Joel Forrester/Phillip Johnston
Live At The Hillside Club

(Asynchronous Records)

E' indubbiamente strano vedersi nuovamente costretti a qualificare due musicisti che nel corso di una ormai pluridecennale carriera molto hanno fatto, e nei contesti più svariati, come "gli eterni co-leader del Microscopic Septet". E la circostanza è resa amaramente ancor più buffa dal fatto che la notorietà dei "Micros" - che ovviamente è cosa ben diversa dalla stima loro tributata dalla critica - può tutt'al più essere classificata alla voce "gruppi di culto".

Ma almeno per una volta i sensi di colpa che in casi come questo tormentano il critico possono tranquillamente essere messi a tacere. Se infatti l'inizio del rapporto che lega il pianista Joel Forrester e il sassofonista (soprattutto soprano) Phillip Johnston (ambedue, va da sé, prolifici compositori) precede la fondazione del settetto - e lo stesso è vero dell'amore profondo che i due nutrono nei confronti della musica di Thelonious Monk - possiamo ben dire che senza i Micros questo CD non esisterebbe: Live At The Hillside Club è stato infatti registrato nel corso di un breve tour effettuato lo scorso anno dal duo nella West Coast degli Stati Uniti allo scopo di promuovere il bell'album intitolato Friday the Thirteenth - The Micros Play Monk.

Se la presenza di Monk è a volte esplicita (quattro i brani qui interpretati: Well You Needn't, Pannonica, Evidence, Epistrophy), può essere stimolante ricercarne le tracce eventualmente presenti nelle composizioni scritte dai due (una per Johnston, sette per Forrester: i mattoni del duo sono i suoi). Ma l'ascolto dell'album è anche l'occasione per vedere in azione un rapporto strumentale che pur nel rispetto delle singole composizioni (e queste sono indubbiamente composizioni, non temini seguiti da qualcosa di informe) molto deve al "momento", con avvertibile piacere dei musicisti: si veda a mo' di esempio il "Yeah!" di Forrester dopo un frenetico unisono molto ben riuscito su Your Little Dog (è a 6' 11"); oppure il suggerimento di Forrester - "Let's Play Together!" - a pochi secondi di distanza da un altro "Yeah!" di soddisfazione (è a 6' 16") su Pannonica.

L'album è ben registrato e missato (da Bruce Koball). Non sappiamo quanto la nostra impressione sia da attribuire alla circostanza di un ascolto effettuato in cuffia su un lettore CD portatile (di qualità, il laser del nostro lettore principale essendo bisognoso di una visita di controllo), ma sembra davvero di essere sul palco con i musicisti: si sente il piede di Forrester dare il tempo e gli attacchi, gli Yeah! di cui s'è già detto, e un leggero canticchiare partecipe. La cosa che abbiamo trovato strana è che non si sente il pubblico, o almeno gli applausi tra un pezzo e l'altro, ché il pubblico c'è, e qualcuno ha anche la tosse; ragion per cui, quando quasi alla fine dell'album scatta l'applauso (tra I Know What Girls Like ed Epistrophy) si ha quasi l'impressione che gli spettatori siano finalmente riusciti a liberarsi delle corde che li tenevano legati. (Ma è davvero "Sbagliato!" la parola che qualcuno tra il pubblico grida a 3'18" di I Know What Girls Like?)

La musica che qui si ascolta è multistilistica per definizione. Alcuni temi - l'iniziale Bunny Boy, e anche Loser's Blues - possono rimandare a Charles Mingus (quasi inevitabile aggiungere mentalmente ai due temi un'acidula tromba sordinata). Fa capolino un quasi-minimalismo: si vedano gli 11/8 di Second Nature, per solo piano, che Forrester definisce "un incrocio tra Charles Ives ed Herbie Nichols"; e anche l'assolo di piano - un "lock-handed counterpoint" - su Epistrophy. C'è lo Spiritual di Did You Ever Want To Cry (che a chi scrive ha ricordato un po' Wayne Horvitz, e che sarebbe perfetto per un album della Liberation Music Orchestra di Charlie Haden). C'è il brano per solo soprano - Splat - con un frammento arpeggiato quasi "latino". Ci sono momenti dove la mano sinistra produce un perfetto "walking bass" (Bunny Boy, Evidence) e altri dove il sax soprano dà l'illusione di una sezione fiati ellingtoniana messa lì ad appoggiare il pianoforte (Bunny Boy, Well You Needn't).

Più in generale, è bello vedere i due musicisti affrontare con appropriatezza stilistica i climi più vari senza mai dare un'impressione di "generico". Una frequentazione approfondita rivelerà gli intricati meandri che si nascondono sotto la sciolta naturalezza con cui Johnston affronta le musiche più diverse.

In sintesi, un album non "difficile", ma indubbiamente "sottile", cosa che nel panorama odierno equivale a morte sicura. Utili le note di copertina. Bella la parte grafica, con indovinati disegni opera di Vera Varlamova. Un altro centro per la Asynchronous Records!

Beppe Colli


© Beppe Colli 2011

CloudsandClocks.net | Oct. 23, 2011