Emily Bezar
Angels' Abacus

(DemiVox Records)

Siamo certi che più di qualche lettore ricorderà l'acceso dibattito che aveva per tema "la scomparsa della canzone". Un dibattito (ma qui sarebbe forse più appropriato parlare di timore) divenuto sempre più aspro nel corso degli anni ottanta, quando brani basati quasi esclusivamente su costruzioni ritmiche semplici, su inserti parlati e su un infinito mondo di effetti sonori resi agevolmente disponibili dal progredire della tecnologia sembravano destinati a rendere obsolete - di lì a poco - le costruzioni che adoperavano quali loro mattoni melodia, armonia e ritmo. Se già gli inizi degli anni novanta si incaricavano di dimostrare che quelle preoccupazioni erano fortemente esagerate, pure rimaneva innegabile la constatazione che il linguaggio musicale corrente si era di molto semplificato, in termini sia melodici che - e forse soprattutto - armonici; mentre la varietà ritmica era senz'altro diminuita, indirizzata com'era verso una sempre maggiore regolarità. Il tragico connubio con il video aveva fatto il resto.

Grande era quindi stata la nostra curiosità quando una recensione altamente lusinghiera - scritta, se ben ricordiamo, da Robert L. Doerschuck e apparsa sul mensile statunitense Keyboard - ci aveva rivelato l'esistenza di Emily Bezar: una cantante, compositrice e tastierista il cui album d'esordio - Grandmother's Tea Leaves ('93) - era fresco d'uscita, su Olio Records (!). L'ascolto diretto diceva di una grande personalità, di evidenti studi classici, di una bella scioltezza pianistica e di una capacità non comune di creare timbri elettronici di buona individualità. Colpiva la vocalità della Bezar, un soprano le cui movenze di stampo classico costituivano a un tempo la caratteristica più appariscente e l'ostacolo maggiore ai fini di un agevole apprezzamento (ma non è forse, quello fra individualità e fruibilità, un rapporto molto spesso problematico? Pensiamo a Tim Buckley, Peter Hammill e Captain Beefheart - per non parlare di Nico, Diamanda Galas e Dagmar Krause). Curioso come la raggiunta familiarità con la musica presente sull'album consentisse poi di scorgere in filigrana echi che sulle prime mai si sarebbero immaginati possibili: Joni Mitchell?!?

Il seguito, Moon In Grenadine ('96), risultava non poco spiazzante. Per eseguire le nuove canzoni la Bezar decideva infatti di concentrarsi quasi esclusivamente sul pianoforte, e - soprattutto - di imbarcare un "trio rock". L'album allargava inoltre lo spettro stilistico in direzione di un pianismo jazz che difficilmente si sarebbe sospettato essere patrimonio della musicista, che si concedeva prestazioni strumentali di tutto rispetto. Certo, la coerenza dell'insieme veniva non poco a soffrirne. E l'album mancava di quella particolare magia che aveva contraddistinto il disco d'esordio. D'altra parte, avrebbe avuto senso incidere due volte lo stesso album? Ma per chi scrive il problema principale era soprattutto un altro: che mentre Grandmother's Tea Leaves aveva adottato un approccio strumentale "a strati", con la Bezar intenta a suonare quasi tutto in prima persona, Moon In Grenadine ricorreva a un atteggiamento "dal vivo" in cui la personalità dei singoli musicisti è elemento decisivo; e qui, spiace dirlo, i tre aggiunti si rivelavano "competenti", "adeguati", ma assolutamente non all'altezza della titolare. Per cui il brano che alla fine rimaneva più in mente era quello conclusivo, Ever Mine, con i suoi echi di Ellington e Monk e la Bezar in solitudine.

Registrato in caldo e superbo analogico, Four Walls Bending ('99) era per molti versi un passo avanti, pur se anch'esso risultava eccessivamente composito. Un album "scuro" dove veniva fuori una sorprendente grandeur non poco floydiana e dove facevano capolino momenti in cui un linguaggio più "pop" sembrava voler prendere forma (Lead, Black Sand). La Bezar tornava ad affiancare altre tastiere al sempre pregevole pianoforte e a dedicarsi a un sapiente sound design. Ottima vocalità, belle composizioni, anche qui il brano finale, His Everything, è forse quello che più rimane nel ricordo. E anche qui, fermo restando la bontà dei risultati, chi scrive si ritrovava a rimpiangere la dimensione (quasi) "solo" dell'album d'esordio. O almeno a provare a immaginare un lavoro in cui gli elementi aggiunti fungessero solo da cornice - e qui gli esempi di produzione che venivano in mente erano senz'altro quelli di John Cale con Nico e di Tchad Blake con Lisa Germano.

Ci piace poter dire che quell'album ora esiste, ed è il nuovo Angels' Abacus. Un album che ci ha davvero spiazzato e che a patto di non essere presi troppo sul serio definiremmo lo splendido "commercial album" della Bezar. Sedici brani in quasi settantatre minuti, Angels' Abacus risulta fortemente unitario nonostante la grande varietà stilistica. Frutto di due session differenti - tre brani incisi in Inghilterra con Tim Pettit alla coproduzione, gli altri registrati a Berkeley, California, con l'assistenza di Jon Evans - il repertorio dispone con lucidità gli elementi strumentali a contorno della voce (splendida) e al servizio della composizione; il che non vuol certo dire che gli interventi strumentali siano anonimi - tutt'altro! (si ascolti quale esempio la parte di basso di Laurence Cottle su Losing The Middle.) Basso e batteria (anche "finta") si affiancano alle molte tastiere della Bezar, pronta a usare con maestria anche qualche diverso tocco strumentale (chitarra, tromba, flicorno, violoncello).

I brani iniziali (Latitude, Right Back At Me) non mancano di sorprendere chi già fan. Non più, comunque, del quadretto di complessità e brio quasi Bacharach di Walk That Blade, con tromba e agili cori, e della bossa che apre In Delay. Ascolti successivi dicono di un cambiamento più apparente che reale: complice una registrazione eccellente e una struttura la cui chiarezza è frutto di attenta meditazione, la maggior parte dei pezzi non rinuncia a quelle (liriche) tortuosità tipiche della Bezar - si ascolti l'inciso di Losing The Middle, lo sviluppo di In Delay, il lirismo di Heaven To Pay, con chitarra e flicorno. La title-track costituisce in un certo senso lo spartiacque del disco. A seguire, brani più spogli e intimisti - Scirocco, Suncrash - si alternano a cose sorprendenti: Continental Slide, con batteria elettronica e frenetica coda pianistica su un ostinato vocale; In My Sky, dallo sviluppo melodico impossibile da dimenticare; la già citata Walk That Blade. La lenta Cast In Ice potrebbe essere una perfetta chiusura per l'album; seguono invece la frammentata Metronome e la triste - e decisamente maestosa - Night Boats.

Complimenti a una musicista che si è saputa reinventare rimanendo se stessa e che ha prodotto un album al quale solo un ben diverso clima commerciale impedirà di essere il suo Court And Spark.

Beppe Colli


© Beppe Colli 2004

CloudsandClocks.net | Nov. 7, 2004