sia la prima crisi economica globale a proposito della quale è possibile leggere autorevoli commenti scritti da premi Nobel - con un intento anche divulgativo - su quotidiani accessibili gratuitamente in Rete (e in traduzione italiana non più tardi di un paio di giorni dopo). Eppure la consapevolezza dei reali termini della questione - una questione che interesserà la vita di tutti, che lo si voglia o no - pare essere del tutto assente.

Il pubblico è in tutt'altre faccende affaccendato. E lo strumento degli "aggregatori" - l'ultimo in ordine di tempo è il The Daily Beast di Tina Brown, il cui motto è "Read this, skip that" ("Leggi questo, salta quello") - promette di mettere a nostra disposizione solo quello che ci interessa davvero, e nient'altro. Il che, nella cornice odierna (per tipo di interesse, tipo di attenzione, natura "episodica" e non "cumulativa" delle esperienze, e il riportare tutto al proprio metro di "eccellenza" - che è poi quello di un reality), può avere conseguenze spaventose.

I media tradizionali a stampa - che costituiscono ancora il cardine attorno al quale le fonti in Rete si muovono - bene o male reggono ancora. Chissà cosa succederà quando non ci saranno più. Per quanto riguarda la musica lo sappiamo già.


© Beppe Colli 2008

CloudsandClocks.net | Nov. 26, 2008